Al centro di piazza Micheli, nei pressi del porto di Livorno c’è un
monumento chiamato dei quattro mori.
In origine i quattro mori, ovvero quattro schiavi di religione musulmana,
non erano presenti nel complesso monumentale. C’era solo Ferdinando I. La
statua, tutta in marmo bianco, venne commissionata nel 1595 a Giovanni Baldini.
Lo scopo era naturalmente quello di glorificare il granducato di Toscana. Era
stato proprio Ferdinando a dare lustro a Livorno (pur non essendone lui il
fondatore) facendola diventare un porto tra i più influenti del Mediterraneo e
una piazza tra le più rinomate contro i pirati barbareschi. Ferdinando, come
gran maestro dell’ordine di Santo Stefano, non solo aveva fermato i corsari, ma
aveva dato al cristianesimo una pirateria altrettanto capace e crudele. Gli
stefaneschi (e non solo loro) non erano secondi a nessuno nel saccheggio, nello
stupro e nel far schiavi.
Per molto tempo la statua bianca del granduca restò ai margini della città.
E fu letteralmente dimenticata. Ma un certo punto si decise di intervenire,
perché era di vitale importanza per il granducato chiarire ai cittadini e ai
visitatori il potere di Ferdinando e di Livorno stessa. Per questo nel 1621 fu
commissionata un’aggiunta a un altro scultore, Pietro Tacca. Quattro schiavi
“mori” incatenati vennero messi ai piedi di Ferdinando. Con quell’immagine di
uomini sottomessi e umiliati Livorno voleva dire al mondo che la sua ricchezza
(e la sua stessa nascita) era dovuta alla tratta degli schiavi e allo
sfruttamento del mare.
I quattro uomini sono tutti di rara bellezza. Solo di due si sa il nome: un
vecchio turco dal viso segnato chiamato Alì e un giovane africano di nome
Morgiano, che lo scultore aveva studiato dal vivo nel famoso bagno della città,
una fortezza dove gli schiavi sono stati imprigionati per secoli.
Guardandoli, guardando soprattutto Morgiano, si nota quanto il suo viso
somigli ai tanti Morgiano che oggi, nel 2016, lavorano come braccianti agricoli
sottopagati in Puglia, in Sicilia, in Piemonte. Uomini che lavorano tra le
dodici e quattordici ore al giorno per cifre irrisorie.
Morgiano, un uomo del 1600, ha gli stessi occhi dei vari Mamadou, Pape,
Ramadi che per pochi spiccioli raccolgono le mele, i pomodori, le carote, i
ravanelli destinati al nostro mercato ortofrutticolo sempre più affamato di
braccia. Un mercato che vuole produrre tutto l’anno, vuole le fragole a
gennaio, ma non è disposto a sborsare un euro in più per avere quello che si è
prefissato. Una nuova schiavitù che spesso viene quasi considerata un male
necessario. Ed ecco che più di cinquemila donne rumene nel ragusano non solo
sono sfruttate fisicamente nei campi, ma lo sono anche sessualmente da caporali
e padroni. Per questo sindacalisti come Yvan Sagnet denunciano la situazione e
si mettono a capo di proteste difficili che costano fatica e costanti minacce.
Ed è stato proprio Sagnet a ricordare al festival èStoria 2016, dedicato al tema
della schiavitù, che “secondo il rapporto Agromafie e caporalato,
prodotto dalla Flai Cgil nel 2015, sono circa quattrocentomila i lavoratori
italiani e stranieri vittime del fenomeno del caporalato nel nostro paese”.
La schiavitù in Italia è una realtà nel 2016. Per fortuna ci sono tante
persone come Yvan Sagnet che cercano di rompere il muro di omertà che circonda
il fenomeno. Basti citare la recente protesta dei circa duemila
braccianti indiani sikh dell’agro pontino che hanno incrociato le braccia e
sono scesi in piazza a Latina, grazie a un’iniziativa della Flai Cgil, che
legava il loro sciopero a quello di altri lavoratori del settore. La protesta è
nata per rivendicare non solo salari più equi, ma anche per vedere affermata la
loro la dignità di esseri umani.
