un libro di chi ha vissuto e vive lo sradicamento, molto coinvolgente.
buona lettura.
Cheikh Tidiane Gaye, (Senegal 1971
) poeta e scrittore, nato a Thiès in Senegal. Membro di Pen Club Internazionale
Lugano Retoromancia Svizzera. La scrittura è sempre stata la sua passione più o
meno segreta, sbocciata in ambiente e lingua italiana con il libro Il
giuramento (2001), seguito da Méry principessa albina(2005),
e Il canto del djali (2007). Ha ottenuto significativi
riconoscimenti letterari ed è presente sulla scena culturale italiana
attraverso interventi, letture e performance poetiche che testimoniano una
coerente partecipazione alla vita del suo nuovo paese. Nel 2003 partecipa al
concorso “Genova città della poesia europea”, dove viene premiato per
l’opera A mio padre Mandela. Nel marzo dello stesso anno viene
invitato a Roma per presentare alcuni scritti durante la manifestazione
culturale “Journées de la Francophonie”, organizzata dalle ambasciate dei Paesi
francofoni in Italia. Viene premiato al concorso di poesia “Sulle orme di Ada
Negri” a Lodi e riceve una menzione speciale al IX Concorso Internazionale
“Trieste Scritture di Frontiera”, il Premio Letterario Internazionale dedicato
ad Umberto Saba. Nel 2009, pubblica Ode nascente la sua quarta
pubblicazione, un’edizione bilingue italiana e francese. Nel 2010 pubblica
“ Per una tazzina di caffè”, racconto inserito nell’antologia dal titolo “Permesso
di soggiorno, gli scrittori stranieri raccontano l’Italia” a cura di Angelo
Ferracuti. Vince il Premio Internazionale di Letteratura Europa con
l’opera Ode nascente a Lugano in Svizzera nel maggio 2010 e il
Premio Anguillara Sabazia a Roma. Nel 2011, pubblica con le Edizioni
Montedit Curve alfabetiche e di recente ha partecipato e
curato la l’Antologia poetica di espressione francese per la rivista Soglie
dell’Università di Pisa. Da sempre partecipa a diversi incontri sulle tematiche
legate all’Africa, all’integrazione, all’intercultura e alla Letteratura della
Migrazione. Ultimamente ha pubblicato insieme a Maria Gabriella Romani Kouacou
la silloge poetica Rime abbracciate. Nel 2013 è uscito dapprima il
romanzo Prendi quello che vuoi ma lasciami la mia pelle nera e
successivamente Il cantore della negritudine, un’antologia scelta
di poesie di Senghor. Attualmente vive e lavora a Milano.
Extra-discriminazioni
27 marzo
2012
Cheikh Tidiane Gaye, 41 anni, nato a Thies in Senegal, diplomato in
Ragioneria, un’esperienza in Costa d’Avorio da giornalista, è arrivato in
Italia quindici anni fa e ha lavorato prima in Unicredit, poi alla Western
Union. Ha una moglie italiana e due figli. E’ anche uno scrittore, prosa e
poesia. Lo scorso anno, Gaye decide di candidarsi alle elezioni amministrative
milanesi nella lista civica per Pisapia. Quando è andato a comunicarlo al suo
datore di lavoro, il presidente di “Extrabanca”, Andrea Orlandini, il dirigente
ha cercato di dissuaderlo, accomunandolo “agli zingari e ai musulmani che vogliono
rovinare Milano”. Per poi successivamente specificare, secondo le testimonianze
raccolte, che lui e un altro collega immigrato sono “due negri africani che
stanno creando troppi problemi”, che “avere troppi negri non può giovare alla
banca”, e che quindi sarebbe stato meglio assumere “una persona di colore più
chiaro”. A questi insulti si sono aggiunti, poi, anche quelli
dell’amministratore delegato e di un altro dirigente: al lavoratore è stato
detto che “non si può venire in Italia con l’aspirazione di un ruolo
manageriale” e che “gli stranieri pretendono troppo: soprattutto quelli con la
cittadinanza devono sapere che sono ospiti”. Gaye, turbato e offeso da queste
affermazioni razziste da parte dei rappresentati dell’istituto di credito, nato
due anni fa paradossalmente “per servire i cittadini stranieri residenti in
Italia e le imprese da loro gestite”, ha sporto denuncia. Ieri è arrivata la
condanna di “Extrabanca” da parte del Tribunale del lavoro di Milano. Secondo
il giudice, l’istituto di credito ha tenuto nei confronti del dipendente
senegalese “comportamenti illeciti”. Il giudice, accogliendo il ricorso del
dipendente, richiama nella sua sentenza una norma del decreto legislativo 215
del 2003 sulle cosiddette “molestie razziali” sui luoghi di lavoro. Tutte le
espressioni pronunciate dai dirigenti di “Extrabanca” sono state ritenute
discriminatorie, in quanto implicano “sicuramente delle molestie o, quantomeno,
dei comportamenti indesiderati a sfondo razziale aventi lo scopo e,
sicuramente, l’effetto, di violare la dignità personale del dipendente e delle
altre persone di colore presenti in azienda, creando nel contempo un clima
lavorativo umiliante e offensivo tenuto conto del loro diretto ed esplicito
riferimento alla razza”. Il magistrato ha dunque ordinato a “Extrabanca”
“l’immediata cessazione dei comportamenti illeciti anche attraverso la
diramazione e l’affissione, presso la sede di Milano, entro il 2 aprile 2012,
di un comunicato” con il dispositivo della sentenza. Nello stesso comunicato, l’azienda
– impone il giudice – dovrà invitare il personale ad “astenersi” nei rapporti
di lavoro da “espressioni volgari od offensive a sfondo razziale”. Infine, un
risarcimento di 5mila euro è stato riconosciuto al dipendente insultato.
