Ahmad Waqass Goraya, Asim Saeed, Salman Haider, Ahmed
Raza Naseer, Samar Abbas. Cinque attivisti laici, molto critici verso
l’estremismo religioso. Cinque uomini impegnati per i diritti umani in un
paese, il Pakistan, noto per violarli ripetutamente. Cinque persone che non hanno paura di dire la loro
opinione a rischio della propria incolumità. Tanto da essere stati rapiti,
all’inizio di gennaio, senza che nessuno sapesse come e da chi. Ma il perché è
facile capirlo, in un paese in cui è stata dedicata una
moschea all’assassino
di un politico che si batteva contro la legge che punisce la blasfemia, anche
con la condanna a morte.
Immaginiamo di essere uno degli
attivisti rapiti. Vivi in un paese in cui manifestare il proprio pensiero
richiede molto coraggio. Pochissimi cittadini la pensano come te. Forse pensi
che quanto fai ti sarà riconosciuto all’estero, ma ti sbagli di grosso. Le
popolazioni dei paesi “liberi” nemmeno sanno dove sta il Pakistan, figurati se
sospettano lontanamente la tua esistenza e il tuo impegno. Le istituzioni
“civili e democratiche” pensano al business e alla geopolitica. E chi si batte
per ideali simili ai tuoi sta zitto, perché pensa che criticare l’islam possa
esporlo all’accusa di islamofobia e/o rendere l’esistenza più difficile ai
musulmani che vivono sul suo territorio.
Così facendo, però, è la vita dei
dissidenti che vivono in terre a maggioranza islamica a essere posta in
pericolo. Il Freethought
Report 2016 ha
ricordato che sono dodici le nazioni che prevedono la pena di morte per
l’apostasia; sei quelle che la prevedono per la blasfemia. Sono tutti paesi
dove la religione di stato è quella islamica. Molti leader musulmani pakistani
– su YouTube,
sulle colonne dei giornali e persino dagli schermi televisivi – hanno chiesto
l’applicazione della legge e quindi la condanna a morte dei cinque attivisti
rapiti. Il governo non ha avuto niente da ridire. Del resto, il partito che
detiene il potere è la Lega Musulmana.
È stata da poco celebrata la
Giornata della Memoria. È importante ricordare la Shoah. Ma a mio parere è
altrettanto, se non addirittura più importante impegnarsi quotidianamente
perché non si ripetano nuove violenze. Ricordare quelle vittime restando
silenti di fronte a tante nuove vittime (qualcuno è interessato a fermare la carneficina in
Bangladesh?) è semplicemente ipocrita. Il Pakistan è un alleato
dell’Occidente: ma in cambio dell’alleanza (spesso soltanto formale)
l’Occidente chiude volentieri gli occhi su quanto vi accade. Capita lo stesso
per nazioni persino più liberticide del Pakistan, come l’Arabia Saudita. La
realpolitik deve prevalere, si suol dire, ma non si capisce proprio quali
vantaggi concreti stia dando.
Il 28 gennaio i cinque attivisti
pakistani sono finalmente stati liberati.
Hanno subito torture. Hanno
dovuto sottoscrivere un documento con cui si sono impegnati a non denunciare i
propri sequestratori. Forse non sapremo mai chi li ha rapiti. Ma, in qualche
modo, siamo tutti colpevoli di quanto hanno subito.
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