Rimuovere il passato per occultare il presente
Spesso i luoghi delle schiavitù del terzo millennio in Italia si
sovrappongono a quelli delle schiavitù del cinquecento, seicento e settecento.
È come se da allora non fosse stato enunciato l’articolo 4 della Dichiarazione
universale dei diritti umani, che dice: “Nessun individuo potrà essere tenuto
in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi
saranno proibite sotto qualsiasi forma”.
L’Italia si dimostra a tratti reticente sull’argomento, e il silenzio sulla
tratta che ha interessato l’alto medioevo fino a circa metà dell’ottocento
sembra essere non solo un modo per rimuovere il passato ma anche per occultare
il presente.
Quando pensiamo alla schiavitù le immagini che ci balenano subito in mente
sono quelle dei campi di cotone in Louisiana, o dei mercati di schiavi in
Alabama. Nessuno quasi mai pensa a Trapani, Messina, Napoli, Venezia, Livorno o
Roma come luoghi di schiavitù.
Ma lo sono stati. E spesso lo sono ancora.
Basta guardarsi intorno per ritrovare tracce di questa sopraffazione un po’
in tutta la penisola.
La schiavitù dei secoli antichi, va detto subito per chiarezza, era
reciproca. Molti europei finivano sotto il dominio degli ottomani. Città come Tunisi,
Tripoli, Algeri e Salé pullulavano di spagnoli, italiani, francesi, inglesi,
persino islandesi, resi schiavi. Ci sono molte testimonianze su queste
schiavitù bianche, alcune illustri come quella di Miguel de Cervantes, che fu
schiavo ad Algeri per cinque anni. Il futuro autore del Don Chisciotte raccontò la sua esperienza nella
commedia El trato de Argel e riprese più volte il tema in
altri testi teatrali come La gran sultana, El gallardo español e Los baños de Argel. Ma se di questa storia sono
rimaste reminiscenze in testi e persino in melodrammi (oltre a Cervantes
pensiamo a L’italiana in Algeri di
Gioacchino Rossini), di quello che succedeva agli altri (ovvero africani,
arabi, turchi) sappiamo solo attraverso fonti private e materiale di archivio.
Anche se, per capire, basterebbe osservare il paesaggio, notare per esempio che
nella toponomastica e nell’arte sono rimaste tracce di questo passaggio di
dolore.
Ci sono molti quadri che rappresentano la schiavitù in Italia. Basti
pensare alla schiavetta di Lorenzo Lotto, vestita di arancione, che corre
esausta dietro a un bambino birichino nel quadro Santa Lucia davanti al giudice (1532), conservato
alla pinacoteca di Jesi; o allo schiavo agghindato di Marco Marziale in piedi
vicino a Gesù e preda di una struggente malinconia nella Cena di Emmaus (circa 1506). E come dimenticare i
mori incatenati a forma di candelabri che punteggiano le sale della
settecentesca Ca’ Rezzonico a Venezia? Ed ecco che spuntano gondolieri di
origine africana in Vittore Carpaccio (1465 circa–1525/1526) o un
bell’adolescente vestito di bianco, orgoglioso ma sottomesso, in un ritratto
del pittore Alessandro Longhi (1733–1813).
Sette milioni di schiavi nel Mediterraneo
E poi, in un ipotetico tour alla ricerca degli schiavi mediterranei, non
dovrebbe mai mancare una visita alla basilica di Santa Maria gloriosa dei
Frari, sempre a Venezia. Una chiesa piena di tesori, dalla tomba del Canova,
all’Assunta di Tiziano. Ma quello che più colpisce è
il monumento al doge Giovanni Pesaro, collocato nella navata sinistra della
chiesa. Il doge è una figurina in alto, quasi irraggiungibile. Sotto, quattro schiavi
mori portano il peso del monumento sulle loro spalle. Il loro aspetto è
brutale. I vestiti sono strappati e sporchi. Lo sguardo torvo, l’aspetto
animalesco. Non sembrano quasi umani. Gli occhi iniettati di sangue e fatica.
