giovedì 16 febbraio 2017

Le deleghe sulla “Buona Scuola”: una prima analisi - a cura di Clash City Workers


Il 17 Gennaio scorso sono stati pubblicati i testi degli schemi di decreto legislativo per l’attuazione della legge 107: dopo le polemiche dei primi giorni abbiamo fatto fatica a trovare analisi complessive. Eppure si tratta di un intervento a rullo compressore, che va a  peggiorare ulteriormente una legge già pessima: nelle stesse scuole il silenzio è stato tombale.
Ci siamo decisi, dunque, a leggere uno per uno gli schemi e a provare ad analizzarli: tra di noi ci sono docenti di ruolo, docenti in formazione, precari della scuola e della ricerca e formatori “informali”, tutti con competenze limitate rispetto ai propri campi d’intervento, ma nessun “esperto”: gli “esperti”, del resto, tacciono, mentre sarebbe il caso di gridare.
Prima di sottoporvi la nostra analisi, dunque, vi invitiamo ad uno sforzo di partecipazione collettiva: laddove tutto tace, è necessario che il mondo della scuola faccia sentire direttamente la propria voce. Per questo, consapevoli dei limiti della nostra analisi in molti punti (pensiamo all’infanzia e alle scuole all’estero, tanto per fare due esempi), invitiamo tutti a segnalarci errori, mancanze, interpretazioni errate, approfondimenti, nonché ad invitarci a discutere, ovunque vogliate: la loro forza è l’imposizione, la nostra è l’incontro, lo scambio e la condivisione!
Scriveteci quindi, e buona lettura!

Atto n. 377 – Riordino del sistema di formazione iniziale e di accesso nei ruoli di docente

Il decreto legislativo prevede l’indizione di concorsi regionali o interregionali a cadenza biennale (previa autorizzazione) il cui funzionamento è demandato ad un decreto da prodursi entro 120 giorni dall’attuale. La definizione delle classi di concorso (art. 5) è sottoposta ad un riordino ed aggiornamento periodico: svanisce la certezza delle discipline d’insegnamento connesse ad un determinato titolo, per aprire le porte ad un demansionamento di massa, dal momento che questa novità, unita alla possibilità per i docenti già in servizio di aggiornarsi per insegnare in classi di concorso affini o alternative, serve solo allo scopo di garantirsi dei docenti tuttofare, disposti a cambiare materia, nonché scuola, ogni volta che i tagli e le ristrutturazioni lo richiederanno. Insomma: la fine della certezza delle classi di concorso – del resto già profondamente modificate negli anni precedenti – non serve ad altro che a ridurre drasticamente il fabbisogno futuro di insegnanti del nostro sistema nazionale di formazione!
Tra i titoli d’accesso previsti, oltre alla laurea o a diplomi equivalenti, figureranno 24 crediti formativi in discipline antropo-psico-pedagogiche e metodologie didattiche, il tutto senza che sia all’orizzonte la costruzione di un serio percorso di studi orientato all’insegnamento, o di moduli coerenti, offerti dalle università pubbliche, per fornire adeguata preparazione alla pedagogia e alla didattica per studenti delle diverse discipline: siamo malpensanti se sospettiamo che questi 24 crediti saranno erogati da opachi enti di formazione privati, o comprati a caro prezzo, esame per esame, negli Atenei?
Per rendere ulteriormente classista l’accesso alla professione, si richiederà un attestato (dunque non una verifica in sede d’esame) di conoscenze linguistiche di livello B2, oltre ad un attestato di competenze informatiche. Nulla da eccepire sulla necessità di avere competenze linguistico informatiche, ma: è proprio necessario un B2, che è un livello abbastanza alto, per tutti? Lo Stato non può verificare in sede d’esame le competenze, è necessario comprare degli attestati? Evidentemente sì.
Le prove d’esame saranno tre, due scritte e una orale, più una aggiuntiva per il sostegno, le scritte verteranno sulla disciplina la prima e sulla didattica la seconda, tutto come nell’ultimo, famigerato concorso. I punteggi ottenuti servono per costituire una graduatoria di merito.
Passiamo ora al tirocinio. Viene finalmente abolito l’odioso TFA. Ma cosa lo sostituisce? I vincitori di concorso stipulano un contratto triennale, il cui trattamento economico sarà stabilito in sede di contrattazione nazionale. Il decreto, però, già sancisce che la retribuzione del terzo anno sarà pari a quella di una supplenza annuale per un posto equivalente, mentre quella dei primi due anni sarà stabilita tenendo conto di un limite massimo di 117 mln di euro annui di risorse aggiuntive, più la spesa per eventuali supplenze brevi che i tirocinanti svolgeranno. Non c’è bisogno di Einstein per capire che, con quella cifra, la retribuzione dei tirocinanti nel biennio sarà significativamente inferiore a quella di un insegnante in servizio: se fossero vere le indiscrezioni pubblicate su “orizzonte scuola”, per cui al prossimo concorso (nel 2020!) saranno banditi 20893 posti per i primi due anni i nuovi docenti percepiranno ben 466 euro mensili lordi!
Entro il primo anno il tirocinante deve conseguire un diploma di specializzazione, mentre al termine del secondo anno deve essere sottoposto a una valutazione intermedia dopo aver svolto un progetto di “ricerca-azione”, al termine del terzo anno, sulla base della frequenza ai corsi, delle ore di tirocinio diretto e indiretto svolte e della valutazione del progetto, il tirocinante è assunto, o meno, come docente. Se arriva vivo.

