Espulsi i combattenti
palestinesi di Aknaf al-Bayt al-Maqdes, lo Stato Islamico esce dal campo di
Yarmouk, a sud di Damasco, e rientra nella sua roccaforte, il quartiere di
Hajar al-Aswad. È così che funzionari palestinesi descrivono ai media la
situazione attuale a Yarmouk.
In realtà i combattimenti
continuano all’ingresso nord del campo. Il gruppo armato palestinese legato a
Hamas prende il controllo di strade ed edifici periferici e avanza verso la
parte nordest. Al Fronte al-Nusra, affiliato ad al-Qaeda, rimane il controllo
della maggior parte di Yarmouk.Il campo, istituito nel 1957, prima del
conflitto siriano iniziato nel 2011 ospitava circa 160.000 palestinesi. Tutti
rifugiati e discendenti della Nakba, l’esodo palestinese del 1948. Dopo due
anni di assedio, qualche settimana fa l’attacco dei jihadisti ha ridotto la
popolazione a 6000 abitanti. Almeno 47 civili sono stati uccisi durante gli
scontri e 60 sono ancora in condizioni critiche.
Secondo i dati forniti
dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Damasco, 500 famiglie,
circa 2.500 persone sono riuscite a fuggire da Yarmouk all’inizio dei
combattimenti, attraverso due uscite nel distretto di Zahira. «I giovani di
Yarmouk rimasti, non andranno via se non per tornare in terra palestinese» dice
Hussam, di 23 anni. «La maggior parte dei giovani ha disertato dall’esercito e
teme di essere arrestata dalle forze siriane». Quindi rimangono tutti
intrappolati tra elementi armati all’interno del campo e forze governative
esterne.
Oggi nelle congestionate
stradine di un ghetto impoverito, con fori di proiettile tra casa e casa, regna
la miseria, mancanza di cibo, acqua pulita ed elettricità. I muri sono segnati
dai colpi dei proiettili e dal rosso del sangue indurito. L’acqua potabile
arriva dai pozzi aperti che funzionano grazie a impianti a carburante. Il costo
di un litro di carburante è salito di circa il 30%. 130 syrian pounds, poco
meno di un dollaro. Allora i bambini riempiono contenitori di plastica gialla
con acque reflue, non trattate, provenienti da pozzi scavati sulla superfice
delle strade del campo. «Ha il sapore di tutto tranne che dell’acqua»,
raccontano i residenti.
Alle centrali Palestine street
e al-Madares street solo distruzione e massacri. Frammenti di vetro, macerie e
polvere incolore. «Finiti ravanelli e verdure di base, adesso mangiamo l’erba»,
è l’inammissibile racconto di donne magre, con occhi infossati. In lontananza
il fumo grigio che sale e il rumore assiduo di raffiche di mitra e dei Mig. «Le
strade sono abbandonate e piene di detriti — racconta Hadeel -, le persone
rimangono nascoste nelle loro case, molte senza porte né finestre. Usciamo
sotto il fuoco dei cecchini sistemati sugli edifici più alti e dei bombardamenti
a cercare acqua. L’Isis ha colpito il panificio Hamdan, nel mezzo di Yarmouk
Street. Ci andavo ogni mattina».
Zayna, giovane madre, ci dice
che nel campo manca tutto. Non sa cosa dare da bere ai suoi due bambini. Non sa
come lavarli. Non sa come curarli dalla tosse. «Compro il pane arabo che entra
nel campo insieme ai contrabbandieri a più di 10 dollari. Scendo a prendere
acqua sporca nei serbatoi. La rete elettrica e i rubinetti nelle case non
funzionano». Rama, un’infermiera senza più lavoro, ci dice: «Fuad e Salah, i
miei figli, non sapranno mai cos’è un melograno. Non lo vedranno mai. Non
mangiano frutta. Non la conoscono». Il marito di Rama è nella prigione di
Tadmor, a nordest di Damasco, dal 2013. «Il motivo? Aver partecipato a una
manifestazione contro l’assedio del campo da parte delle forze di al Assad».
