sabato 18 agosto 2018

Congo Square - James Baldwin

il libro ha pochissime pagine, ma ognuna di esse ha un'intensità fortissima.
James è un bambino, ha una maestra che lo tratta già come un giovane adulto, lui ha una curiosità e una sete di conoscenza e comprensione senza pari.
è curioso di tutto e la maestra è il suo mentore.
sembra che la poesia di Peter Handke sia stata scritta per lui:
"...Quando il bambino era bambino, 
era l'epoca di queste domande.
Perché io sono io, e perché non sei tu? 
Perché sono qui, e perché non sono lì? 
Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio? 
La vita sotto il sole, é forse solo un sogno? 
Non è solo l'apparenza di un mondo davanti a un mondo,
quello che vedo, sento e odoro? 
C'è veramente il male e gente veramente cattiva?
Come può essere che io, che sono io, non c'ero prima di diventare?
E che un giorno io, che sono io, non sarò più quello che sono?..."



fatevi un regalo, leggete questo piccolo grande libro e godetene tutti






Édouard Louis, dall’introduzione al libro
Qualche mese fa sono atterrato a Parigi di ritorno da un giro di conferenze in Giappone. Il viaggio era stato magnifico, ma lungo e faticoso, e per questo avevo deciso di prendere un taxi invece del solito autobus. L'autista, un ivoriano robusto e pelato, era sceso dall'auto e mi aveva aiutato a ficcare la valigia nel bagaglio. Io mi ero sistemato sul sedile posteriore. Avevamo già percorso alcuni dei chilometri dell'autostrada che collega l'aeroporto alla città, fiancheggiata da campi di grano, boschi e capannoni industriali, e io stavo osservando quel paesaggio, un misto di vegetazione e acciaio grigiastro, quando il tizio al volante ha cominciato a rivolgermi la parola, chiedendomi quale fosse il mio lavoro. Non amo raccontare in giro di essere uno scrittore. Ho troppa paura di sembrare arrogante, o peggio, di dare l'impressione che il mio lavoro sia in vendita. La maggior parte delle volte rispondo che studio letteratura, ed è esattamente così che ho risposto anche quel giorno. «Ah», ha insistito lui, «allora a lei interessano i libri e tutto quello che ci gira intorno » . Ho annuito e allora lui ha commentato. «Sa, io non leggo. I libri mi annoiano. Però di una cosa mi sono accorto, che in Francia i premi li danno solo a bianchi che parlano di bianchi. L'ha notato anche lei? Tutto è per i bianchi».
Ho fatto cenno di sì. Ho imparato nel tempo a conservare un'espressione perfettamente neutrale anche quando sto provando una forte emozione, e sono sicuro che il tassista non potesse scorgere l'effetto che quella frase aveva avuto su di me. E tuttavia quell'uomo mi aveva aiutato ad ammettere una realtà che aveva una sua forte evidenza, ma che non ero mai riuscito ad articolare con analoga limpidezza: anche se non leggeva, come mi aveva appena confessato, anche se non aveva mai stabilito alcun contatto con i libri, quell'uomo sapeva che la letteratura e le sue istituzioni, il suo sistema, non solo lo ignoravano, ma cosa ancor più grave, escludevano la sua vita dal dominio del visibile.
La letteratura ha sempre funzionato in una sorta di gioco tra il dentro e il fuori: racconta alcune vite e ne tace altre. Quando Zora Neale Hurston e James Baldwin hanno descritto le esistenze dei neri e l'oppressione permanente che erano costretti a subire, la radicalità del loro gesto stava innanzitutto nell'introdurre nella letteratura delle vite che prima non erano mai state rappresentate, esattamente come Proust e Gide avevano fatto con l'omosessualità.
La ragione della mia emozione e della sua intensità stava nel fatto che la frase del tassista mi aveva brutalmente riportato alla memoria quel che avevo provato sulla mia stessa carne diversi anni prima.
Sono nato in un minuscolo villaggio nel nord della Francia, dove era presente una fabbrica che impiegava la quasi totalità dei suoi abitanti, almeno fino all'inizio degli anni Ottanta.
Quando sono nato, negli anni Novanta, a seguito di diverse ondate di licenziamenti, la maggior parte degli abitanti non aveva più il lavoro e cercava di sopravvivere grazie ai sussidi statali. Mio padre e mia madre avevano smesso di andare a scuola a quindici anni, così come avevano fatto i miei nonni prima di loro e come faranno i miei fratelli più piccoli dopo di me. Mio padre aveva lavorato in fabbrica per dieci anni finché un peso non gli era caduto addosso spezzandogli la schiena. Mia madre non lavorava perché a detta di mio padre il ruolo di una donna era quello di occuparsi della casa e dei figli.
Da bambino, agli occhi miei e della mia famiglia la letteratura non era qualcosa che ci riguardasse davvero: ci accorgevamo, dalla televisione e dai giornali, che i premi letterari non finivano mai nelle mani di scrittori che raccontassero di noi, e che si rivolgessero a noi, e chiaramente, come capitava al tassista, anche noi eravamo consapevoli che, premiati o meno, i libri non si interessavano alle nostre vite. Mia madre lo ripeteva sempre: Di noi, che siamo gli ultimi, nessuno si interessa veramente. Era proprio la sensazione di essere invisibile che la spingeva a votare, come quasi tutta la mia famiglia, per l'estrema destra. Mia madre diceva: Sono i soli a parlare di noi. Il voto per i partiti populisti non era tanto una manifestazione di razzismo quanto il tentativo disperato di esistere nello sguardo degli altri.
I miei non mi hanno mai visto leggere un libro. Non c'erano libri in casa: nemmeno uno. Per noi un libro rappresentava un'aggressione: era l'incarnazione, il simbolo della vita che non avremmo mai vissuto, la vita di quelli che studiano, che hanno le competenze e il tempo per leggere, la vita di coloro che sono andati all'università e che dunque hanno una vita meno pesante della nostra.
La scuola aveva cacciato i miei dal sistema scolastico e dall'accesso alla cultura nell'età in cui i figli della borghesia cominciano il loro ciclo di studi. La cultura, il sistema scolastico, i libri: avevamo l'impressione che ci rifiutassero, che non ne volessero sapere di noi; e noi, per rappresaglia, li rifiutavamo a nostra volta. La cultura ci trascurava? Allora noi ci vendicavamo della cultura. Provavamo odio per la cultura.
