Lo aveva annunciato nell’ultimo consiglio di classe la collega che si
occupa dell’alternanza scuola-lavoro, che nel caso in cui si fossero fatte vive
importanti aziende del territorio, avrebbe prontamente modificato l’ancora
incerta pianificazione delle 400 ore di attività prevista dalla legge per i
Tecnici e i Professionali e avrebbe fatto in modo di “non farsi sfuggire questa
grande occasione.” Così, quando senza alcun preavviso ho ritrovato la mia
classe radunata insieme alle altre terze dell’Istituto perché le fosse
presentata la possibilità di svolgere un tirocinio di 80 ore in una delle più
importanti aziende di packaging della nostra provincia, ho capito che
l’occasione era arrivata.
Avrei potuto protestare e riprendermi i miei studenti, ma ho preferito
ascoltare anch’io. La proposta si presentava allettante, ben lontana dalle
facili accuse di irrilevanza formativa e sfruttamento di manovalanza gratuita
che si sono attirate le recenti convenzioni del MIUR con Mc Donald’s e altre
multinazionali. Qui si parlava di “lavoro progettuale” da svolgere in presenza
e su piattaforma online, di modalità di “lavoro di gruppo”, di approfondimenti
sulla “fotografia industriale” e di “problem solving.”
La preside ci ha tenuto a sottolineare che il nostro Istituto Tecnico è
uno dei pochi selezionati in un contesto in cui a partecipare sono soprattutto
Licei e si è raccomandata di farle fare bella figura. Al momento delle domande
degli alunni, poche e timide mani alzate a chiedere informazioni su orari e
durata del progetto sono state subito zittite con fare minaccioso, paventando
la sostanziale differenza tra il permissivismo della scuola in fatto di orari e
giustificazioni rispetto al “vero mondo del lavoro”. E così se ne è passata
l’ora.
Poi ho scoperto che solo metà classe ha “colto l’occasione” di mettersi
alla prova in questa nuova esperienza formativa che si svolgerà durante
l’orario scolastico, secondo un calendario che non ci è dato sapere. Quindi, ho
dedotto che nelle prossime settimane mi troverò senza particolare preavviso la
classe dimezzata. A dire il vero non ricordo di avere mai votato in collegio
un’organizzazione oraria di questo genere e mi riprometto di sollevare vibranti
proteste nel prossimo, cioè a cose fatte.
Al quadro va aggiunto il fatto che gli alunni stanno svolgendo nel
pomeriggio alcuni corsi di varia natura sulla sicurezza (che sarebbe un obbligo
delle aziende), sull’uso del software autoCAD e altro, mentre tra febbraio e
marzo è prevista una prima sospensione delle attività didattiche di una
settimana, durante la quale noi docenti svolgeremo attività inerenti
all’alternanza scuola-lavoro, come la simulazione d’impresa (il prof. di
Italiano, così mi è stato detto, potrebbe insegnare finalmente a scrivere un
curriculum vitae, che sarebbe anche un modo di fare qualcosa di veramente
utile). Tra fine maggio e inizio giugno, poi, le lezioni saranno nuovamente
sospese per permettere agli alunni di svolgere altre attività di stage presso
le aziende (farlo durante l’estate non coincide con le aspettative delle
famiglie e degli studenti, anche perché la retribuzione è nulla).
Questa, dunque, è la pianificazione per le classi terze. Per quanto
riguarda, invece, le quarte e le quinte la cosa è stata risolta con lunghi
stage e così le quinte, per esempio, hanno cominciato a frequentare la scuola
praticamente da novembre.
È la via italiana al sistema scolastico “duale” tedesco. Così
preannuncia ilMinistero e dietro si affrettano varie agenzie pronte a tuffarsi
sulla torta di 100 milioni di euro all’anno. Sulla totale impreparazione delle
scuole non c’è nemmeno da discutere, per cui il paragone non regge neanche un
minuto. In Germania il sistema viene gestito dai vari Land e le aziende sono
parte integrante della pianificazione didattica dei vari percorsi scolastici
che riguardano gli alunni dai 16 ai 18 anni. La settimana è di regola divisa
tra 4 giorni in azienda e 2 a scuola; gli alunni firmano con le aziende un vero
e proprio contratto di apprendistato (percepiscono pertanto una retribuzione) e
gli esami finali sono concordati tra scuole e aziende. Il sistema tedesco di
fatto è un modo di regolamentare la formazione di operai specializzati,
artigiani e operatori dei servizi. Ed è circa il 60% degli studenti che
completa la sua formazione in questo modo. Inoltre, la selezione verso questi
percorsi a discapito di quelli liceali (unici a dare accesso all’Università) si
compie già tra i 10 e gli 11 anni, quando la decisione viene presa di fatto
dagli insegnanti delle scuole elementari.
Siamo sicuri che ci interessa copiare questo modello? Se lo facessimo,
sarebbe come tornare indietro a prima della riforma delle scuole medie
unificate (1962) e riaprire i ginnasi (così si chiamano infatti le scuole che
in Germania permettono di proseguire gli studi fino ai più alti gradi).
