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Sono trascorsi pochi giorni dalla doppia strage sulle strade del foggiano,
dove sono morte sedici persone. Come si ripete ogni volta che ci scappano i
morti, all’attenzione dell’opinione pubblica emergono le condizioni di lavoro e
di vita al limite della schiavitù in cui versano migliaia di braccianti nel sud
Italia così come in tanti altri territori della democratica e civilizzata
Europa.
Tra i tanti a prendere parola sono intervenute anche le
istituzioni, tempestive nell’individuare nei caporali il capro espiatorio più
appropriato affinché la colpa di quanto succede possa accostarsi il meno
possibile alle loro funzioni e responsabilità politico governative.
Ancora una volta, il dolore e l’emotività degli avvenimenti rende efficace dire
a gran voce ‘basta al caporalato!’. La stessa retorica in voga
quando impotenti si assiste alle continue stragi dei migranti nel mar
Mediterraneo. Il capro espiatorio in questo caso sono gli scafisti,
perfino appoggiati senza prova alcuna dalle Ong, denominate da alte cariche
dello Stato ‘taxi del mare’.
Scafisti
e caporali, due figure illegali e bandite dalla legge, si rivelano ben
funzionali alla propaganda dei rappresentanti istituzionali. La realtà
però è ben più articolata. Ovviamente non si vuole negare l’esistenza di questi fenomeni, spesso
controllati dalla criminalità più o meno organizzata, che ormai fa delle
agromafie una fonte di lauti guadagni e di controllo dell’economia di interi
territori. Tuttavia il caporalato così come i faccendieri di
migranti sono la conseguenza di politiche nazionali ed internazionali di
governo delle migrazioni non fondate sulla salvaguardia e la tutela delle
persone. I flussi migratori gestiti da bande di criminali da una
sponda all’altra del Mediterraneo prosperano per l’assenza di corridori
regolari e umanitari. L’intermediazione di manodopera informale prospera a
causa dell’assenza di una organizzazione del lavoro regolare (in questo caso
nel comparto agricolo).
Disintossicarsi da questa narrazione è necessario ma non sufficiente.
Dobbiamo assumerci anche l’incombenza di non fermarci all’immediata
indignazione, bensì individuare e denunciare a gran voce i diretti responsabili
di quanto succede da anni nelle campagne della Puglia, ma anche nel resto
dell’Italia. Sappiamo che le condizioni ignobili di lavoro e di vita sono
imposte dagli interessi della Grande distribuzione organizzata (GDO) con la
connivenza e la complicità normativa delle Istituzioni locali, nazionali ed
europee.
Da decenni ormai i flussi migratori sono governati anche e soprattutto per
deregolamentare il mercato del lavoro, che necessita forza-lavoro usa e getta,
funzionale alla produzione just in time, stagionale e a termine. La capacità
del sistema economico e normativo in cui siamo inseriti sta proprio nella sua
ecletticità nel riprodurre diversi rapporti di dominio e sottomissione per
favorire la concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi, a discapito del
lavoro salariato tutelato e della redistribuzione del benessere. Su questo
solco il management delle politiche migratorie cambia le sue
sfaccettature ma rimane intatto nella sostanza. In Italia, ad esempio, si sono
alternati lungo una linea comune Napolitano e Bossi, Maroni e Minniti fino a Salvini.
I più importanti paesi dell’Unione Europea, grazie a leggi come ad esempio
in Italia la Bossi-Fini, continuano a far fronte ad un’esigenza di fondo
inderogabile: avvalersi di manodopera conveniente per livellare verso il basso
le condizioni generali di lavoro di tutti, stranieri e nativi, e
contestualmente mantenere la separazione, tutta politica, del lavoro migrante
con il resto della forza-lavoro per evitare il più possibile il dissenso e per
scongiurare qualsiasi piattaforma unitaria tra diversi soggetti del mondo del
lavoro.
Come ci riescono? Creando intenzionalmente condizioni di precarietà nei
percorsi di accoglienza e regolarizzazione dei migranti, sempre più in bilico
tra il diniego e il riconoscimento del permesso di soggiorno; persone rinchiuse
in ghetti formali (Cara, Cas, Hotspot) o informali, attraverso politiche di
esclusione sociale con l’intento di renderle sempre più vulnerabili,
ricattabili. Persone in balia dello sfruttamento informale o legalizzato nei
vari settori dell’economia di mercato, di cui il Job Act è l’ultimo baluardo
normativo istituzionale. Persone che, impossibilitate a circolare liberamente
in Europa con un regolare permesso di soggiorno, alimentano flussi migratori
invisibili, innescando sacche di continuo business, tratte di essere umani.
Facile, quindi, additare le responsabilità ai soli scafisti, ai caporali o
ai trafficanti di essere umani. Questi sono il risultato del razzismo
istituzionale dell’Europa dei mercanti e della finanza, della Troika, di cui
ormai si parla sempre meno, delle privatizzazioni e liberalizzazioni attuate
dai governi progressisti negli ultimi 30 anni. Un mix di politiche i cui
effetti sociali ormai si riversano sulle popolazioni attraverso delle vere e
proprie guerre tra poveri. La crescente demonizzazione del ‘diverso’, l’aumento
di fenomeni di violenza a stampo razziale e xenofobo verso persone con il
colore della pelle nero ne sono la dimostrazione.