La questione della successione degli eventi, dello stabilire quel che viene prima e quel che viene dopo, del fissare i comportamenti che precedono o che invece sono provocati da altri comportamenti, è probabilmente tra le più importanti per comprendere il mondo in cui viviamo. Non bisognerebbe mai dire che i ceti popolari — e quindi mio padre e mia madre — rifiutano la cultura, ma che la cultura rifiuta i ceti popolari, che poi, a loro volta, rifiutano la cultura. Non bisognerebbe mai dire che i ceti popolari sono violenti, ma che i ceti popolari subiscono violenze quotidiane ed è per questo che riproducono quelle stesse violenze, per esempio votando l'estrema destra. Ogni analisi che pretenda di cogliere il senso del mondo senza fare proprio un pensiero che individui tale successione è destinato al fallimento.
Sono consapevole più di qualsiasi altra persona di come la letteratura e i libri possano rappresentare una violenza perché a un certo punto della mia vita, superata l'infanzia, ero ricorso a quel genere di violenza per ferire le persone che mi stavano intorno.
Per una serie di circostanze fortunose e una serie di fallimenti provvidenziali, ho frequentato il liceo e l'università. Sono stato il primo della famiglia a farlo. All'inizio della settimana partivo per lo studentato o mi trasferivo da amici e poi tornavo dai miei per il fine settimana. Appena varcavo la soglia di casa, mi sedevo sul divano con un libro in bella vista, e il più delle volte fingevo di leggere. Volevo far vedere alla mia famiglia che non ero più come loro, che non appartenevo più al loro mondo e alla loro classe sociale, e sapevo che per raggiungere quell'obiettivo il libro era certamente l'arma più letale. Qualche anno più tardi, ripensandoci, ho provato solo vergogna per quel mio comportamento, ma all'epoca non ci pensavo, fuggivo e basta. Ero troppo orgoglioso di essere sfuggito alla classe sociale della mia famiglia; ero stupido e arrogante. Le nostre cene si concludevano sempre con un litigio. Io parlavo e mia madre mi interrompeva: Ehi, smettila di parlare come un libro stampato, non ho bisogno delle tue lezioni e dei tuoi paroloni. Lo diceva con un misto di collera, tristezza e repulsione. Mi rimproverava di considerarmi superiore — Pensi di essere migliore di noi — e io replicavo che non era vero. E invece era proprio così: mi credevo migliore di lei, migliore di tutta la mia famiglia, ed ero deciso a farglielo sapere. I libri erano il mezzo più efficace per ottenere quel risultato, e più mia madre mi diceva che parlavo come un libro più mi sentivo incoraggiato a continuare. Quelle frasi che mi rivolgeva mi sembravano il più bel complimento che avessi mai ricevuto: ero parte di coloro che leggevano i libri e che parlavano come i libri.
Agli occhi di mia madre un romanzo di Hemingway era molto più violento della foto di un miliardario al centro di un immenso e bellissimo salone, magari ricoperto d'oro, come le capitava di vedere nelle pagine delle riviste. La foto del miliardario, anche se era violenta a sua volta, e in modo forse più insidioso, la faceva sognare: mia madre passava ore a guardare le foto delle ville sulle riviste patinate e a dire quanto sognasse vivere in una di quelle ville. Il libro di Hemingway, invece, non la faceva sognare: la schiacciava, le ricordava il suo posto nel mondo, nient'altro.
Nella cultura è compresa una violenza intrinseca. È probabilmente a causa di questa violenza che James Baldwin racconta in Congo Square che un giorno, quando aveva intorno ai sette anni, era stato costretto ad arrampicarsi in cima al mobiletto del bagno per recuperare un libro nascosto nello scaffale più in alto, sopra la vasca. Era stata sua madre a nasconderlo. Da diversi mesi vedeva suo figlio leggere in modo compulsivo le pagine di quel romanzo e "piena d'ansia e tremante" aveva deciso di allontanarlo dalla vista del figlio. La famiglia di Baldwin era una famiglia di poveri pastori battisti neri e sicuramente sua madre aveva visto in quel libro che James stringeva tra le mani il simbolo di quel che alla fine li avrebbe allontanati. Aveva sicuramente compreso quel che il libro le annunciava: suo figlio non avrebbe avuto la sua stessa vita, e attraverso i libri avrebbe avuto accesso a cose, a delle possibilità, a dei privilegi, che a lei erano stati sempre negati.
Il problema è di sapere se i libri sono condannati a riprodurre questi confini sociali. Se la violenza della cultura è inevitabile.
In realtà, qualche mese dopo il viaggio in Giappone, ho tenuto una conferenza alla Casa della Letteratura di Oslo. Mi avevano proposto di parlare di un autore a scelta e io avevo deciso di parlare di Toni Morrison.
Quando sono entrato nella sala delle conferenze sono rimasto colpito dalla presenza di un numero impressionante di donne nere, un numero molto superiore rispetto agli incontri in cui mi capita di parlare dei libri che scrivo. Alla fine della conferenza ho discusso con molte di loro: alcune avevano letto Toni Morrison, altre no, ma tutte si sentivano accolte dai libri della scrittrice americana. Sapevano che romanzi come Jazz o A casa si rivolgevano a loro, non solamente a loro, ma innanzitutto a loro, e in quell'istante la violenza della cultura mi è sembrata sospesa.
Non voglio dire che un libro di Toni Morrison sia sufficiente perché le diseguaglianze sociali e il loro riprodursi si interrompano, ma almeno in quel caso la letteratura ha svolto il suo compito: ora tocca ai politici svolgere il proprio.
Nella mia vita e in contesti diversi ho incontrato persone che nello stesso modo si sentivano accolti dai libri di James Baldwin. Opere come No Name in the Street o The Devil Finds Work (all'interno della quale si trova Congo Square) hanno permesso loro di superare la soggezione e l'umiliazione che la "cultura" aveva prodotto sui miei genitori quand'ero bambino.
Contrariamente ai miti che la borghesia cerca di imporci da secoli, " la cultura" non salverà nessuno. Non aprirà lo spirito, non renderà la società migliore, non ridurrà la violenza nel mondo. Sarà solo un certo tipo di cultura a farlo, e alla fine, un tipo di cultura che sarà stata in grado di definirsi contro la cultura dominante, un tipo di cultura che si sarà generata contro la cultura esistente.