Occhi pieni di odio e di morte.
E se non bastasse l’arte, andrebbero esaminati a fondo i visi degli
italiani. Sono in tanti ad avere nelle loro vene il sangue di avi vissuti in
schiavitù provenienti dalla Turchia, dal Senegal, dall’Albania, dal Marocco. Ce
lo ricorda un bel volume storico, uscito di recente, dal titolo Schiavi. Una storia mediterranea (XVI-XIX secolo) di
Salvatore Bono, che si era già occupato della materia in altre opere, tra cui
il notevole Schiavi musulmani nell’Italia moderna, galeotti, vu’
cumprà, domestici. Sfogliando il volume di Bono scopriamo
subito che la schiavitù mediterranea ha riguardato sette milioni di individui:
africani (soprattutto dell’Africa occidentale e del Corno D’Africa), arabi,
turchi, spagnoli, francesi, ebrei, ucraini, magiari, greci, tedeschi,
scandinavi. Nessuno è scampato al flagello. Ma se in altri testi l’attenzione
era tutta per gli schiavi europei in territorio islamico, Bono cerca di essere
equidistante e racconta anche l’odissea degli schiavi musulmani (e non solo,
l’autore parla anche degli schiavi africani di religione animista) nello spazio
di mezzo costituito dal mar Mediterraneo.
Nelle pagine dei suoi volumi l’Italia ha un ruolo importante. Scopriamo con
meraviglia che uno dei più grossi centri schiavistici era Napoli. Nel 1661 la
città contava più di ventimila schiavi e avere uno schiavo era quasi alla
portata di tutte le tasche e non solo di quelle aristocratiche. Anche la Sicilia,
con i grandi mercati di Messina e di Trapani, era una piazza importante. Dalla
metà del quattrocento alla prima metà del cinquecento l’isola fu al centro del
commercio della canna da zucchero. Le Americhe le avrebbero fatto concorrenza
più in là. Per questo ebbe bisogno di braccia, che vennero prese dall’Africa
occidentale. La Sicilia, in quegli anni, era di fatto una piccola Alabama.
Se di Livorno si è già detto, Bono e altri storici hanno sottolineato
l’importanza delle città rivierasche per quanto riguarda la tratta. Ad
alimentare il mercato erano i saccheggi sulle rive magrebine, le guerre contro
l’impero ottomano (la guerra di Candia e la battaglia di Lepanto) e gli assalti
alle navi corsare concorrenti. Uno schiavo poteva essere venduto per soli otto
ducati fino ad arrivare alla cifra record di 107 ducati. Gli anziani e i
bambini costavano pochissimo, gli adolescenti moltissimo. Il mercato chiedeva
uomini sani e integri, forti abbastanza da poter sopportare il duro lavoro nei
campi o per non soccombere troppo in fretta al remo di una galera. Gli schiavi
erano oggetti di scambio, potevano essere ricevuti come premio o addirittura
ereditati.
A volte, come ci ricorda Salvatore Bono, c’erano richieste specifiche da
parte dei futuri compratori. Come quella di Cosimo III che scrisse ad Alì
Pascia di mandargli “due giovanetti negri eunuchi di tenerà età, che non passi
il 14, o li 15 anni, che non abbiano il naso ritorto o schiacciato come la
maggior parte di quella nazione, né patischino di fantasia”. Lo stesso Cosimo
chiese poi che gli fosse inviato un “uomo negro con capelli lunghi”,
probabilmente un tuareg. Dello schiavo dovevano essere segnalati i difetti.
Dire se aveva avuto il vaiolo, se era “guallaruso” (ovvero con un ernia) o
“fuitaro” (con la propensione alla fuga). A volte era accompagnato da
raccomandazioni, come ricorda Bono citando il caso di un etiope di 12 anni, il
cui venditore rassicurava il futuro proprietario garantendogli che il giovane
“non ha mal caduco e non caca e piscia a letto”.
Naturalmente gli schiavi soffrivano di malinconia e per le violenze subite.