La Costituzione e il sentire comune forse non lo permettono, ma si dice
che il sistema scolastico tedesco incrementi l’occupazione dei giovani, che
infatti in Germania è più elevata che in Italia. Perciò, nessuno se la sente di
mettere in discussione l’intera partita dell’alternanza scuola-lavoro
(l’abolizione dell’obbligo dell’alternanza scuola-lavoro era uno dei quesiti
referendari che non ha raggiunto il numero di firme necessarie).
In realtà, sarebbe abbastanza semplice smontare questo argomento perché
è chiaro che, se manca l’offerta di lavoro, non si può aumentare l’occupazione
con i tirocini. Così, per esempio, spiega l’economista Emiliano Brancaccio
“Possiamo affermare che alla fine del 2012 il numero di posti di lavoro
vacanti, in Italia, non doveva esser molto più del 4% del totale dei
disoccupati e del 19% del totale dei giovani disoccupati. Dunque, anche
ammettendo che i disoccupati avessero le qualifiche necessarie per svolgere le
mansioni richieste, è evidente che i posti disponibili erano di gran lunga
inferiori al numero di persone in cerca di lavoro.”
Un risultato (al di là della propaganda), però, si sta perseguendo: far
accettare alle nuove generazioni l’idea che un’esperienza lavorativa è un
arricchimento valido di per sé e che per questo non è necessario che sia
retribuito, perché ciò che conta è farsi notare, adattandosi alle richieste del
datore di lavoro. Un grande impatto hanno sicuramente le metodologie di lavoro
per problem solving che trovano eco anche nelle agenzie di innovazione
didattica (come per esempio la casa editrice Erikson) che stanno suonando le
trombe della digitalizzazione dell’insegnamento.
Il problem solving, in effetti, è una metodologia didattica mutuata
dalle imprese, per cui non deve stupire che alcune di queste siano capaci di
insegnarla, ma è chiaro che l’apprendimento si riduce al saper trovare
rapidamente una soluzione brillante al problema posto dall’azienda.
Nell’esempio della mia preside a proposito dell’azienda di packaging:
inventare un modo di confezionare le vaschette del prosciutto in modo che il
prodotto si possa conservare una volta aperto, non è in alcun modo contemplata
l’idea che, per esempio, si possa sollevare il problema dello spreco energetico
relativo alla produzione di confezioni inutili per tipologie di prodotti
insensati (prosciutto già affettato), legati ad abitudini alimentari poco
salutari frutto di ritmi di lavoro che riducono all’osso il tempo di
preparazione e consumo dei pasti, eccetera, eccetera.
Cosa possiamo fare noi insegnanti che ci opponiamo a questa
mortificazione della scuola, piegata alle logiche della propaganda ministeriale
e agli interessi delle aziende?
Qualcosa forse si potrebbe provare a fare. Innanzitutto dichiarare
apertamente che hanno ragione gli studenti che rivendicano il diritto ad essere
pagati. Un lavoro, per essere tale, deve essere retribuito, altrimenti si
chiama hobby, o volontariato.
Inoltre, in attesa che si presentino condizioni più favorevoli
all’abolizione di queste ore, si potrebbe provare ad agire nelle pieghe della
legge per ribaltare il messaggio che al momento è dominante. Infatti, dato che
le scuole faticano a completare le 400 ore (200 per i licei) previste dalla
legge, potremmo utilizzarne una parte per diffondere una visione critica
dell’attuale realtà lavorativa e provare a stimolare la crescita di una cultura
del lavoro più consapevole dello sfruttamento in atto e dei metodi per porvi
rimedio.
Spiegare le nuove forme di precariato previste dal “Jobs act” di Renzi,
ma anche raccontare come ci si è arrivati, dal pacchetto Treu in avanti.
Approfondire le svariate forme di sfruttamento all’interno del mercato del
lavoro italiano: lavoro nero, caporalato, etnicizzazione del lavoro, ricatto
del permesso di soggiorno sulla manodopera straniera, divario di genere nelle
retribuzioni, mancato rispetto della maternità, esternalizzazioni.
Approfondimenti sugli impatti delle politiche europee per quanto riguarda la
deregolamentazione del lavoro, o la delocalizzazione delle aziende. Lettura di
una busta paga, descrizione dell’attuale sistema pensionistico contributivo,
confrontato con quello retributivo.
Ad illustrare questi argomenti potrebbero essere utili anche i film di
Ken Loach, o gli spettacoli di Ascanio Celestini e altri, ma si potrebbe anche
pensare di far intervenire “esperti del settore” quali operai disoccupati,
cassaintegrati, lavoratori impegnati in vertenze sindacali del territorio. Non
è da dimenticare poi la riflessione sulle attività di tirocinio svolte, il
giudizio su ciò che si è imparato e su ciò che si è notato di sbagliato.
Analizzare il modo in cui opera l’azienda di riferimento: se rispetta le norme
contrattuali dei lavoratori e le norme sulla sicurezza, qual è l’impatto
ecologico e sociale dei suoi prodotti, che danni reca la sua produzione
all’ambiente circostante.
E molto altro si potrebbe immaginare per rendere davvero queste ore
un’occasione di riflessione critica sul mondo lavorativo che attende fuori
dalla porta dell’aula e che anche i nostri alunni sono chiamati a cambiare.
Perciò, questo articolo vorrebbe essere anche un appello rivolto a
tutti gli insegnanti delle scuole superiori a provare e a raccontare.
Aspettiamo i vostri testi.
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