La nostra
Costituzione l’ha posto a fondamento della Repubblica. Papa Francesco l’ha
inserito fra i tre diritti cardinali assieme alla terra e alla casa. Stiamo parlando del lavoro, il bene che
tutti invocano come spartiacque fra assistenza e autonomia, fra carità e
autosufficienza. In una parola fra umiliazione e
dignità. Eppure un numero crescente di persone sta sperimentando che lavoro non
fa sempre rima con decenza. E’ notizia di questi giorni che in Cina sta tornando il lavoro
forzato nei campi di detenzione in cui sono rinchiusi gli oppositori al regime, in
particolare gli appartenenti a minoranze etniche.
Il 17
dicembre scorso il Financial Times ha
raccontato di lavoro forzato in fabbriche di scarpe allestite nei campi di
rieducazione, i famosi laojiao, situati
nella regione dello Xinjiang. E seppur formalmente impiegati in lavoro
liberamente scelto, non se la passano certo meglio i
lavoratori indiani che sguazzano a piedi nudi fra i liquami tossici delle
concerie o le operaie bengalesi che a malapena guadagnano due dollari al giorno
dopo aver passato dieci ore alla macchina da cucire. Secondo i calcoli dell’Organizzazione Mondiale del
Lavoro i lavoratori vulnerabili, ossia precari, malpagati e in situazioni a
rischio, nel mondo sono quasi un miliardo e mezzo, il 42% di tutti gli
occupati. La metà di loro sono
definiti working poors, lavoratori poveri, perché con compensi al
di sotto dei tre dollari al giorno, la soglia limite della povertà.
La novità è che ora i working poors abitano anche
fra noi. I loro
tratti distintivi sono paghe basse, discontinuità, scarse ore di lavoro e a
seconda che si prenda in considerazione un solo criterio o la combinazione di
più elementi, si ottengono risultati diversi sul numero dei working poors di
casa nostra. Prendendo a riferimento la sola paga oraria, l’Istat
preferisce parlare di sperequazione retributiva piuttosto che di povertà. Posta la mediana nazionale a 11,21 euro
l’ora, definisce a bassa paga chiunque riceva meno di 7,47 euro l’ora, che corrispondono a due terzi della mediana
nazionale. Il CNEL stima che i lavoratori a bassa paga siano oltre tre milioni, il 17,9% di tutti i lavoratori dipendenti, principalmente
lavoratori domestici, dell’agricoltura, delle costruzioni.
Ma anche
della piccola industria considerato che in settori come l’abbigliamento si
applicano contratti collettivi di comodo che per le categorie più basse
prevedono salari orari al di sotto dei 7 euro. Un caso è rappresentato dal
contratto 2015-2018 firmato fra Fedimprese e Snapel per le aziende façon. Un
settore a prevalente presenza femminile che conferma come l’ingiustizia
retributiva colpisca soprattutto le donne. L’Istat certifica
che benché più istruite, le donne ricevono
paghe mediamente più basse del 23% rispetto agli uomini. Il risultato è che nel 2016 il 59% di tutte le
donne impiegate nel settore privato ha percepito una retribuzione oraria
inferiore alla mediana nazionale.
Se
moltiplichiamo la paga oraria per le ore lavorate, otteniamo i compensi mensili
e annuali che ci danno un’idea più compiuta delle disponibilità monetarie dei
lavoratori e quindi della loro condizione economica. Ed è proprio il reddito
annuale il parametro utilizzato per stabilire chi sono i lavoratori poveri,
ricorrendo ancora una volta al confronto, piuttosto che ai concetti assoluti.
Il valore preso a riferimento è il reddito familiare mediano che in Italia
corrisponde a 25.000 euro. Per
convenzione, si definisce lavoratore povero chiunque guadagni meno del 60% di
tale importo, ossia meno di 15.000 euro l’anno. Quanti siano con esattezza è
difficile dirlo. Secondo il CNEL sono 5 milioni e 247mila, il 31% di tutti gli occupati. Ma
dai dati Istat relativi alle dichiarazioni dei redditi se ne ricava che sono
quasi 11 milioni, il 40% di tutti i percettori di reddito da lavoro.
