James è un bambino, ha una maestra che lo tratta già come un giovane adulto, lui ha una curiosità e una sete di conoscenza e comprensione senza pari.
è curioso di tutto e la maestra è il suo mentore.
sembra che la poesia di Peter Handke sia stata scritta per lui:
"...Quando il bambino era bambino,
era l'epoca di queste domande.
Perché io sono io, e perché non sei tu?
Perché sono qui, e perché non sono lì?
Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio?
La vita sotto il sole, é forse solo un sogno?
Non è solo l'apparenza di un mondo davanti a un mondo,
quello che vedo, sento e odoro?
C'è veramente il male e gente veramente cattiva?
Come può essere che io, che sono io, non c'ero prima di diventare?
E che un giorno io, che sono io, non sarò più quello che sono?..."
fatevi un regalo, leggete questo piccolo grande libro e godetene tutti
Édouard Louis,
dall’introduzione al libro
Qualche mese fa sono atterrato a Parigi di ritorno da un giro di
conferenze in Giappone. Il viaggio era stato magnifico, ma lungo e faticoso, e
per questo avevo deciso di prendere un taxi invece del solito autobus.
L'autista, un ivoriano robusto e pelato, era sceso dall'auto e mi aveva aiutato
a ficcare la valigia nel bagaglio. Io mi ero sistemato sul sedile posteriore.
Avevamo già percorso alcuni dei chilometri dell'autostrada che collega
l'aeroporto alla città, fiancheggiata da campi di grano, boschi e capannoni
industriali, e io stavo osservando quel paesaggio, un misto di vegetazione e
acciaio grigiastro, quando il tizio al volante ha cominciato a rivolgermi la
parola, chiedendomi quale fosse il mio lavoro. Non amo raccontare in giro di
essere uno scrittore. Ho troppa paura di sembrare arrogante, o peggio, di dare
l'impressione che il mio lavoro sia in vendita. La maggior parte delle volte
rispondo che studio letteratura, ed è esattamente così che ho risposto anche
quel giorno. «Ah», ha insistito lui, «allora a lei interessano i libri e tutto
quello che ci gira intorno » . Ho annuito e allora lui ha commentato. «Sa, io
non leggo. I libri mi annoiano. Però di una cosa mi sono accorto, che in
Francia i premi li danno solo a bianchi che parlano di bianchi. L'ha notato
anche lei? Tutto è per i bianchi».
Ho fatto cenno di sì. Ho imparato nel tempo a conservare
un'espressione perfettamente neutrale anche quando sto provando una forte emozione,
e sono sicuro che il tassista non potesse scorgere l'effetto che quella frase
aveva avuto su di me. E tuttavia quell'uomo mi aveva aiutato ad ammettere una
realtà che aveva una sua forte evidenza, ma che non ero mai riuscito ad
articolare con analoga limpidezza: anche se non leggeva, come mi aveva appena
confessato, anche se non aveva mai stabilito alcun contatto con i libri,
quell'uomo sapeva che la letteratura e le sue istituzioni, il suo sistema, non
solo lo ignoravano, ma cosa ancor più grave, escludevano la sua vita dal
dominio del visibile.
La letteratura ha sempre funzionato in una sorta di gioco tra il
dentro e il fuori: racconta alcune vite e ne tace altre. Quando Zora Neale
Hurston e James Baldwin hanno descritto le esistenze dei neri e l'oppressione
permanente che erano costretti a subire, la radicalità del loro gesto stava
innanzitutto nell'introdurre nella letteratura delle vite che prima non erano
mai state rappresentate, esattamente come Proust e Gide avevano fatto con
l'omosessualità.
La ragione della mia emozione e della sua intensità stava nel fatto
che la frase del tassista mi aveva brutalmente riportato alla memoria quel che
avevo provato sulla mia stessa carne diversi anni prima.
Sono nato in un minuscolo villaggio nel nord della Francia, dove era
presente una fabbrica che impiegava la quasi totalità dei suoi abitanti, almeno
fino all'inizio degli anni Ottanta.
Quando sono nato, negli anni Novanta, a seguito di diverse ondate di
licenziamenti, la maggior parte degli abitanti non aveva più il lavoro e
cercava di sopravvivere grazie ai sussidi statali. Mio padre e mia madre
avevano smesso di andare a scuola a quindici anni, così come avevano fatto i
miei nonni prima di loro e come faranno i miei fratelli più piccoli dopo di me.
Mio padre aveva lavorato in fabbrica per dieci anni finché un peso non gli era
caduto addosso spezzandogli la schiena. Mia madre non lavorava perché a detta
di mio padre il ruolo di una donna era quello di occuparsi della casa e dei
figli.