Morivano spesso di morte violenta e le donne venivano quasi sempre violentate
dai padroni. I bambini cadevano in mano di pedofili senza scrupoli e anche chi
aveva la fortuna di non essere abusato sessualmente doveva subire una vita di
stenti, di lavori e orari estenuanti. Infanzie e giovinezze rubate, passate
dietro al bestiame o legati a un remo, senza vedere quasi mai la luce del sole.
Un inglese di nome William Davies scrisse un testo, la Veridica istoria, che fu un best seller della
letteratura di viaggio del seicento. Davies, cerusico e fervente calvinista,
racconta di come era dura la vita in schiavitù nelle galere di Livorno. Gli
schiavi venivano rasati, testa e barba, ogni dieci giorni. Non avevano quasi
vestiti, tranne alcune brache di lino. “La miseria delle galere”, scrive
Davies, “è inconcepibile e inimmaginabile”. Un universo che lo storico Fernand
Braudel definì, secoli dopo, concentrazionario. Chi non sopportava quelle
torture cercava, spiega Davies, di suicidarsi o di uccidere i superiori. E
quando non stava in galera, doveva trasportare pietre e detriti.
I santi neri in Italia
C’era però chi non si suicidava e cercava di far del suo percorso schiavile
una sorta di cammino di redenzione. In Italia, come in altri paesi europei, era
molto difficile riuscire a emanciparsi dalla schiavitù e a costruirsi una
posizione, contrariamente al mondo islamico, dove questo era spesso possibile.
Furono tanti gli schiavi diventati importanti comandanti o politici dopo la
conversione all’islam. In Italia, invece, si registra solo l’esigua presenza di
santi neri, soprattutto in Sicilia, provenienti dalla schiavitù. I più noti tra
questi furono Antonio di Noto e Benedetto di San Fratello. Giovanna Fiume
in Schiavitù mediterranee.
Corsari, rinnegati e santi di età moderna fa un identikit
di questi due uomini, entrambi neri, uno catturato da pirati siciliani e fatto
schiavo, l’altro nato da genitori etiopi già schiavi. La loro devozione fu
forse dettata dalla necessità, ma sta di fatto comunque che questi santi neri
alleviarono, almeno spiritualmente, l’oppressione dei tanti che vivevano in
condizione servile. Peccato però che tutto questo non servì a convincere la
chiesa in primis che la schiavitù era un errore. Nel
momento di fare schiavi l’interesse economico era maggiore dell’umanità. Anche
lo stato pontificio, infatti, usava schiavi nelle sue galere che partivano da
Civitavecchia.
La schiavitù mediterranea durò fino all’inizio dell’ottocento. Poi tutto fu
messo nel cassetto, dimenticato, rimosso. Ma ora, nel ventunesimo secolo, la
storia si sta ripetendo negli stessi luoghi. Quello che avviene oggi ai tanti
senegalesi o indiani impiegati nell’agroalimentare è parte di uno stesso
disegno di oppressione, che lega l’antico al moderno.
Ed ecco che Morgiano, il Morgiano di Livorno, ci guarda. È giovane, bello,
ancora in catene dopo secoli. Chissà cosa pensa guardando il nostro mondo. La
schiavitù è un cancro che diffonde ovunque le sue metastasi. Oggi ogni volta
che prendiamo un pomodoro in mano, o una pesca o una mela, dobbiamo pensare
alle mani di chi ha raccolto quel frutto, ai suoi sogni infranti. Per
denunciare questa situazione il musicista Sandro Joyeux, tre anni fa, ha
deciso di suonare nella tendopoli di San Ferdinando, dove molti braccianti
agricoli, per la maggior parte di origine africana, vivono in situazioni
precarie e in condizioni igieniche spaventose. Così è nato l’Antischiavitour
che ha portato Joyeux da Rignano a Saluzzo, fino ad arrivare a Rosarno. Luoghi
di sfruttamento, che sono diventati anche luoghi di lotta. Luoghi dove si può
cominciare a pensare a un futuro diverso dal passato. La strada è lunga, ma il
primo passo è stato fatto.
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