un po' come nel film Fuocammare l'isola di Lampedusa è la protagonista del libro e tutto e tutti ci ruotano intorno.
un libro che purtroppo non perde d'attualità e che merita davvero di essere letto, dopo averlo letto capirete perché.
buona lettura.
«Nascerà una epica di Lampedusa. Sono centinaia di migliaia
le persone transitate dall’isola. A oggi, manca ancora un tassello nel mosaico
di questo presente, ed è proprio la storia di chi migra. Le nostre parole non
riescono a cogliere appieno la loro verità. Possiamo nominare la
frontiera, il momento dell’incontro, mostrare i corpi dei vivi e dei morti nei
documentari. Le nostre parole possono raccontare di mari che curano e di mani
che innalzano fili spinati. Ma la storia della migrazione saranno loro stessi a
raccontarla, coloro che sono partiti e, pagando un prezzo inimmaginabile, sono
approdati in questi lidi. Ci vorranno anni. È solo una questione di tempo, ma
saranno loro a spiegarci gli itinerari e i desideri, a dirci i nomi delle
persone trucidate nel deserto dai trafficanti d’uomini e la quantità di stupri
che può subire una ragazza in ventiquattro ore. Saranno loro a spiegarci
l’esatto prezzo di una vita in quelle latitudini in Libia e delle botte prese a
ogni ora del giorno e della notte, della visione improvvisa del mare dopo
giorni di marcia forzata e del silenzio che si impone quando s’alza lo scirocco e si è in
cinquecento in un peschereccio di venti metri che sta imbarcando acqua da ore.
Saranno loro a usare le parole esatte per descrivere cosa significa approdare
sulla terraferma, dopo essere scappati dalla guerra e dalla miseria, inseguendo
il sogno di una vita migliore. E saranno loro a spiegarci cosa è diventata
l’Europa e a mostrarci, come uno specchio, chi siamo diventati noi.»
…Una giovane fenicia fugge da Tiro e
attraversa il deserto fin dove non può proseguire perché davanti a lei si
stende il mare. Per sua fortuna un toro bianco la fa salire in groppa e,
solcando le onde, la conduce a un approdo sicuro sull’isola di Creta. La storia
di Europa, ci ricorda Davide Enia in Appunti per un naufragio,
è la storia della nostra origine. Nel suo libro – per metà narrazione autobiografica e per metà reportage –
Enia dà voce a testimoni e volontari, al personale medico, agli uomini della
Guardia costiera, agli amici che lo ospitano quando torna a Lampedusa.
Sull’isola ha visto sbarcare centinaia di persone, è uscito in barca con i
pescatori, ha conversato con i residenti, ha ascoltato i sopravvissuti.
Lampedusa è un “contenitore di opposti”, scrive, dove convivono emergenza e ipocrisia, burocrazia e solidarietà, paura e coraggio. La paura di chi, affacciandosi alla finestra che dà su una cala, dopo essere stato svegliato da un vocio nel cuore della notte, vede un nugolo di persone avanzare verso casa sua e istintivamente pensa di serrare bene usci e finestre, ma poi si rende conto di quel che succede, spalanca la porta e le accoglie. Con il senso di colpa per aver provato quel sentimento di paura, però, dovrà fare i conti per il resto della sua vita: “Esistono due istinti, solo che uno precede l’altro: il proteggersi e l’aiutare il prossimo, perché anche quello di aiutare è un istinto”…
Lampedusa è un “contenitore di opposti”, scrive, dove convivono emergenza e ipocrisia, burocrazia e solidarietà, paura e coraggio. La paura di chi, affacciandosi alla finestra che dà su una cala, dopo essere stato svegliato da un vocio nel cuore della notte, vede un nugolo di persone avanzare verso casa sua e istintivamente pensa di serrare bene usci e finestre, ma poi si rende conto di quel che succede, spalanca la porta e le accoglie. Con il senso di colpa per aver provato quel sentimento di paura, però, dovrà fare i conti per il resto della sua vita: “Esistono due istinti, solo che uno precede l’altro: il proteggersi e l’aiutare il prossimo, perché anche quello di aiutare è un istinto”…
Oggi esce il libro di Davide
Enia, il romanziere, drammaturgo, attore, regista d’opera, mio compagno e padre
dei miei gatti.
