Non volevo vedere quella foto.
La foto del massacro del
campus universitario di Garissa che ha lasciato per terra 148
studenti.
Ho fatto di tutto per non incrociarla su Twitter. Ma quella foto si è
imposta a me con il suo carico di morte e disperazione. Corpi giovani, privati
di futuro, seminudi, ammazzati come topi. Ragazzi che il giorno prima di quel
massacro pensavano ai loro amori, agli esami, a un viaggio da fare, alla festa
di fine corso, all’ultima canzone di quel gruppo rap che va per la maggiore.
Ragazzi con pensieri semplici e bellissimi. Ragazzi come lo sono stata io a
vent’anni. Poi la morte, brutale, assassina.
Alla fine l’ho guardata, quella foto, e l’ho trovata sbagliata. C’era
qualcosa di profondamente e orribilmente sbagliato nel mio, nel nostro,
guardare. Il mio disagio inespresso ha preso corpo (e direi anche un po’ di
coraggio) dopo la lettura del tweet del giornalista del Washington Post Ishaan
Tharoor. Rivolgendosi a Jon Lee Anderson del New Yorker, che aveva twittato la
foto, Tharoor ha scritto: “Avresti twittato le immagini di quei corpi se fosse
stato negli Stati Uniti?”.
Il tweet genera risposte, dibattito. Il giornalista del New Yorker insiste
dicendo che se non avessimo visto l’Olocausto non avremmo mai capito il male
provocato da Hitler. Ma anche per la Shoah, penso, si è parlato in molti libri
di voyeurismo, dello sguardo (soprattutto sui corpi nudi di donna)
partecipe (a volte complice) con quello dei carnefici nazisti.
È complicato, penso. Ritorno al dibattito e vedo che Ishaan Tharoor non
molla. Per sua stessa ammissione il giornalista del Washington Post fa
l’avvocato del diavolo: “Avresti twittato l’immagine dei bambini uccisi a Sandy
Hook? La scena è la stessa: studenti morti”.
Sandy Hook me lo ricordo ancora. Ne fui scossa. Ricordo quel massacro del
14 dicembre 2012 nella cittadina del Connecticut. Un ragazzo di vent’anni, Adam
Lanza, dopo aver ucciso sua madre, aveva ucciso in una scuola elementare venti
bambini di età compresa tra i 6 e i 7 anni e alcuni maestri. Ventisette morti.
Obama in quell’occasione aveva detto: “Ogni genitore in America ha il cuore
colmo di dolore”.
Nessuno si è sognato di fotografare quei corpi senza vita oltraggiati dalle
pallottole. E anche se qualcuno lo avesse fatto sarebbe stato giustamente
linciato sui giornali.
Anche dopo la strage di Charlie Hebdo nessuno – per fortuna, aggiungerei –
ha visto i corpi crivellati di Cabu, Charb, Tignous, Wolinski. Abbiamo però
visto Ahmed, il poliziotto musulmano, ucciso come nei peggiori film western dai
due terroristi.
Guardo la foto del massacro nel campus di Garissa. A nessuno è venuto in
mente che quella foto poteva turbare le famiglie? Chi ha perso un figlio, un
nipote, un amore. Nessuno ha pensato a loro? Ai loro sentimenti? Al loro
dolore? Quella foto mi ricorda un quadro del cinquecento visto al Prado di
Madrid. Il Trionfo della morte di Pieter Bruegel. Anche lì
corpi riversi, quasi senza identità. Per Bruegel la morte appiattiva tutto, il
re e il povero accomunati dallo stesso destino finale...
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