Da bambino, agli occhi miei e della mia famiglia la letteratura non
era qualcosa che ci riguardasse davvero: ci accorgevamo, dalla televisione e
dai giornali, che i premi letterari non finivano mai nelle mani di scrittori
che raccontassero di noi, e che si rivolgessero a noi, e chiaramente, come
capitava al tassista, anche noi eravamo consapevoli che, premiati o meno, i
libri non si interessavano alle nostre vite. Mia madre lo ripeteva sempre: Di
noi, che siamo gli ultimi, nessuno si interessa veramente. Era proprio la
sensazione di essere invisibile che la spingeva a votare, come quasi tutta la
mia famiglia, per l'estrema destra. Mia madre diceva: Sono i soli a parlare di
noi. Il voto per i partiti populisti non era tanto una manifestazione di
razzismo quanto il tentativo disperato di esistere nello sguardo degli altri.
I miei non mi hanno mai visto leggere un libro. Non c'erano libri in
casa: nemmeno uno. Per noi un libro rappresentava un'aggressione: era
l'incarnazione, il simbolo della vita che non avremmo mai vissuto, la vita di quelli
che studiano, che hanno le competenze e il tempo per leggere, la vita di coloro
che sono andati all'università e che dunque hanno una vita meno pesante della
nostra.
La scuola aveva cacciato i miei dal sistema scolastico e dall'accesso
alla cultura nell'età in cui i figli della borghesia cominciano il loro ciclo
di studi. La cultura, il sistema scolastico, i libri: avevamo l'impressione che
ci rifiutassero, che non ne volessero sapere di noi; e noi, per rappresaglia,
li rifiutavamo a nostra volta. La cultura ci trascurava? Allora noi ci
vendicavamo della cultura. Provavamo odio per la cultura.
La questione della successione degli eventi, dello stabilire quel che
viene prima e quel che viene dopo, del fissare i comportamenti che precedono o
che invece sono provocati da altri comportamenti, è probabilmente tra le più
importanti per comprendere il mondo in cui viviamo. Non bisognerebbe mai dire
che i ceti popolari — e quindi mio padre e mia madre — rifiutano la cultura, ma
che la cultura rifiuta i ceti popolari, che poi, a loro volta, rifiutano la
cultura. Non bisognerebbe mai dire che i ceti popolari sono violenti, ma che i
ceti popolari subiscono violenze quotidiane ed è per questo che riproducono
quelle stesse violenze, per esempio votando l'estrema destra. Ogni analisi che
pretenda di cogliere il senso del mondo senza fare proprio un pensiero che
individui tale successione è destinato al fallimento.
Sono consapevole più di qualsiasi altra persona di come la
letteratura e i libri possano rappresentare una violenza perché a un certo
punto della mia vita, superata l'infanzia, ero ricorso a quel genere di
violenza per ferire le persone che mi stavano intorno.
Per una serie di circostanze fortunose e una serie di fallimenti
provvidenziali, ho frequentato il liceo e l'università. Sono stato il primo
della famiglia a farlo. All'inizio della settimana partivo per lo studentato o
mi trasferivo da amici e poi tornavo dai miei per il fine settimana. Appena
varcavo la soglia di casa, mi sedevo sul divano con un libro in bella vista, e
il più delle volte fingevo di leggere. Volevo far vedere alla mia famiglia che
non ero più come loro, che non appartenevo più al loro mondo e alla loro classe
sociale, e sapevo che per raggiungere quell'obiettivo il libro era certamente l'arma
più letale. Qualche anno più tardi, ripensandoci, ho provato solo vergogna per
quel mio comportamento, ma all'epoca non ci pensavo, fuggivo e basta. Ero
troppo orgoglioso di essere sfuggito alla classe sociale della mia famiglia;
ero stupido e arrogante. Le nostre cene si concludevano sempre con un litigio.
Io parlavo e mia madre mi interrompeva: Ehi, smettila di parlare come un libro
stampato, non ho bisogno delle tue lezioni e dei tuoi paroloni. Lo diceva con
un misto di collera, tristezza e repulsione. Mi rimproverava di considerarmi
superiore — Pensi di essere migliore di noi — e io replicavo che non era vero.
E invece era proprio così: mi credevo migliore di lei, migliore di tutta la mia
famiglia, ed ero deciso a farglielo sapere. I libri erano il mezzo più efficace
per ottenere quel risultato, e più mia madre mi diceva che parlavo come un
libro più mi sentivo incoraggiato a continuare. Quelle frasi che mi rivolgeva
mi sembravano il più bel complimento che avessi mai ricevuto: ero parte di
coloro che leggevano i libri e che parlavano come i libri.
Agli occhi di mia madre un romanzo di Hemingway era molto più
violento della foto di un miliardario al centro di un immenso e bellissimo
salone, magari ricoperto d'oro, come le capitava di vedere nelle pagine delle
riviste. La foto del miliardario, anche se era violenta a sua volta, e in modo
forse più insidioso, la faceva sognare: mia madre passava ore a guardare le
foto delle ville sulle riviste patinate e a dire quanto sognasse vivere in una
di quelle ville. Il libro di Hemingway, invece, non la faceva sognare: la
schiacciava, le ricordava il suo posto nel mondo, nient'altro.
