Uri Avnery: fino all’ultimo respiro - Patrizia Cecconi
L’età – implacabile nel decretare la fine
della vita per chi ha avuto la fortuna di non vedersela stroncare dalla
violenza o dalla malattia – ha privato il mondo di una delle menti più lucide e
oneste del sionismo.
Sionismo, termine che fa tremare le vene ai
polsi ai tanti attivisti filo-palestinesi che in esso vedono solo razzismo o
suprematismo fascistoide. In realtà hanno ragione se si prende il sionismo per
quel che è nella sua pratica generale, ma non hanno ragione se prescindono da
quella che è una delle caratteristiche fondamentali che determinano il sionismo
stesso, e che figure quali Jeff Halper o Gideon Levy hanno abbracciato, cioè il
sostenere giusta l’esistenza dello Stato di Israele all’interno della Palestina
storica e, in alcuni casi, lo scegliere di diventare israeliani pur venendo da
altre parti del mondo, cittadinanza acquisita semplicemente in quanto ebrei
grazie a una delle due leggi fondamentali dello Stato di Israele che è la
cosiddetta «legge del ritorno».
“Ritorno” già in sé comporta
un’arrogante pretesa e la base di una menzogna, ma fu la geniale trovata di
Theodor Herzl, il padre del sionismo, appunto, ad essere vincente e a
modificare il corso della storia nella terra di Palestina.
Se il luogo in cui far nascere lo Stato per
gli ebrei fosse stato in Africa o in America Latina (come pure ipotizzato prima
della scelta finale, estremamente comoda per il colonialismo europeo del secolo
scorso) forse non ci sarebbe stata una «legge del ritorno» perché
l’evocazione biblica non sarebbe stata tanto efficace, ma non lo sappiamo. La
Storia del resto non si fa con i se o con i ma.
Il fatto è che Israele non ha ancora una vera
legge costituzionale, perché la Costituzione implica i confini dello Stato e
sappiamo bene che Israele quei confini li ha in testa in modo molto lontano
dalla Risoluzione Onu 181 cui si aggrappa per legittimare la propria nascita e
alla quale invece non ha mai portato rispetto né l’ha mai riconosciuta, a
partire dall’autoproclamazione dello Stato decretata da Ben Gurion poco prima
della scadenza del Mandato britannico e, quindi, prima che la Risoluzione 181
divenisse giuridicamente operativa.
Ma al di là degli interessi imperialisti c’è
da considerare, come fattore sociale, cosa potesse significare per un ebreo
dopo la Seconda guerra mondiale e i campi di sterminio (ma anche dopo i
ricorrenti progrom nella storia) avere un proprio Stato in cui sentirsi sicuro.
Su questa retorica, che però si fonda su basi
concrete e che, solo per citare i momenti e le figure europee più rilevanti che
già durante la Prima guerra mondiale hanno avuto il loro peso – come gli
accordi Sykes-Picot nel 1916 e la dichiarazione Balfour nel 1917 – è venuta a
crearsi l’idea che lo Stato di Israele, all’interno della Palestina e per di
più cacciando i palestinesi, cosa non prevista né dalla Risoluzione 181 né
dalla dichiarazione Balfour, fosse un sacrosanto diritto del cosiddetto “popolo
ebraico” che veniva di fatto a crearsi raccogliendo sefarditi e askenaziti,
arabi, europei, americani e altri, unificati dalla fede religiosa e non certo
dalla nazione di provenienza.
Uri Avnery fu uno di quelli e
lo fu prima della grande tragedia della Seconda guerra mondiale. Tedesco, nato nel 1923 nella cittadina di Beckum nella
Renania ed emigrato con la sua famiglia in Palestina quando Hitler andò al
potere. Aveva solo 10 anni e non fu facile quel periodo visto che la sua
famiglia aveva perso ogni ricchezza nella fuga dalla Germania nazista. Il
giovanissimo Helmut, diventato poi Uri divenne un potenziale israeliano prima
che si costituisse Israele.
Aveva solo 15 anni Helmut-Uri quando si
arruolò nell’Irgun, la famigerata organizzazione paramilitare guidata da
Menachem Begin autrice di azioni di terrorismo ebraico delle peggiori,
tra le quali si ricorda anche la strage al King David Hotel di Gerusalemme del
1946. Ma Uri ne era già uscito da quattro anni, cioè da quando aveva visto che
le azioni dell’Irgun non andavano verso l’indipendenza dagli inglesi ma
soprattutto erano focalizzate contro gli arabi. Sionista convinto, ma contrario
alla pratica terrorista dell’Irgun, Uri Avnery abbandonò quindi molto presto la
formazione che poi avrebbe dato lustro a Begin.
Ciò non gli impedì di partecipare alla guerra
contro gli arabi nel 1948/49, ma non gli impedì neanche di vedere e raccontare
le atrocità commesse contro i palestinesi che raccontò nel suo libro «Il
rovescio della medaglia». Libro che lo fece odiare da tanti ebrei, anche
italiani e non solo israeliani, che definirono tradimento la sua onestà
intellettuale e morale.
Quest’uomo, che pur restando sionista fu un
grande amico del popolo palestinese, fu tra i fondatori di un importante movimento
pacifista e fu un grande e lucidissimo giornalista, oltre che scrittore.
Trovando poco efficace Peace Now ne uscì e fondò Gush Shalom, movimento
pacifista più radicale, senza mai abbandonare la sua visione “sionista” di
ebreo che credeva giusta l’esistenza dello Stato ebraico accanto a uno Stato
palestinese.