Ho voluto intervistarlo e avviare un dialogo con lui sul suo nuovo romanzo ‘Appunti per un naufragio’ (Sellerio), perché ho il privilegio di avere la fiducia e la confidenza che altri ugualmente o più curiosi non avranno, perché quando si pensa di conoscere bene qualcuno e il suo operato è proprio quello il momento per ricominciare a fargli nuove domande, e per vedere di nascosto l’effetto che fa.
Ho voluto intervistarlo e avviare un dialogo con lui sul suo nuovo romanzo ‘Appunti per un naufragio’ (Sellerio), perché ho il privilegio di avere la fiducia e la confidenza che altri ugualmente o più curiosi non avranno, perché quando si pensa di conoscere bene qualcuno e il suo operato è proprio quello il momento per ricominciare a fargli nuove domande, e per vedere di nascosto l’effetto che fa.
Silvia Giambrone – Apro il libro e la prima cosa che vedo mi commuove: è
dedicato a me. L’onda mi coglie e subito il tuo approdo diventa un mio piccolo
naufragio. È così che si comportano i naufragi, agiscono per contagio?
Davide Enia – Alcuni sì, agiscono così, e permettono di vivere
quello che ho imparato a considerare un grande privilegio: la libertà di mollare
il timone, rinunciando alla sicurezza della propria rotta, lanciandosi dentro
il gorgo, affrontando le onde, emotive e culturali, della propria tempesta,
cercando con ogni stilla di forza fisica, mentale e sentimentale, di giungere a
un approdo.
S. Alludi dunque a un’epica del naufragio.
D. Sì, ma a una epica intima. Credo che questo contagio
del naufragio sia possibile solo se una persona è in qualche modo disposta a
concedersi proprio quel pericolosissimo privilegio che, a volte, può essere il
naufragare. Ciò significa, per l’appunto, rendere intime le parole, lasciando
emergere dalla pagina tracce del proprio vissuto e, in esse, immergersi senza
rete di sicurezza, abbandonandosi alle correnti, sforzandosi di riconoscerne
l’origine e la direzione.
Già il mettersi in una condizione di dubbio, rinunciando alle proprie sicurezze, è una apertura al naufragio. Così come accettare implicitamente l’altro aspetto del naufragio: non avere affatto certezza di un approdo. Ma, una volta guadagnato l’approdo, ecco che ci si erge e ci si accorge, in un istante, di avere mutato il proprio punto di vista, non solo sulla realtà, ma anche su se stessi. Resta il sale sulla pelle, il sapore di un pericolo scampato, la certezza di avere conquistato qualcosa, fosse anche la consapevolezza che si è in grado di abbandonare gli schemi acquisiti.
Già il mettersi in una condizione di dubbio, rinunciando alle proprie sicurezze, è una apertura al naufragio. Così come accettare implicitamente l’altro aspetto del naufragio: non avere affatto certezza di un approdo. Ma, una volta guadagnato l’approdo, ecco che ci si erge e ci si accorge, in un istante, di avere mutato il proprio punto di vista, non solo sulla realtà, ma anche su se stessi. Resta il sale sulla pelle, il sapore di un pericolo scampato, la certezza di avere conquistato qualcosa, fosse anche la consapevolezza che si è in grado di abbandonare gli schemi acquisiti.
S. È intimità quella che hai vissuto con coloro che hai
intervistato?
D. Sì, è stato un rapporto intimo di condivisione di
esperienze di vita dolorose e profonde. Le persone si sono offerte a me aprendo
il proprio scrigno di sofferenza ancora non del tutto elaborata, senza timore
di mostrarsi per come davvero erano: piene di ferite, senza sapere se e quando
quei loro tagli si sarebbero cicatrizzati. Ricordare il passato, rinominarlo, faceva
ancora così male che, a volte, alcuni di loro scoppiavano a piangere, senza
remore alcuna. A volte, invece, le parole proprio gli non bastavano più, e ci
osservavamo senza aggiungere altro. Eppure quel silenzio diceva tantissimo,
come un mare che svela attraverso la propria trasparenza la reale dimensione
dell’abisso. E io, per riuscire a reggere l’onda d’urto di tali emozioni, prima
di scriverne ho avuto proprio bisogno di raccontarli quegli incontri, e l’ho
fatto con te e con pochi amici, processando non solo le loro parole, ma le mie
stesse frasi, chiedendomi quanto mi stesse cambiando ciò che da loro avevo
ricevuto…
… Enia propone un romanzo di grande efficacia, capace
di aprire gli occhi e di far riflettere su questioni sulle quali, ingenuamente,
non ci poniamo domande. Un esempio: leggendo Appunti per un naufragio,
per la prima volta mi sono trovata a chiedermi se sia etico o meno fotografare
gli sbarchi, i migranti sulle spiagge; la questione è marginale rispetto alla
grandezza della testimonianza raccontata da Enia, ma è stata la prima volta che
ho osservato la questione da dentro, e mi sono messa nei panni di uno di loro.