Nella cultura è compresa una violenza intrinseca. È probabilmente a
causa di questa violenza che James Baldwin racconta in Congo Square che un
giorno, quando aveva intorno ai sette anni, era stato costretto ad arrampicarsi
in cima al mobiletto del bagno per recuperare un libro nascosto nello scaffale
più in alto, sopra la vasca. Era stata sua madre a nasconderlo. Da diversi mesi
vedeva suo figlio leggere in modo compulsivo le pagine di quel romanzo e
"piena d'ansia e tremante" aveva deciso di allontanarlo dalla vista
del figlio. La famiglia di Baldwin era una famiglia di poveri pastori battisti
neri e sicuramente sua madre aveva visto in quel libro che James stringeva tra
le mani il simbolo di quel che alla fine li avrebbe allontanati. Aveva
sicuramente compreso quel che il libro le annunciava: suo figlio non avrebbe
avuto la sua stessa vita, e attraverso i libri avrebbe avuto accesso a cose, a
delle possibilità, a dei privilegi, che a lei erano stati sempre negati.
Il problema è di sapere se i libri sono condannati a riprodurre
questi confini sociali. Se la violenza della cultura è inevitabile.
In realtà, qualche mese dopo il viaggio in Giappone, ho tenuto una
conferenza alla Casa della Letteratura di Oslo. Mi avevano proposto di parlare
di un autore a scelta e io avevo deciso di parlare di Toni Morrison.
Quando sono entrato nella sala delle conferenze sono rimasto colpito
dalla presenza di un numero impressionante di donne nere, un numero molto
superiore rispetto agli incontri in cui mi capita di parlare dei libri che
scrivo. Alla fine della conferenza ho discusso con molte di loro: alcune
avevano letto Toni Morrison, altre no, ma tutte si sentivano accolte dai libri
della scrittrice americana. Sapevano che romanzi come Jazz o A casa si
rivolgevano a loro, non solamente a loro, ma innanzitutto a loro, e in
quell'istante la violenza della cultura mi è sembrata sospesa.
Non voglio dire che un libro di Toni Morrison sia sufficiente perché
le diseguaglianze sociali e il loro riprodursi si interrompano, ma almeno in
quel caso la letteratura ha svolto il suo compito: ora tocca ai politici
svolgere il proprio.
Nella mia vita e in contesti diversi ho incontrato persone che nello
stesso modo si sentivano accolti dai libri di James Baldwin. Opere come No Name
in the Street o The Devil Finds Work (all'interno della quale si trova Congo
Square) hanno permesso loro di superare la soggezione e l'umiliazione che la
"cultura" aveva prodotto sui miei genitori quand'ero bambino.
Contrariamente ai miti che la borghesia cerca di imporci da secoli,
" la cultura" non salverà nessuno. Non aprirà lo spirito, non renderà
la società migliore, non ridurrà la violenza nel mondo. Sarà solo un certo tipo
di cultura a farlo, e alla fine, un tipo di cultura che sarà stata in grado di
definirsi contro la cultura dominante, un tipo di cultura che si sarà generata
contro la cultura esistente.
…Congo Square è una scintillante e viscerale esegesi profondamente
autobiografica in cui tutti i temi ricorrenti nell’opera dell’autore da cui trae
spunto lo splendido documentario I am not your negro sono
presenti. Ossia l’eccezione rispetto alla norma, la diversità, l’alterità,
l’unicità, la moltiplicazione dei punti di vista, connettendo la realtà
all’immaginario, anche filmico e letterario, che spesso si illude di saperla
raccontare ma non vi riesce in quanto si relaziona alla materia con strumenti
inadeguati. Folgorante, potente, semplice, preciso, puntuale, brillante,
divulgativo, profondo, mai cattedratico, artificioso o retorico.
…Attraverso Congo Square James
Baldwin, la voce per eccellenza della coscienza sociale, culturale, economica,
politica, civile, un uomo che ha sempre combattuto per i diritti suoi e degli
altri, che è andato anche contro i propri interessi, sempre percorrendo la
strada più scomoda, perché l’unica capace di condurre alla verità, che ha
lavorato per l’integrazione, contro ogni sopruso e discriminazione, il primo,
per dire, che ha affrontato il tema dell’omosessualità nella comunità
afroamericana, l’autore perennemente interessato alla moltiplicazione dei punti
di vista, all’eccezione da ciò che è considerato normale, al diverso tout
court, lo scrittore dalla cui opera prende le mosse il documentario,
bellissimo, I am not your negro, fa un’esegesi del cinema molto
più approfondita di quella di tanti critici del settore. E soprattutto,
attingendo a piene mani dalla propria autobiografia, e con stile dotto ma
chiarissimo, spiega perché, essendo un medium come tanti altri, e non avendo
strumenti adeguati per rappresentare la totalità del mondo, non possa davvero
raccontare bene la realtà, anche quando si fa vanto di un presunto, ma non
autentico ‒ e dunque inefficace ‒ realismo.
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