L’istituto di credito, chiaramente, ha definito il provvedimento “surreale” e
ha annunciato che presenterà ricorso in appello.
Pillole d’autore: Cheikh Tidiane Gaye, l’umanesimo
della parola - Patrizia Poli
TERRA MIA
All’alba
mi vesto del tuo odore
e mentre le stelle sfuggono al giorno
mi sveglio sotto la tua ombra
abbracciando il mistero del tuo calore.
Offrendomi alle tue mani
Cammino sui tuoi polmoni
Divoro il vento per volare nei tuoi occhi
A cantare il tuo dolce profumo di cachi.
All’alba
estraggo l’inchiostro dei tuoi spiriti
dall’albero magico, scolpisco la penna
per pitturare la tua anima
e la mia voce innocente intona i tuoi canti.
All’alba
Una voce ti diceva:
terra senza voci
voci che non sanno scavare il pozzo delle melodie
melodie che non rimano con le parole
parole senza profumo,
questa terra non sa piantare le lettere,
parole stonate
suoni senza fiamme:
fiamma, fumo e solo tenebre.
Terra che non sa contare
conto che ripudia l’aritmetica
racconto che non brilla. (da “Ode Nascente”, 2009)
Il senegalese Cheikh Tidiane Gaye non vuole essere etichettato come poeta
della migrazione. Noi lo definiremmo piuttosto poeta borderline fra
decolonizzazione e integrazione, fra passato e futuro. Forse è proprio il
presente a stargli stretto.
Nato in Senegal nel 1971, ha pubblicato testi in prosa e poesia, fra i
quali “Il giuramento”, “Mery principessa albina”, “Il canto
del Djali”, “Curve alfabetiche”, “Rime abbracciate”, “Ode
nascente”, “Prendi quello che vuoi ma lasciami la mia pelle nera.”
Dichiaratamente s’ispira a Leopold Sèdar Senghor, primo presidente del Senegal
e poeta di lingua francese, il quale, insieme all’antillano Aimè Cesaire, fu
l’ideologo della negritude. Per negritudine s’intende
la riscoperta della cultura africana, delle sue caratteristiche peculiari, come
il senso del ritmo e la forza del sentimento. Il popolo nero va alla ricerca di
sé, delle proprie radici, della propria specificità, all’indomani della
diaspora che l’ha reso apolide, ramingo o non bene adattato.
“I cuori, le mani, i piedi battono,
battano tutti i piedi, le mani, i cuori
il sorriso degli uomini che accoglie la vera parola,
parola partorita nel dolore
parola che si radica nel cemento del nostro essere,
parola esaltata dall’euforia,
parola scolpita nella corteccia dei baobab millenari,
parola dalle auroree lettere tagliata al tramonto delle lacrime,
parola che sorride:
negritudine.”
Ma in Tidiane Gaye quest’unicità viene proiettata nel futuro e usata come
ponte per la creazione di una nuova società sincretica che, alla base, ha solo
i principi dell’umanità e dell’universalismo. Come fa notare Adriana Pedicini, Tidiane Gaye è un umanista,
mette l’uomo e la sua parola all’interno di un cerchio vitruviano, considera
l’interculturalità un potente mezzo d’integrazione, arricchimento e superamento
delle barriere. Alla base di tutto c’è la lingua italiana, usata come strumento
unificatore che si auto rigenera in qualcosa di nuovo, a prescindere da tutte
le conoscenze stratificate nei secoli, e si evolve, arricchendosi di
espressioni provenienti da altre culture e altre esperienze. Questo può
piacere o non piacere – può anche stupirci che Tidiane Gaye ammetta di non
conoscere Pinocchio o scriva Ungheretti al posto di Ungaretti – ma è comunque
espressione di un moderno movimento interculturale, frutto di esportazione e di
globalizzazione, al quale dobbiamo abituarci e che non possiamo più ignorare.