Atto n. 378 – Inclusione degli studenti con disabilità

L’inclusione degli studenti con disabilità passa, materialmente, per l’accesso fisico degli studenti stessi a scuola. La spesa per assistenti materiali, accompagnamento ed eliminazione degli ostacoli fisici è in capo agli Enti Locali, le cui possibilità di spesa sono note in negativo (per la riduzione delle risorse rimandiamo di seguito all’analisi dell’atto n. 381 sul Diritto allo Studio), quindi immaginiamo che resteranno le solite difficoltà di personale mancante, trasporto assente e scuole inagibili (per studenti con e senza disabilità!).
Ammesso che lo studente disabile sia riuscito ad entrare a scuola, non sarà più sottoposto a diagnosi funzionale né all’elaborazione di un profilo dinamico-funzionale, com’era previsto dal comma 5 dell’art. 12 della legge 104 che poneva, almeno sulla carta, l’Italia all’avanguardia in Europa nell’inclusione dei soggetti con disabilità. Tutto quel procedimento, anche complesso e macchinoso, ma che almeno prevedeva il coinvolgimento di personale specializzato delle ASL, è sostituito da una semplice valutazione diagnostico-funzionale, fatta non si sa da chi, finalizzata solo all’elaborazione del Piano Educativo Individualizzato. Vengono soppresse anche le verifiche periodiche della diagnosi e del profilo, nonché l’obbligo di aggiornamento al termine della scuola materna, elementare, media e nel corso della scuola superiore. Una sola valutazione, fatta probabilmente da personale non specializzato, segnerà il percorso scolastico degli studenti fino alla sua conclusione!
Un punto chiave dello schema di decreto è il comma 4 dell’articolo 6: le commissioni mediche deputate alla definizione delle prestazioni sociosanitarie e al riconoscimento del diritto al sostegno didattico potranno decidere soltanto sulla base della valutazione diagnostico-funzionale, e non sul riconoscimento della disabilità. Che vuol dire? Vuol dire che se uno studente è clinicamente disabile ma è in grado di stare in classe da solo senza pericoli per sé e per gli altri (cosa che, presupponiamo, sarà “certificata” dalla famigerata valutazione, fatta una volta e per sempre) non avrà diritto al sostegno! Siamo facili profeti, insomma, se immaginiamo che, in scia con quanto già accaduto negli ultimi anni, il numero degli aventi diritto al sostegno diminuirà drasticamente, col solo scopo di far diminuire il fabbisogno di docenti di sostegno!
I pochi docenti di sostegno che rimarranno non potranno passare sui posti comuni – cioè all’insegnamento delle “materie” – prima di dieci anni di servizio; contemporaneamente, i docenti dell’organico dell’autonomia, in possesso di specializzazione, potranno essere assegnati, dal dirigente scolastico, al sostegno.

