domenica 5 agosto 2018

Il libro delle mie vite - Aleksandar Hemon

Aleksandar Hemon si racconta, e, siccome è bravo, non fa cronaca, ma letteratura.
leggi da qualche parte che tutto quello che Aleksandar Hemon racconta è successo, e la magia delle parole è quella di dare una vita in più a chi non c'è, a ricordare cose anche tragiche, ma non solo, a conoscere un cane bellissimo, a conoscere Isabel e la sua storia.
Aleksandar Hemon deve abbandonare Sarajevo, nei giorni che preparano alla guerra, arriva in Canada e poi in Usa, prima sopravvive, e poi riesce ad avere una vita che gli permette di scrivere e di pubblicare (per nostra fortuna).
magari non lo conoscevi, adesso non hai scuse (per leggere i suoi libri).






...Riassumere in poche parole Il libro delle mie vite di Aleksandar Hemon è già complicato, figuriamoci commentarlo. Sono quattordici scritti densissimi, a metà tra il saggio e il racconto che, partendo da un episodio di vita vissuta, a volte banale, arrivano a parlarci di massimi sistemi, sentimenti primordiali, temi universali come l’identità, le radici, l’origine del male, il dolore. Nelle esperienze che Hemon ci racconta, in una scrittura straordinariamente ricca e articolata, possiamo rivederci tutti. C’è la guerra è vero, ma sembra un contorno, una cornice che mette maggiormente in risalto ciò che nella vita conta sul serio: l’amore, in tutte le sue manifestazioni. Amore per la propria città, per la famiglia, per un animale. Per questo, ogni evento, per quanto insignificante, suscita una riflessione, ogni persona incontrata merita un ricordo. Come se Hemon avesse la straordinaria capacità di trovare sensi altri in accadimenti che potrebbero apparire comuni, persino prosaici. Ma tutto acquista importanza di fronte all’orrore della guerra e così ogni racconto diventa un pezzo di vita salvato dall’oblio, un modo per ricordare quello che non c’è più, di far rivivere persone amate. Solo la parola, sembra dirci Hemon, può salvarci, ultimo baluardo contro l’annichilimento.

Condannato alla solitudine e ai lavori precari, riconoscerà le comunità di sradicati come lui. Che giocano a calcio – il portiere tibetano German che viene dall’Ecuador organizza partite per tutti perché il calcio connette a Dio, offre “lo straordinario istante di trascendenza che può conoscere chi pratica uno sport insieme ad altri”. Che giocano a scacchi – insieme a Peter, l’assiro nato a Belgrado, cercherà nelle combinazioni delle partite, che hanno segnato la relazione con il padre da Sarajevo all’Ontario, una costruzione di senso che eviti che la disperazione imbocchi la strada della follia.

Ateo, narciso e guardingo, così si definisce, “sempre ansioso di carpire pezzi di vite altrui”, Hemon aggiunge una pagina significativa a quel nuovo genere letterario di scrittori contemporanei (come Roth, Auster, Carrère, Barnes per citarne solo alcuni) che legittimano l’autobiografia di un romanziere attraverso la narrazione in prima persona di trame intime e spericolate dove, ogni volta, lo scrittore conquista il suo “io”.
E il lettore trova il suo non eroe che forse un po’ gli assomiglia.

Il 1° maggio 1992, a Chicago, Hemon decise di non salire sull’aereo che l’avrebbe riportato a casa. Il giorno dopo cominciò l’assedio a Sarajevo, il più lungo dell’era moderna. Hemon si ritrovò solo, in America, nell’America sognata e immaginata: «Avevo un’idea di cosa fosse l’America, avevo visto i film, ascoltato le canzoni, letto i libri. Ben presto, però, dovetti andare in giro a cercare lavori a basso reddito, e nella mia esperienza culturale dell’America nulla mi aveva preparato a questo: conoscevo a memoria le canzoni dei Talking Heads, ma fu subito chiaro che non sarebbe servito a niente. Il mito americano è basato sull’invenzione di sé, sul credi-in-te-stesso, non è utile quando cerchi di sopravvivere». 

La salvezza, naturalmente, arrivò con la scrittura: «A un certo punto - racconta Hemon - mi resi conto che sarei rimasto a lungo in America, forse per il resto della mia vita. Quale sarebbe stata la mia lingua, allora? Conoscevo un po’ l’inglese, anche perché nella ex Jugoslavia i film non venivano doppiati. Ma scrivere in un’altra lingua richiede l’adozione di un registro completamente diverso da quello dei film. E poi dovevo superare la nozione, molto europea, che se nasci con una lingua le appartieni, e in tutte le altre sei uno straniero. Mi sono dovuto convincere che non solo era possibile farlo, ma che, anzi, ne avevo bisogno».  

Hemon spiega di riconoscersi completamente in un «modo mediterraneo di vedere la vita», fatto di passione per il calcio e per le canzoni, di gusto per il racconto e per la vita da bar, in cui le giornate si trascorrono «guardando le gente passare». Ma oggi i critici lo paragonano a Joseph Conrad, o a Vladimir Nabokov, grandi scrittori che hanno scritto grandi libri nella loro seconda lingua, l’inglese: «Nabokov - dice lui - è il mio scrittore preferito e lo era anche quando stavo a Sarajevo, le sue storie di russi a Berlino bastano, da sole, a farlo considerare un maestro». 

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