Congo Square è una scintillante e viscerale esegesi profondamente autobiografica in cui tutti i temi ricorrenti nell’opera dell’autore da cui trae spunto lo splendido documentario I am not your negro sono presenti. Ossia l’eccezione rispetto alla norma, la diversità, l’alterità, l’unicità, la moltiplicazione dei punti di vista, connettendo la realtà all’immaginario, anche filmico e letterario, che spesso si illude di saperla raccontare ma non vi riesce in quanto si relaziona alla materia con strumenti inadeguati. Folgorante, potente, semplice, preciso, puntuale, brillante, divulgativo, profondo, mai cattedratico, artificioso o retorico.

…Attraverso Congo Square James Baldwin, la voce per eccellenza della coscienza sociale, culturale, economica, politica, civile, un uomo che ha sempre combattuto per i diritti suoi e degli altri, che è andato anche contro i propri interessi, sempre percorrendo la strada più scomoda, perché l’unica capace di condurre alla verità, che ha lavorato per l’integrazione, contro ogni sopruso e discriminazione, il primo, per dire, che ha affrontato il tema dell’omosessualità nella comunità afroamericana, l’autore perennemente interessato alla moltiplicazione dei punti di vista, all’eccezione da ciò che è considerato normale, al diverso tout court, lo scrittore dalla cui opera prende le mosse il documentario, bellissimo, I am not your negro, fa un’esegesi del cinema molto più approfondita di quella di tanti critici del settore. E soprattutto, attingendo a piene mani dalla propria autobiografia, e con stile dotto ma chiarissimo, spiega perché, essendo un medium come tanti altri, e non avendo strumenti adeguati per rappresentare la totalità del mondo, non possa davvero raccontare bene la realtà, anche quando si fa vanto di un presunto, ma non autentico ‒ e dunque inefficace ‒ realismo.

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