E se in
valori assoluti predominano i percettori di reddito da lavoro dipendente, in
termini relativi la categoria a più elevata incidenza di lavoro povero è quella
dei lavoratori autonomi. Nel 2016 i lavoratori dipendenti che hanno dichiarato
redditi inferiori a 15.000 euro sono stati il 36%, 7 milioni e 437mila su 20
milioni e 660 mila, mentre i lavoratori autonomi sono stati il 57%,
3milioni e 420mila su 6 milioni. Il che indica
che l’autosfruttamento è l’ultima frontiera del capitalismo e che il lavoro
povero miete vittime soprattutto fra i giovani che spesso non hanno altra
possibilità di impiego se non l’apertura di una partita IVA, la formula per
fare credere che si è imprenditori di sé stessi, mentre si è lavoratori
subordinati esposti a grave sfruttamento. Ne è una prova la gig economy,
quell’insieme di lavoretti precari e malpagati (consegne a domicilio,
correzione di testi, servizio di baby sitter) che rappresentano la sola sponda
occupazionale di tantissimi giovani.
Non sorprenda, dunque, se l’Istituto di ricerca Ref
stima che il 25% di tutti i lavoratori fra i 16 e i 29 anni è a rischio di
lavoro povero. Peggio
di loro fanno solo gli stranieri con un tasso di rischio del 35%. Una categoria
particolarmente esposta è quella dei braccianti agricoli extracomunitari
con paghe tirate giù da un basso numero di giornate lavorate,
dall’inquadramento in qualifiche a bassa retribuzione o dalla combinazione di
entrambi. Nel 2017 l’Inps ha accertato che i loro compensi sono stati
mediamente più bassi del 35% rispetto al complesso dei lavoratori del
settore:13.927 euro invece di 21.509 euro.
Per quanto possa sembrare strano, per gli statistici
il lavoro povero non è automaticamente sinonimo di vita povera. A decretarne la separazione o
la sovrapposizione sono vari altri fattori, primo fra tutti le caratteristiche
familiari. Se guadagni poco, ma vivi assieme ad altri componenti che portano a
casa uno stipendio, alla fine puoi anche sfangarla decorosamente. Ma se la tua
magra busta paga è l’unica fonte di reddito di un nucleo familiare che magari
conta quattro persone, allora la vita si fa davvero grama. Così è stata creata
la categoria degli in work poverty,
persone che pur lavorando, sono costrette, esse stesse e i propri familiari, a
condurre una vita povera. In Italia sono il 10,5% di tutti gli occupati, oltre
due milioni di famiglie che non vedono applicato l’articolo 36 della
Costituzione:”Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla
quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé
e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.”.
Se
esaminiamo meglio la situazione notiamo che
la categoria di lavoratori maggiormente a rischio di vita povera è quella con
assunzioni a tempo determinato e part-time a dimostrare che la loro incapacità
di guadagnare abbastanza per mantenere la propria famiglia è il risultato al
tempo stesso di paghe basse e basse ore di lavoro. E se rimane difficile intervenire per obbligare le
aziende a garantire a tutti un orario pieno, di sicuro si può intervenire per
fissare un salario orario minimo dignitoso, ossia in linea con la mediana
nazionale. In un tempo in cui, complice la globalizzazione, le guerre
commerciali e le crisi economiche, la disoccupazione cresce e il potere dei
lavoratori si riduce, è compito della legge intervenire per ristabilire salari
che rispondano al dettato costituzionale.
E’ il grande tema del salario vivibile che un tempo
sembrava riguardare solo i paesi di nuova industrializzazione e che ora invece
coinvolge anche noi tradizionalmente ritenuti paesi ricchi. Un tema che inevitabilmente si
accompagna con un’altra grande questione ossia la protezione sociale garantita
dalla comunità nazionale, intesa non solo come intervento pubblico di
integrazione al reddito, ma soprattutto come fornitura di servizi pubblici
gratuiti in ambito sanitario, scolastico, sociale. In altri tempi il sindacato
aveva ben chiaro che il salario si
difende anche tramite la disponibilità di edilizia popolare e un’ampia rete di
servizi gratuiti. Per cui non si limitava a
condurre le sue lotte solo nei confronti delle imprese per ottenere
aumenti salari, ma apriva vertenze anche nei confronti delle istanze politiche
per rivendicare una maggiore spesa sociale, sanitaria, scolastica. Se non il sindacato, chi altri può
scendere a fianco dei lavoratori in povertà?
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