Mi è parso
strano, in questi giorni, che quasi nessuno si sia ricordato del disastro
del Vajont (9 ottobre 1963; 1.910 morti). Anche quella
era una meraviglia dell’italica genialità dell’ingegneria del cemento armato:
la diga più alta del mondo, inaugurata pochi anni prima. Anche allora la società privata che la gestiva (la
Sade) – e con lei tutte le autorità statali e le principali fonti di
informazione – preferì ignorare gli allarmi pur di non interrompere la
produzione e deprezzare i propri capitali. Ma potremmo citare centinaia
di altri casi di tragedie provocate dal collasso di infrastrutture e impianti
produttivi industriali.
Per non
andare lontano da Genova pensiamo all’incendio della petroliera Haven (11
aprile 1991, 5 morti) e alla ThyssenKrupp (5 dicembre 2007; 5 morti). Certo,
per ogni evento ci sono colpe soggettive rilevanti (anche se quasi mai davvero
perseguite), ma c’è anche una logica comune che sottende il modus operandi di
investitori, proprietari, gestori, autorità regolative e, più in generale, il
pensiero moderno di sviluppo, progresso e prosperità. Pensiamoci per un
istante. E’ stato detto da un allievo dell’ing.
Morandi, progettista del viadotto Polcevera, (intervista al docente Sylos
Labini dell’Università La Sapienza, “Il ponte Morandi è arte”, il
manifesto 17 agosto) che il ponte è stato costruito in cemento armato
tenendo conto “anche al rapporto costi-benefici (…). L’acciaio per
l’economia italiana del periodo era proibitivo, i costi non avrebbero reso
possibile la costruzione dei ponti”. Ho
letto e ascoltato basito che opere pubbliche come quelle in questione sono
programmate per un tempo di vita predefinito di 50-60 anni. Ho pensato agli
acquedotti romani e al ponte di Rialto e ho capito i differenti modi di
concepire le attività umane delle diverse civiltà. Ma pure ammettendo
che la nostra civiltà super-accelerata, iperconsumistica e priva di senso del limite
sia la più moderna e desiderata possibile, perché i suoi progettisti e i loro committenti e
finanziatori non programmano anche le manutenzioni e il fine ciclo dell’opera
preferendo invece spremere il limone fino a bucare la scorza?
Mi è stato
detto che per una grande impresa risarcire i danni di disastri è spesso più
economico che modificare i propri piani produttivi. Non a caso uno dei motori
di questo “sviluppo” sono le società di assicurazione. La logica che guida
l’economia capitalistica è stata sempre quella della remuneratività a breve
degli investimenti. Peccato che questi “utili” siano stati garantiti ai
Benetton e agli altri “capitani coraggiosi” dell’imprenditoria italiana dalle
generose privatizzazioni e svendita del demanio dello Stato avviate dai governi
dell’era iperliberista.
Permettetemi
una antipatica autocitazione (Liberazione, 15
giugno 2006), quando Rifondazione Comunista tentò di bloccare le proroghe
concesse dal ministro Di Pietro alle concessioni autostradali: «E’ del tutto
evidente che le autostrade costituiscono un bene-servizio monopolistico
naturale. Nessuno è libero di scegliere quale
autostrada percorrere. Non è possibile creare alcuna concorrenza tra beni o
servizi unici. Affidare a privati la loro gestione significa regalare una
rendita di posizione. Per “controllarla” servirebbero regole, autorità
di vigilanza, controlli… costosi, mai efficaci e, soprattutto, assolutamente
inutili, solo se la loro proprietà rientrasse in uno schema di regole
pubbliciste.
E’ tempo di fare un bilancio “laico” delle
privatizzazioni. E’ tempo di riproporre la ri-pubblicizzazione della proprietà
di quei beni e di qui servizi che per ragioni di accessibilità universale
garantita (quali l’acqua e l’energia) o per ragioni banalmente materiali, quali
la scarsità e il posizionamento dei suoli, non potranno mai essere merce
scambiabile in mercati davvero aperti e liberi. Se ne stanno accorgendo anche gli imprenditori veri.
I balzelli che servono a realizzare i facili arricchimenti dei gruppi
oligopolisti ricadono non solo sui cittadini, ma anche sulle imprese.
L’ottimo
Massimo Mucchetti sul Corriere Economia ci
segnala che in Florida “la proprietà delle autostrade è pubblica e dunque non
ci sono soci da remunerare e azioni da sostenere” e che in tutti gli Stati
Uniti le “Public Authorities (vere aziende pubbliche di gestione dei beni
comunali, statali, federali) sono un numero così grande che è difficile
addirittura fare un censimento”. Se l’obiettivo deve essere il servizio, non il
profitto, è bene scegliere le forme di gestione davvero più efficienti e meno
costose».
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