Di fronte all’intensità della storia proposta, la vicenda personale che
l’autore cerca di rielaborare risulta necessaria: necessaria a distogliere
l’attenzione dal naufragio dei barconi e necessaria a riportarcela, perché le
cose vanno di pari passo. Commovente il passaggio in cui lo zio malato di
cancro chiede al narratore: ‘e per me? Ci sarà un approdo per me?’. La
disperazione che viviamo è la stessa, a prescindere dal contesto. Forse ce lo
spiegherebbe un migrante se gli dessimo l’occasione di raccontare.
…Scrivere di naufragi tanto dolorosi, comporta un rischio
enorme, ossia quello che la lingua risulti irrispettosa. Occorre tenersi alla
larga da un lessico che, seppure soltanto in maniera inconsapevole e
accostandosi in senso lato a memorie che non ci appartengono, continuamente
allude alle profondità, agli abissi, al sommerso (del significato) o
all’emersione (del senso). Confesso io stesso di non essere riuscito nella
ricognizione che ho compiuto poc’anzi. Ma persino la cronaca, quando parla per
i migranti di emergenza, sembra prestarsi a un orribile gioco etimologico. Quanto
nella forma degli Appunti
per un naufragio è stato
naturale (trascrizione di note disordinate) e quanto invece orditura secondo un
progetto? E, insieme, c’è stato un lavoro di limatura o di sottrazione,
nell’adesione alla materia insieme intima e pubblica?
La risposta, come capii dopo avere assistito all’approdo di
cinquecentoventitré persone al molo Favaloro, era spietata: la parola fallisce
perché il presente odierno è sconfinato. La prima lezione fu quella del limite:
era già insito nella stessa operazione di scrittura. Nulla avrebbe potuto
essere esaustivo. Non ancora. Perché la parola possa poggiarsi come pietra
angolare di quella cattedrale che è il romanzo è necessario del tempo perché la
parola stessa risulti essere esatta. Il calibro è dato quando il disegno si è
non solo dispiegato, ma è stato ampiamente contemplato, e il trauma è stato
pienamente assorbito. Noi, oggi, possediamo soltanto una parte del racconto, ed
è ciò che sta accadendo da questa parte della frontiera. Manca il racconto o,
meglio, manca a tutt’oggi la piena elaborazione delle vicende di coloro che
sono approdati. E questo vuoto è causato innanzitutto dal fatto che in
moltissimi si trovano costretti a esprimersi in una lingua che non gli
appartiene del tutto, l’inglese o il francese. I loro dialetti, abbandonati al
momento della partenza, non trovano sulle nostre terre orecchie capaci di
ascoltare quelle vicende. Sono lingue pressoché sconosciute. E poi c’è la
dimensione del vuoto legata all’entità del trauma subìto. Ci vogliono anni
perché certi traumi rientrino. A volte ci si riesce, grazie a un paziente
lavoro. A volte la ferita è troppo profonda perché riesca a cicatrizzarsi
completamente. Il punto è che oggi neanche loro – coloro che partono, che
lasciano tutto, che sfidano il deserto, che attraversano il mare – hanno capito
appieno cosa gli è successo davvero. Come per la narrativa che ha narrato la
Seconda guerra mondiale, serviranno anni perché queste persone raccontino a
noi, e a loro stessi, che prezzo ha una vita umana nel deserto, quanti stupri
può subire una donna in un giorno e per quanti giorni di seguito, cosa
significa assistere alla morte in mare del proprio fratello o del proprio
figlio, quale è il senso dell’essere riempiti di botte fino a svenire nelle
carceri in Libia.