Chi scrive andò a trovarlo a Tel Aviv nel 2011
ma aveva appena perduto l’amatissima moglie e non aveva voglia di parlare di
politica, per cui l’incontro avvenne con un altro rappresentante di Gush
Shalom, più giovane ma altrettanto convinto delle sue stesse idee e altrettanto
critico verso Israele, Adam Keller. Adam Keller raccontò che sua madre, una
donna ultraottantenne e claudicante, in una manifestazione a sostegno dei
diritti del popolo palestinese venne strattonata, picchiata e vilipesa dai
soldati israeliani. Una piccola cosa rispetto a ciò che subiscono ogni giorno i
palestinesi, e questo era chiaro ad Adam Keller, il quale comunque ci tenne a
mettere l’accento sull’episodio per dire che non era certo questo l’Israele che
lui, Uri Avnery ed altri convinti assertori dell’esistenza dei due Stati
avevano in mente.
In Italia i suoi articoli venivano tradotti e
pubblicati da il manifesto, giornale in qualche modo “di nicchia” e
leggerli è sempre stato vero cibo per la mente. Lucido e logico nelle sue
riflessioni, Avnery, già oltre 30 anni fa, mentre il mondo si prodigava in
inchini e apprezzamenti che poi si rivelarono ingiustificati, proprio in un
articolo pubblicato da il manifesto definì Perez «Una
menzogna che cammina». Articolo che chi scrive portò in lettura ad
un’amica ebrea di sinistra avendo in cambio l’esclamazione disperata di
nascondere subito quel giornale perché in casa sua, ebrei di sinistra, era
vietato anche solo pronunciarlo il nome di Uri Avnery.
Questo è solo un aneddoto che unito a quello
di Adam Keller potrebbe aiutare a far capire quanto lavoro c’è da fare per
arrivare veramente a quella pace giusta al cui raggiungimento Avnery ha
dedicato la vita.
L’essere stato un parlamentare della Knesset
per tre legislature, fino al 1981, non lo ha salvato dalle invettive e
dall’ostruzionismo delle istituzioni e del popolo israeliano sionista. Sionista
nell’accezione che abitualmente si dà al termine e che i governi Netanyahu
hanno notevolmente incrementato. Ma già quando nel 1982 incontrò Arafat, si
dice che il grande nemico del presidente palestinese, Ariel Sharon, avesse
tentato di utilizzarlo per eliminare Arafat dando indicazioni al Mossad
di «adempiere al loro compito» anche se questo avesse
comportato la morte di Avnery che andava a intervistarlo. Lo raccontò proprio
Avnery, sionista di stampo diverso da Ariel Sharon, congratulandosi con i
servizi palestinesi per aver scampato il pericolo.
Con lui oggi non sparisce solo una grande
mente, ma una mente capace di mettere in contraddizione le più grandi e le più
piccole cose, come ad esempio le decisioni liberticide della Knesset israeliana
circa la pratica di boicottaggio degli attivisti filo-palestinesi con analoga
decisione della Knesset a favore del boicottaggio di un certo prodotto
alimentare che danneggerebbe analogo prodotto di fabbricazione israeliana. Uri
Avnery era veramente una mente scomoda, una mente che la falce della morte ha
portato via con sé, avendo raggiunto i 94 anni, e che fino all’ultimo ha
conservato lucidità, forza e determinazione.
Come racconta Adam Keller nel suo triste
comunicarne la scomparsa, Avnery è collassato alcuni giorni fa tornando a casa
dopo aver partecipato alla manifestazione contro la “nation state law” e dopo
aver scritto un duro articolo contro quella legge.
Fino all’ultimo respiro Uri Avnery è stato
coerente. La sua scelta di ebreo che non ha mai respinto l’esistenza dello
Stato di Israele, sognandolo però democratico e rispettoso dei diritti dei
palestinesi ai quali si “doveva” (e non “si doveva concedere”) il proprio
Stato, lo ha accompagnato fino alla morte. Qualcuno lo ha definito un
visionario perdente ma, come dice Adam Keller, suo ideale portavoce e
successore in Gush Shalom, «i più grandi avversari di Avnery
dovranno seguire le sue orme – perché lo Stato di Israele non ha altra scelta
reale».
Se sarà così o meno non lo sappiamo, ma
sappiamo che Israele ha perso la mente lucida di un ebreo israeliano di
sinistra, fortemente critico e anche per questo valido ostacolo contro la
deriva barbarica della destra estrema. E anche i palestinesi hanno perso un
amico, benché fosse un convinto sionista, tanto convinto e tanto aperto alla
dialettica politica da mandare il suo articolo settimanale anche a chi non ha
mai riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele. Perché Avnery era una di
quelle figure, sempre più rare, che riconoscono nell’avversario onesto un
possibile collaboratore indiretto nel grande disegno di una società più giusta.
A chi scrive, pur essendo contraria al
sionismo anche nell’accezione di Uri Avnery, mancherà molto il suo contributo.
Altri invece ringrazieranno la falce della natura per aver spento una voce che
ancora a 94 anni aveva la capacità di battersi contro chi viola sistematicamente
i diritti umani, sebbene nello specifico si tratti dello stesso Paese che
sentiva come propria patria. Avnery usava dire che «la differenza
tra un combattente per la libertà e un terrorista dipende solo dalla
prospettiva con cui si guarda». Questo non è l’accettazione del
terrorismo ma il riconoscimento e la stima per chi combatte per la libertà.
Che la terra ti sia lieve, grande combattente.
(*) ripreso da www.pressenza.com
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