Atto n. 379 – Riordino istruzione professionale

Per quanto riguarda gli istituti professionali, i percorsi di alternanza scuola-lavoro possono andare a detrimento delle 2112 ore complessive di istruzione previste nel primo biennio (14-15 anni), per un totale di 264 ore (nell’ambito della personalizzazione degli apprendimenti). Nei professionali l’alternanza scuola lavoro può avviarsi già a partire dai 15 anni (!). In generale l’alternanza, secondo quanto già previsto dalla 107, va a detrimento delle 1056 ore di orario scolastico previste per il triennio.
I percorsi formativi regionali vengono messi in rete con quelli nazionali. La formazione professionale regionale raggiunge però troppo spesso livelli infimi, non solo in quelle regioni dove non ci sono risorse, ma anche dove la formazione è diventata un vero e proprio business, in quanto, grazie alla legge sulla parità scolastica del marzo 2000 e alla legge Moratti, i percorsi di istruzione e formazione professionale, che consentono in 3 o 4 anni di ottenere una qualifica, sono spesso gestiti da soggetti privati accreditati dalle Regioni.
Nonostante tutte le indicazioni sulla necessità di estendere l’utilizzo dei laboratori, l’appello a dotarsi di specialisti all’interno dell’offerta formativa, etc. la dotazione finanziaria è infima (si aggira sempre intorno ai 50/60 mln di euri). Si permette invece la possibilità di un finanziamento privato dei professionali.  È significativa poi l’introduzione, nelle nuove denominazioni, dell’ “Artigianato per il made in Italy” che raggruppa i vecchi indirizzi connessi alla produzione industriale ed artigianale: così come nell’ambito della promozione culturale, a contare sembra essere esclusivamente la possibilità di utilizzo del brand Italia; che cosa, come si produce, per chi e perché diventano secondari.

Atto n. 380 – Scuola dell’infanzia

Il decreto prevede che il personale dovrà avere una formazione universitaria, il che è giusto e facile, e in gran parte è già così. Peccato che, contemporaneamente, lo schema di decreto punti ad attuare pienamente la legge sulla parità scolastica del 2000, introducendo le scuole paritarie nel sistema pubblico. Sappiamo bene quali sono, già oggi, le condizioni di lavoro tanto nei nidi privati, quanto in quelli pubblici in cui una parte del personale è gestita da cooperative: tanto nero e grigio, nessuna garanzia sulla continuità didattica, salari bassi e precariato. Tutto ciò ovviamente al governo non interessa: precari@ ok, ma laureat@!
La copertura per la costruzione di nuovi Poli dell’infanzia innovativi (150 mln di euro, pochini), dovrebbe essere garantita, non si sa per quale motivo, dall’INAIL (!), e per i canoni d’affitto dei locali recuperati la legge 107 destina 4,5 mln annui, da recuperare dal fantomatico fondo per la Buona scuola. Il decreto si pone inoltre l’obiettivo di raggiungere la copertura del 33% della popolazione sotto i tre anni, e del 75% della platea a cui è destinata la scuola dell’infanzia: si tratta di circa 4 milioni di bambini, un obiettivo assolutamente fuori portata rispetto alle risorse stanziate.
Non poteva mancare il welfare aziendale: le aziende potranno erogare alle lavoratrici e ai lavoratori che hanno figli di età compresa fra i tre mesi e i tre anni, un buono denominato «Buono nido» spendibile nel sistema dei nidi accreditati o a gestione comunale. Tale buono non prevede oneri fiscali o previdenziali. Come, però, abbiamo avuto modo di vedere negli ultimi rinnovi contrattuali – ultimo quello dei metalmeccanici – , non solo il welfare aziendale sostituisce l’aumento contrattuale in busta paga, ma essendo spesso defiscalizzato rappresenta l’ennesimo regalo alle aziende, e ciò in un momento in cui – come abbiamo visto – la spesa pubblica per servizi sanitari, o, in questo caso, per le scuole d’infanzia, è totalmente insufficiente a coprire il fabbisogno!

Atto n. 381 – Diritto allo studio

La luce che guida le sedicenti disposizioni per il diritto allo studio è, da vent’anni almeno, sempre e solo una: la sostenibilità, l’efficienza e l’economicità delle misure. Ogni “buon proposito” inserito nel decreto è infatti subordinato alle possibilità di spesa degli Enti Locali, notoriamente floride.
Complessivamente, infatti, i comuni hanno visto una riduzione di risorse ordinarie impressionante, vale a dire un taglio di 9.043 milioni di euro dal 2011 al 2015,  mentre il personale in servizio delle amministrazioni comunali italiane si è ridotto, nel periodo 2007-2014, di 63.000 unità passando da 8 dipendenti per 1.000 abitanti a 6,8 dipendenti per 1.000 abitanti.
Ecco quindi che l’accompagnamento scolastico per la primaria è garantito, ma su istanza di parte e previo versamento di un contributo; il comodato d’uso dei libri di testo dopo la primaria è una mera possibilità; la mensa, i servizi per gli studenti in regime di assistenza domiciliare od ospedaliera, tutto è subordinato alle disponibilità finanziarie. Il diritto costituzionale all’istruzione è, insomma, come sempre, subordinato alle leggi di bilancio! Al danno si aggiunge la beffa: vengono eliminate le tasse scolastiche per le scuole secondarie, ma i maggiori oneri derivanti da questa misura vengono coperti con corrispondenti tagli del Fondo di miglioramento previsto dall’art. 1, comma 202, della legge 107! Insomma, non ci chiedono più soldi, e in cambio di questo sconticino sottraggono ulteriori soldi pubblici – quindi sempre nostri! – all’istruzione (per destinarli a chi?)