Macchie di sangue e detriti
segnano gli ingressi delle scuole. Nei due kmq di Yarmouk, ci sono almeno 20
scuole gestite dall’Unrwa e altre ambiguamente sovvenzionate dal ricco
Occidente. I raid aerei e i colpi di mortaio sulla densa area civile, non
permettono ai bambini di continuare a studiare. Le scuole sono chiuse. Le
lezioni sospese. Gli insegnanti non lavorano. I bambini non escono di casa.
Nella prima settimana di
aprile il cortile della Jarmaq school è stata teatro degli scontri tra ribelli
siriani, combattenti dell’Isis e forze governative. Mentre più di 50.000
insegnanti sono fuggiti dalla Siria o sono stati uccisi e 2 milioni e mezzo di
bambini non vanno a scuola all’interno del Paese, devastato dalla guerra, alla
Jarmaq school, le lezioni non si sono fermate.
Nidal, un’insegnante nata a Yamouk,
ricorda la madre, cresciuta nel villaggio di Qisarya, a sud di Haifa, costretta
a lasciare la sua casa e a rifugiarsi in Siria. «Anche lei insegnava. E lo
faceva con armonia nonostante la rabbia, il risentimento e la malinconia che la
divorava». La voce di Nidal si ferma per un attimo: «Non mi fanno paura i
mortai e i kalashnikov. Mi fa più paura l’ignoranza. Così continuo ad andare a
scuola. Facciamo le lezioni in cantina. Non vengono tutti i bambini. Ma anche
se ce ne fosse solo uno, io continuerei a parlare di letteratura e
matematica».
Secondo i dati Unrwa, oggi si
riesce a fornire a Yarmouk un aiuto irrisorio. Le razioni di cibo che
entrano, bastano per assicurare appena 400 calorie al giorno per persona.
Gli abitanti non hanno accesso a cure mediche. Qualche giorno fa è stato
bombardato dalle forze governative il Palestine Hospital. Da allora è chiuso. I
combattenti hanno bloccato l’ingresso di aiuti umanitari da parte del Comitato
Internazionale della Croce Rossa, nell’al-Basil Hospital. E non hanno permesso
l’evacuazione dei feriti più gravi, secondo l’Osservatorio Siriano per i
Diritti Umani.
Radwan è un anziano medico
siriano, che vive a Yarmouk da quando l’esercito governativo ha colpito la sua
casa a Dara’a. La sua famiglia è stata sterminata. Gli rimane una figlia che è
riuscita a lasciare la Siria: «Ora è in Libano — dice — ma il posto è cambiato,
il dolore l’ha seguita». Radwan lavorava nel Palestine Hospital. Quel giorno, quando
sono iniziati i raid aerei siriani, le sue mani venivano implorate da una
stanza all’altra, tra trasfusioni e ferite da arma da fuoco. «Le ferite alla
testa e le ossa rotte sono semplicemente curate con le bende», ci racconta
affaticato. Fermo nelle sue idee, continua: «Tutti quelli che combattono qui
sono sponsorizzati da qualcuno. Sono tutti giocatori nella guerra in Siria:
Arabia Saudita, Turchia, Qatar e Iran, e potenze mondiali come gli Stati Uniti
e la Russia».
L’ospedale non ha strumenti
chirurgici, solo un ecografo e un apparecchio per fare radiografie. Niente cure
pre o postnatali. Il governo siriano fornisce solo sali per la reidratazione e
antidolorifici di base. «Viviamo in 98, tra cui 40 bambini, nelle tre classi
della scuola di mio figlio». Non c’è rabbia o isteria nella voce di Enaya, solo
un racconto calmo dei fatti. «Un chilo di riso lo paghiamo quasi tre dollari,
più di tre dollari un chilo di pomodori. Non c’è zucchero. L’acqua è sporca. E
non abbiamo il permesso di attraversare la terra di nessuno sui bordi del
campo, una volta al mese, per raccogliere pacchi alimentari». Nena News
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