un giorno
un operaio di nome Yakov Bok viene
arrestato e mandato in prigione, di quelle senza troppi agi, come il
riscaldamento, la pulizia, un letto decente.
la sua vita ha un
prima e un dopo.
prima vive in un
piccolo villaggio, abbandonato dalla moglie, e sopravvive; dopo si è spostato
in città, sempre precario, ma ha un colpo di fortuna, trova un lavoro e vive un
po' meglio.
fino a che viene
accusato di un omicidio mai commesso.
e, come K., entra
in un circolo infernale, fatto di torture, lusinghe, accuse, ancora accuse,
incontrando magistrati, carcerieri, compagni di cella, insetti, ferite, freddo,
catene, tra l'altro, la via crucis almeno aveva il pregio di essere breve.
dopo la
pubblicazione del libro Bernard Malamud
fu accusato di aver copiato la vera storia di Menahem Mendel Beilis, forse gli eredi speravano di fare un
po' di soldi.
Yakov Bok è un
uomo testardo, come lo era Michael Kohlhaas, gente con un'idea alta di
giustizia, senza patteggiamenti.
il romanzo è davvero straordinario, tutti i personaggi sono vivi, e non si dimenticano facilmente.
…Tra i grandi scrittori ebrei americani del Novecento –
Saul Bellow, Philip Roth e così via – Malamud, vincitore di due National Book
Award e di un Pulitzer, occupa, incredibilmente, la posizione più defilata.
Dev’essere perché le sue storie non hanno niente, o quasi, di rassicurante…
Spesso i suoi protagonisti sono vittime di un destino disgraziato, da cui non
riescono a liberarsi. Questa cosa è detta in modo chiaro nel Commesso,
altro romanzo di Malamud, quando lo scrittore si riferisce a uno dei suoi
protagonisti – anche lui ebreo: “Era Morris Bober e non poteva avere una
sorte migliore“. E nell’Uomo di Kiev: “Yakov aveva paura che
in prigione gli sarebbe andata male, e gli andò male fin dal primo momento“.
Ancora, se lo stile di Bellow e Roth risplende di una luce scintillante, una prosa ricca e piena, a volte persino opulenta, lo stile di Malamud è più… misterioso, complicato, difficile da spiegare. Il che è strano, perché Malamud scrive frasi dalla struttura e dal lessico accessibili, senza fronzoli, si direbbe. Gli incipit dei suoi racconti sembrano attacchi di un pezzo di cronaca nera…
Ancora, se lo stile di Bellow e Roth risplende di una luce scintillante, una prosa ricca e piena, a volte persino opulenta, lo stile di Malamud è più… misterioso, complicato, difficile da spiegare. Il che è strano, perché Malamud scrive frasi dalla struttura e dal lessico accessibili, senza fronzoli, si direbbe. Gli incipit dei suoi racconti sembrano attacchi di un pezzo di cronaca nera…
…Come in un
romanzo di Dostoevskij, il corpo dell’aggiustatutto precipita ad un livello di
umanità sempre più basso, mentre il suo spirito ascende a una grazia
chiarificante e insostenibile. Le torture e le malattie agiscono per
sottrazione su di lui, ripulendolo dal superfluo del mondo e donandogli, in
cambio, la capacità di accettare il suo destino – che è il destino di tutti gli
ebrei. “Vey is mir”, povero me, è la frase con cui appare
sulla prima pagina, e in quelle tre parole yiddish si nascondono passato,
presente e futuro della sua stirpe.
Nel corso del romanzo l’immedesimazione si fa più violenta e partecipata, ma le pagine finiscono senza che davvero si sappia cosa succeda al povero Yakov Bok: è questo un ulteriore dono di Malamud, che ci fa dimenticare l’importanza del finale, lasciandoci sospesi e tramortiti ma, a suo modo, purificati…
Nel corso del romanzo l’immedesimazione si fa più violenta e partecipata, ma le pagine finiscono senza che davvero si sappia cosa succeda al povero Yakov Bok: è questo un ulteriore dono di Malamud, che ci fa dimenticare l’importanza del finale, lasciandoci sospesi e tramortiti ma, a suo modo, purificati…
…L’uomo di Kiev (del 1966, ora edito da
minimum fax, pag. 405, euro 14,50) si rifà a una storia vera, la vicenda di
Mendel Beilis, ebreo ucraino ingiustamente accusato di aver ucciso un bambino
cristiano. Narrando questa storia, Malamud mostra quanto il suo Yakov non sia
solo l’incarnazione di Mendel Belis, ma quanto entrambi abbiano in comune col
Giobbe biblico (figura cara alla letteratura di Malamud, come ricorda
Alessandro Piperno nella prefazione: «La storia che racconta Malamud è sempre
la stessa: quella di Giobbe»). Per circa trecento pagine il lettore è in cella
con Yakov, le stagioni ruotano oltre le sbarre. All’accusa di aver ucciso un
bambino per compiere col suo sangue riti ebraici, si sommano nuove bugie,
calunnie che riguardano violenze sessuali, furti, leggende di ogni genere
legate al suo ebraismo (fuori dalla prigione, si prepara un nuovo pogrom). Per
Malamud, la questione è: «Come può un uomo difendersi da insinuazioni,
allusioni, accuse così spaventose, se nessuno è disposto a credergli?».
Nella mentalità di chi si nutre di complotti, la realtà è
intangibile, gli indizi sfuggono, le prove si rovesciano, solo le insinuazioni
sono concrete. L’unica risposta alle accuse è ribadire all’infinito l’evidenza:
«La marmellata non è sangue. Il sangue non è marmellata!». Se Malamud non fosse
un grande scrittore – uno cioè che ha scritto romanzi perfetti come Il
commesso, Una nuova vita, Il migliore –
il lettore patirebbe la stessa claustrofobia e il tedio di Yakov. Malamud
invece riesce nel miracolo di lasciare un personaggio incatenato e immobile
(«le mani gli dolevano per l’inerzia») e tenere attivo e libero il lettore…
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