Atto n. 382 – Promozione della cultura umanistica, della valorizzazione del patrimonio e del sostegno alla creatività.

Già dal titolo è il più divertente dei decreti. Sembra positivo che si aggiungano curricula artistici, che sono mancati tanto. Il tutto però pare molto vago: vengono aggiunti i cosiddetti “temi della creatività”, da introdurre nella progettazione del curricolo, attraverso l’individuazione di 4 aree
1)    Musicale-coreutico;
2)    Teatrale-performativo;
3)    Artistico-visivo
4)    Linguistico-creativo
Sul piano concreto c’è poco o nulla: un fondo di appena 2 milioni di euro l’anno – sempre sottratti al fondo di miglioramento – per sviluppare i temi della creatività; il 5% del contingente del potenziamento dedicato a cultura, arte, patrimonio e creatività.
Sul piano ideologico, invece c’è tanto, a partire dalla ripetizione quasi mantrica del made in Italy posto affianco a generici riferimenti alla cultura umanistica; la valorizzazione delle radici culturali di un generico “territorio”; lo sviluppo dei temi della “creatività”, col sostegno e la promozione delle opere dei giovani talenti. Sembra che,  più che un’attenzione alla “creatività”, che è cosa talmente bella e importante da non trovare posto in una scuola i cui saperi si vogliono misurabili con test discutibili, ci sia una forte attenzione al marchio e alla “rappresentazione” di ciò che significa “Italia”, dagli aspetti più artistico-culturali a quelli più commerciali, il tutto in un paese a vocazione produttiva sempre più ridotta. Per farla breve: l’idea di cultura che hanno le nostre classi dirigenti è un mix di X Factor, sagre paesane e Lapo Elkann, ricoperto da parole difficili, tutto senza un euro.

Atto n. 383 – Scuole italiane all’estero

Vengono significativamente ridotti gli assegni di sede, con tagli che vanno dai 120 ai 150 euro, a fronte di un costo della vita certamente aumentato rispetto a venti anni fa. Gli anni di missione, ai fini contributivi e di anzianità, valgono come quelli svolti sul territorio nazionale, senza tenere in alcun conto il disagio del distacco e del rientro dopo un certo numero di anni. Il fondo destinato alle scuole all’estero viene, inoltre, significativamente ridotto per finanziare alcune attività già previste sul territorio nazionale: è evidente, insomma, la volontà concreta di smantellare la rete delle scuole italiane all’estero, mentre a parole ci si riempie la bocca con la difesa della lingua e della cultura italiana nel mondo!

Atto n. 384  –  Schema di decreto legislativo recante norme in materia di valutazione e certificazione delle competenze nel primo ciclo ed esami di Stato