Davanti a questo sistema, il più delle volte i e le
migranti che rivendicano la libertà di movimento fuori e dentro i confini
dell’Europa (da Ventimiglia a Calais in Francia, da Lesbo in Grecia a Ceuta in
Spagna), sono le stesse persone che lottano con coraggio contro lo sfruttamento
nelle campagne e nei settori della logistica. Per noi che abbiamo
deciso di scrivere questo contributo, è dal 2014 che osserviamo e sosteniamo i
percorsi di autorganizzazione bracciantile nel foggiano.
Braccianti che rivendicano un trasporto a lavoro regolare: un problema la
cui soluzione è di competenza dei datori di lavoro, come previsto dal contratto
collettivo nazionale e dai contratti provinciali agricoli. Una prerogativa che,
in caso di negligenza di questi ultimi, spetta all’amministrazione regionale
competente. In questo caso il presidente della Regione Puglia, prima di essere
legittimato ad intervenire in piazza a Foggia lo scorso 8 agosto durante la
manifestazione dei braccianti, doveva rispondere della sua responsabilità di
fronte a quanto è successo in questi giorni, dato che negli ultimi anni non ha
adempiuto alle sue prerogative.
Braccianti che rivendicano anche alloggi dignitosi, che si sono resi
protagonisti di manifestazioni, sit-in, scioperi, incontri con le istituzioni
da Foggia a Bari fino al Salento in questi ultimi anni. Nell’agosto del 2016 abbiamo sostenuto uno sciopero nella z.i. di
Foggia dove per ben 8 ore centinaia di lavoratori in sciopero hanno bloccato i
cancelli della Princes, multinazionale di trasformazione del pomodoro. Grazie a
queste lotte le Istituzioni competenti, in questo caso la Regione Puglia e le
prefetture, non solo hanno avuto la possibilità di conoscere nei dettagli i
processi e i meccanismi della filiera sporca del pomodoro, ma hanno anche
ascoltato le proposte per assicurare casa, trasporti e documenti per i
lavoratori e le lavoratrici delle campagne. Ma nulla è successo, se
non ulteriori stragi di braccianti, ossia quel perverso prezzo umano da pagare,
da metter in conto per permettere alle grandi imprese del comparto
agroindustriale, ossia la GDO di fare profitti miliardari. Come? Attraverso
l’imposizione dei prezzi dei prodotti nei confronti di chi, di conseguenza,
sottopone i lavoratori allo sfruttamento a condizioni di vita da schiavi, i cui
meccanismi sono stati efficacemente descritti nel reportage ‘Le catene della distribuzione’
di L. Filippi, M. Franco e M. Panariello, vincitore del Premio Morrione 2017.
Tante e
diverse sono anche le soluzioni avanzate dai diretti interessati. Soluzioni che
devono pure diventare patrimonio comune e rivendicazione quotidiana dell’opinione
pubblica: documenti, trasporti e contratti regolari; utilizzo di fondi pubblici
e prelievo fiscale verso le imprese del settore per il recupero e riuso di
immobili pubblici abbandonati da adibire a scopo abitativo per i lavoratori e
le lavoratrici delle campagne; una gestione diretta e regolare del trasporto da
parte di associazioni di lavoratori attraverso l’utilizzo di mezzi pubblici
idonei e sicuri. In giro per l’Italia già esistono esperienze virtuose. A Bari dopo una
lunga vertenza tra migranti e Comune, quest’ultimo ha assegnato un immobile
abbandonato direttamente a lavoratori e lavoratrici migranti: villa Roth al
quartiere san Pasquale, dove oggi vivono in autogestione stranieri e italiani
insieme; dove da quasi tre anni grazie alla concessione della residenza è
possibile il rinnovo del permesso di soggiorno per poter rivendicare un
regolare contratto di lavoro, aprire un conto in banca, organizzare momenti di
autoformazione sindacale. Luoghi che creano comunità e solidarietà reciproca,
incubatori di attività economiche mutualistiche in autogestione, di filiere
agroalimentari alternative e fuori dalle logiche del mercato capitalistico, di
cui un esempio è anche la nostra filiera di salsa di pomodoro SfruttaZero, ben
accompagnata da una moltitudine di altri progetti simili, fuori e contro questo
mercato tossico ed asfissiante!
[1] http://www.communianet.org/lotte-di-classe/foggia-i-braccianti-bloccano-ore-la-filiera-del-pomodoro
[2] http://www.premiorobertomorrione.it/film-inchiesta/le-catene-della-distribuzione-2016/
[3] http://www.communianet.org/lotte-di-classe/migranti-ex-set-un-primo-risultato-da-generalizzare-subito
[2] http://www.premiorobertomorrione.it/film-inchiesta/le-catene-della-distribuzione-2016/
[3] http://www.communianet.org/lotte-di-classe/migranti-ex-set-un-primo-risultato-da-generalizzare-subito
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