Ci vuole ancora qualche anno.
Ce lo racconteranno, senza dubbio.
Sarà la nuova narrativa dei prossimi trent’anni.
Lampedusa diverrà ancora di più un collettore d’epica,
simbolo condiviso essa stessa.
Oggi, l’unico lavoro che la parola può compiere è quello
del cesello su un singolo tassello di questo gigantesco mosaico. Comporre note,
levigare la piccola pietra, interrogare le parole del nostro linguaggio.
Scrivere «Appunti» dunque, tessuti assieme da un ordine ragionato, come tessere
messe una accanto all’altra che, unite, restituiscono un piccolo disegno,
contenuto infine dentro il mosaico finale. E, nel racconto in diretta di questo
presente della crisi, ecco irrompere il mio vissuto personale. È quasi una
sorta di patto con il lettore: io, Davide, sono questa persona, questo è il
rapporto con mio padre mentre mi trovo a studiare la frontiera e l’accadimento
che ha segnato le nostre esistenze è il tumore che ha colpito il fratello di
papà, il mio amatissimo zio Beppe.
In sintesi, sono svelate le operazioni intime che hanno
sostenuto la mia scrittura. Rimettere in discussione la relazione con il
padre, provando a forzare quel punto di vista paternalista decisamente
occidentale per il quale l’altro è in perenne condizione di subalternità.
Rinegoziare dunque il rapporto padre-figlio a partire dal recupero di ciò che,
per una cultura improntata al silenzio come quella meridionale, era stato
assente nella nostra vita: il dialogo.
Utilizzare ciò che è personale come elemento di indagine
per affrontare il presente. Riconoscere un naufragio interiore e
comprendere in che modo siamo sopravvissuti a esso.
Il primo sbarco della mia vita, come accennavo prima, lo
vidi al molo Favaloro di Lampedusa, proprio assieme a mio papà. E qui urge
subito una precisione: sbarco è un termine improprio, perché
le imbarcazioni ormai da anni sono intercettate al largo e scortate fino al
porto. Sono recuperi in alto mare cui segue un approdo vero e proprio. Fin
dall’inizio, il racconto dei fatti è falsato da un uso improprio dei termini.
Lo sbarco riecheggia le invasioni, l’appropriazione forzata di un luogo che non
appartiene. L’approdo invece rimanda a una condizione di partenza che suscita
empatia: il naufragio. Per non cadere nella retorica, la parola deve sforzarsi
di provare a essere esatta. Per decenni si parlava di «clandestini», quando
questa è una condizione che soltanto un magistrato può decidere. Altri abomini
linguistici: la creazione di categorie quali i «migranti economici». Non siamo
più in presenza di una costruzione linguistica. È una operazione politica,
biecamente strumentale.
Nella composizione del romanzo ho registrato le persone con
cui interagivo, per rispettare il loro modo di nominare fatti molto più grandi
di me, e per interrogarmi sulle parole che loro stessi avevano adoperato per
processare quanto esperito in prima persona. Quindi, la prima operazione è
stata quella di pormi in una condizione di ascolto, sottraendo alle parole il
pregiudizio di cui normalmente sono impregnate.
Il secondo passo è stato accettare che anche io ero stato
trapassato, e continuavo a esserlo, da quanto stavo vivendo: i traumi venivano
raccontati a me, le persone scoppiavano a piangere davanti a me, i racconti di
quelle ferite mi travolgevano, ciò che ho visto mi inturciuniàva le
budella. Ho dovuto ammettere a me stesso che non ero in grado di metabolizzare
tutto ciò che stavo incontrando. E ho dovuto accettare l’inesorabilità del
fatto che mio zio stava morendo. Anche per questo ho avuto bisogno di
scriverne, di parlarne, di raccontarlo più e più volte: per creare distanza tra
me e tutto questo.
Ho lavorato la parola per asciugarla e renderla essenziale, di vetro, e come il vetro fragile ma altrettanto trasparente…
Ho lavorato la parola per asciugarla e renderla essenziale, di vetro, e come il vetro fragile ma altrettanto trasparente…
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