Il decreto rende le Invalsi attività ordinarie: si tratta di un altro tassello nel percorso di standardizzazione, della necessità di quantificare, selezionare, dividere in categorie, fin dalle classi della primaria. L’art.21 predispone anche, pericolosamente, che il risultato degli Invalsi entri a far parte del curriculum dello studente dell’ultimo anno di secondaria superiore, e che su questo voto le Università possano valutare in autonomia se ammettere o meno lo studente ai propri corsi. Se la ratio è quella di rendere quanto più misurabile possibile – e quindi selezionabile, escludibile – lo studente, in termini reali il risultato è che il docente adatta sistematicamente i programmi alle prove Invalsi, quando ci riesce, o verosimilmente c’è uno scollamento tra valutazione e lezione, tra l’obbligatorietà della prova e la strategia del docente. Il risultato, insomma, è un calo qualitativo della didattica, che passa per la progressiva sostituzione delle discipline finora insegnate – Italiano, Matematica, Scienze… – con oggetti didattici denominati allo stesso modo, ma in tutto differenti, semplificati, volti esclusivamente al problem solving e non allo sviluppo delle capacità di astrazione, interrogazione critica, dubbio. Non è detto che anche solo in termini di “produttività” ciò sia positivo.
Sia chiaro, non si tratta di essere contro la valutazione della didattica, anzi, la scuola ha bisogno di essere valutata: il nodo è quale valutazione adottare. La pretesa standardizzazione delle conoscenze imposta dall’INVALSI annulla la differenza dei percorsi che ogni alunn* compie per arrivare al suo personale traguardo, a partire da punti di partenza che permangono drammaticamente diversi (per contesti familiari, sociali, economici, e banalmente per l’appartenenza di classe): oggetto di valutazione, dunque, dovrebbero essere piuttosto i percorsi dei singoli studenti e i processi attivati, nel lavoro quotidiano, dai docenti per permettere ad ognuno di raggiungere il proprio obiettivo. Si tratta poi di liberare l’attività valutativa dalla perversa logica punitiva e premiante al tempo stesso, e ricondurla alla dimensione collegiale che le è propria, nonché al carattere formativo della valutazione stessa. La scuola, e in particolare il primo ciclo, esplodono nella contraddizione tra una didattica che si vuole il più possibile personalizzata e un esame che di quella personalizzazione non tiene alcun conto, con l’unico risultato di poter addirittura prevedere quali saranno le scuole, le città, le regioni migliori e quelle peggiori, senza sapere, o meglio senza voler intervenire seriamente sulle cause di quella differenza.
Le prove INVALSI conclusive del secondo ciclo di istruzione diventano, come quelle del primo, parte dell’Esame di Stato: in questo modo ricadono sotto i limiti imposti dalla normativa sugli scioperi, per cui i docenti contrari non potranno, a pena di sanzioni, rifiutarsi di sottoporle.
Nella scuola secondaria superiore l’alternanza suola lavoro diviene parte dell’esame di Stato. La cosa è grave, perché canonizza l’ingresso prematuro al lavoro e tutto ciò che ne consegue in termini di disciplinamento. L’Esame di Stato esiste infatti per definire la quantità e la qualità minima di sapere per ottenere un diploma valido su tutto il territorio nazionale o un’abilitazione professionale. In questo modo si sancisce che il livello minimo richiesto è il “saper stare in azienda alla totale mercé del padrone”, non importa con quali conoscenze e abilità.

Conclusioni

Le deleghe reificano l’ideologia della classe dominante sulla formazione. Ricapitoliamo i nodi più significativi:
§  tagli drastici alle spese per il diritto allo studio, l’infanzia, le scuole all’estero, il sostegno
§   aumento del divario tra istruzione superiore liceale e professionale
§   aumento della penetrazione dei privati nel sistema nazionale di formazione, con il consolidamento della presenza delle scuole paritarie, il rafforzamento dell’alternanza scuola-lavoro, l’apertura a finanziamenti di privati
§   un’idea della formazione di base tutta orientata al problem solving, misurabile e quantificabile, per cui passa in secondo piano lo sviluppo delle capacità di astrazione, critica, interrogazione e tutto quanto è sapere non immediatamente “utile” a vantaggio di un apprendimento, esplicitato, a “stare sotto padrone”, in silenzio, svolgendo in modo efficace i compiti richiesti
§   un’idea della formazione superiore in cui l’imprintingdella logica aziendalistica si riassume nell’ossessione per il made in Italy, che nei professionali si traduce nel prestare corpi e menti alle aziende a titolo gratuito, nei licei nello sviluppo, a costo zero, di un’idea di arte e creazione lontana da ciò che dovrebbe essere e vicina al concetto di promozione e sponsorizzazione di un patrimonio più “totemico” che reale, cristallizzato, impacchettato e venduto come merce, appunto, made in Italy
§   un’idea della professione docente come di un lavoro demansionato, flessibile, ricattabile, multitasking, per cui, mutuando in pieno le logiche aziendalistiche, tutti possono fare tutto, spendendo poco. Ricordiamo, senza timore di essere fuori tema, che i contratti nazionali sono fermi al 2009, così come gli scatti e i livelli contributivi.
Ce n’è abbastanza per dirsi che la lotta contro la 107 si è fermata troppo presto, e che chi verrà a chiedere i voti del mondo della scuola, se mai ci sarà qualcuno che avrà la faccia per farlo, dovrà garantire necessariamente l’abolizione totale della legge, fatte salve le assunzioni degli ultimi anni. Solo da questo si può ripartire.


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