Tramite questa fusione, questo melting pot di culture e
lingue, si giunge, secondo la visione ottimistica e piena di speranza di
Tidiane Gaye, all’incontro con l’alterità, alla comprensione dell’altro da sé,
alla fratellanza autentica, all’amore.
Di questo compito quasi messianico si fa carico il vate, lui stesso, che,
dichiarando “non sono poeta” e “non sono profeta”, in realtà
assume entrambe i ruoli. Sarà lui, in qualità di traghettatore, di bardo, di
aedo o, meglio, di djali, a farsi carico di questo
compito luminoso: unire tramite la parola poetica i cuori degli uomini, fino a
portarli in quel luogo dove le differenze sono valore e non scontro. Insomma,
nel luogo sacro della fraternità.
NON SONO POETA
Lascio presto in mattinata
la mia casa di paglia
i miei sandali, cuoio di capra
proseguo il vento, le corde invisibili
nei meandri delle sonorità plurali
canto il mio villaggio, la terra dei miei avi.
Quando canto, è pane che offro
all’orecchio che mi ascolta
alla lingua che mi applaude e alle mani
che mi parlano e mi lodano.
Non sono poeta
il mio alessandrino è orfano di emistichi
la mia prosa, erba secca per illuminare le notti senza nomi
oscure e curiose.
Non sono poeta
quando canto le mie parole penetrano i cuori,
indovino le parole nei cespugli
sorgenti dei miei fertili pensieri
che procurano latte e formaggio.
Taglio le mie sillabe nel fuoco della purezza,
sono l’angelo delle maschere, invisibile la notte
nelle tenebre delle parole
che tracciano i gloriosi canti dei guerrieri.
Non sono poeta,
lo sarò. (Da Il canto del Djali, 2007)
Gaye canta l’Africa, intesa come continente e non come singolo paese di
provenienza. Più volte, infatti, afferma di voler eliminare i confini, mere
convenzioni tracciate a tavolino. La sua Africa è tutto ciò che sta a sud del
Sahara, dal quale, tuttavia, spira un vento che brucia e soffoca ma anche
accarezza e perdona. L’Africa è odore, sapore, densità, colore acceso. È cose
terrene e tangibili - e sono le parti più belle, le poesie più vibranti –
come il miglio, il baobab, la kora, strumento musicale fatto di zucca e
pelle. “Nel mio paese il sangue dei leoni inonda i pozzi/ la bravura delle
donne si misura nella larghezza delle loro mani”.
LA MIA AFRICA
Mi sdraierò sul tuo petto
e nelle tue braccia fresche abbracciami,
mi darai il tuo pane e il tuo riso
basterà a me solamente la tua bellezza nera
quando a mezzogiorno
la luce brillante della tua pelle
coprirà la mia ansia
offrendomi l’ombra, dolcezza del tuo sorriso
canto fresco;
luna dei miei sogni
cantami e coccola la mia anima.
Impediscimi tutto
il tuo vento del Sahara
la tua spiaggia morbida come fragola
impediscimi tutto
ma non i tamburi sulla chiara luna
quando ascoltando l’uomo dalla barba bianca,
illuminando i sorrisi spenti
nella caduta delle lingue deboli,
sarò la voce imprendibile
la bocca sonora di una terra
dove la speranza cade
come gradine.
Mi sdraierò sotto i tuoi piedi
non mi basterà il tuo sguardo;
alzami con le tue lunghe fresche braccia
ospitami nella tua tana, nido umido;
all’alba sorrideremo al mondo
perché questa terra è sempre in piedi. (Da Canto del Djali, 2007)
L’Africa, in questo caso, è edenico rimpianto, madre accogliente
pensata con struggente nostalgia. Ma l’Africa è anche navi negriere
cariche di schiavi, è barconi che sfidano le onde nel buio, centri di
accoglienza pieni di facce attonite, è l’isola di Lampedusa implorata,
invocata, pregata.
La terra di cui parla Tidiane Gaye non è solo la sua di provenienza ma, per
estensione, anche tutte le nazioni che soffrono come la sua ha sofferto, in
primo luogo la martoriata Palestina. Dove c’è un popolo sperso che soffre, là
c’è la patria di Tidiane Gaye e, tramite la sua poesia, tramite la lingua che
affratella, viene offerta la possibilità di risanare le ferite, far
scaturire l’amore, unire il passato al presente costruendo il futuro,
ricollegare i vivi ai morti. “Accosterà la tolleranza alla mia spiaggia”.
Ma l’Africa è anche donne meravigliose, esaltate con accenti da Cantico di
Salomone, donne amate e madri, sacre come donai nella loro
terrestre fisicità, sineddoche di tutta una terra.
RAMATA
Il tuo nome è linfa nutriente
i tuoi piedi, recinto dei tuoi versi
il tuo corpo una vita
le tue strofe riempiono i calici
e inondano i laghi della bellezza
il tuo corpo svelto
è l’ospite delle mie notti,
la luna si nasconde
per offrirmi il calore della tua pelle
specchio della tua memoria,
riflesso della tua lingua.
Il tuo corpo è una sinfonia
una sillaba, una casa,
il tuo corpo è labbra
la forma della tua bocca un bacio
la tua fronte liscia e libera,
i tuoi denti bianchi
si nutrono del sorriso del sole
nella vela dei venti
e nella notte delle lune
la tua bocca è ode e lirica
le tue treccine, pittura e poesia
la tua andatura, il cammino epico del tuo popolo. (Da Ode Nascente , 2009)
A MIA MADRE
Non ti ho perduta, ti sognavo
la tua ombra, mia custode, salvatrice dei miei passi
tu mi dicevi: dormi vicino al mio cuore allattato dal mio seno.
La tua saggezza è tramandata
sono cresciuto per vincere le paure degli uomini.
Mi ricordo, tu mi portavi sulla schiena morbida
frullando le spighe di miglio
sono cresciuto per coltivare la forza degli uomini.
Tu, madre mia, cantante mia, cantavi la notte per addormentarmi
sono cresciuto per salvarti dall’incubo.
Tu, mia maestra, mi hai insegnato le prime lettere dell’alfabeto
sono cresciuto per insegnare la lingua all’uomo.
Madre, sei il mio custode invulnerabile alle grida delle iene
avvicinati e non abbandonarmi
la vita ha spaccato il cordone ombelicale
ma il cuore è unito a te per sempre.
Il prezzo della sofferenza è sorridere al mattino
ascoltare la tua voce
fuggire dalle tue paure,
ti canto quando il sole si allontana dalle nuvole
quando la luna si risveglia
la notte, quando le stelle ballano
ballerò sulla punta dei piedi
dai miei occhi ti guarderò, ti dirò di perdonarmi
e ti ringrazierò di avermi partorito.
Ecco mia madre nel sogno
che mi rispondeva col sorriso sulle labbra:
Figlio mio, adora tua madre e tuo padre
sono per te lo specchio. (Da Canto del Djali, 2007)
Sempre Adriana Pedicini fa notare il sincretismo linguistico, l’uso di
neologismi e i richiami alla lingua wolof, e noi aggiungiamo il
contrasto fra parole ricorrenti, come onde che si accavallano di continuo,
tornando a riproporsi senza mai essere le stesse: ad esempio miele e vipera. Il
miele è connesso alle origini, alla terra, alla lingua, la vipera è ciò che fa
male, inganna, sfrutta, deporta.
Difficile giudicare la poesia di Tidiane Gaye col nostro metro perché essa
ha i ritmi, gli enjambement, gli accenti della produzione del suo paese. La
prosodia ci mostra un verso elastico, a volte stretto, a volte allungato fino a
riempire tutto il foglio e assumere i connotati della prosa. La parola è mezzo
espressivo ma anche fine, ha valore conoscitivo, scopre il senso segreto delle
cose. Il Verbo crea, ha potere sulla materia e sullo spirito, la parola
del griot, del cantore, dà vita alla nuova religione che ha al
centro l’uomo, il nuovo umanesimo che risarcisce e rimargina.
TAM-TAM
Le mani affogate nell’acqua salata
mi inchino davanti all’albero e recito i versi del nonno.
E dirò:
Spirito, taglia questo legno nella purezza del latte
i suoni del vento, delle onde del mare,
medito sulla voce invisibile del cuore
accompagno la voce dei griot,
la lingua dei saltigue diventi la memoria del cammello
precipiti durante la morte del re
la nascita del bambino
e... lentamente la gioia del popolo.
Tam-tam
nella tua pelle di sale
m’inchino davanti all’albero e recito i versi del nonno.
E dirò:
Voglio sentire i tuoi ritmi per adorare il fiore rosa
aprire gli occhi del cielo ballando con le belle perle
nelle serate d’estate sotto la piena luna
voglio sentire il ricordo della notte stellata
alle grida mute delle iene e dei leopardi
il verbo che dice “Bevi la parola per illuminare il cuore”
la pianta che fiorisce
la montagna che crolla
la collina che si inchina
i laghi che svuotano il ventre del coccodrillo. (Da Il canto del
Djali , 2007)
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