martedì 15 gennaio 2019

Africa, le aree di crisi che segneranno la stabilità del continente - Antonella Sinopoli



Se lo Yemen, la Siria, l’Afghanistan sono i Paesi i cui ormai lunghi anni di guerra stanno contribuendo a devastare il sempre precario equilibrio geopolitico in Medio Oriente, è l’Africa che continua ad alimentare il numero di conflitti nel mondo.
E il 2019 si annuncia come un periodo alquanto complesso per varie ragioni. Da un lato i numerosi appuntamenti elettorali – più di venti, tra presidenziali e legislative – dall’altro le nuove dinamiche economiche e di rapporti di forza e le solite ingerenze, che vedono affiancarsi a multinazionali e Governi europei il colosso cinese (con cui i Paesi dell’Africa Sub-Sahariana hanno un debito di oltre 417 miliardi di dollari) e gli Stati Uniti che pur in “crisi di egemonia” rimangono presenti sul territorio, soprattutto con basi militari e “partnership” (come quella con l’Unione Africana) per il “rafforzamento della pace, stabilità e sviluppo economico”. Per non parlare delle numerose “missioni di pace” ONU sparse in aree di crisi.
Sono appunto queste ultime che segneranno il futuro immediato del continente. Nei termini di stabilità e rafforzamento delle economie, sempre compromesse dai conflitti. E questi problemi non riguardano certo solo l’Africa. Perché, seppure certe tensioni e conflitti rimangono circoscritti a livello interno o regionale, l’instabilità economica e le conseguenze in termini di annientamento dei diritti e della giustizia sociale non possono non ripercuotersi altrove, pensiamo ad esempio ai rifugiati e di chi cerca condizioni di vita migliori e più sicure.
Ma vediamo quali sono i Paesi in maggiori condizioni di instabilità.
LIBIA
Il Paese rimane fortemente diviso. Otto anni di disordini cominciati con l’uccisione del dittatore Muammar Gheddafi lo hanno destabilizzato, facendolo di fatto cadere nel caos. La speranza è riposta nelle elezioni di cui da tempo si parla. Sfumata la data del 2018, non si sa ancora bene quando si svolgeranno. I principali leader rivali – Fayez al Serraj, il cui governo internazionalmente riconosciuto ha sede nell’Ovest, e il maresciallo Khalifa Haftar nell’Est del Paese – avevano accettato di cessare le ostilità e di indire elezioni. Vedremo cosa accadrà. Ma intanto resta la paura, non solo quella legata alla frammentazione ma che questo stato di cose potrebbe agevolare la diffusione dello Stato Islamico. Ad una situazione già difficile si aggiunge il fatto che la Russia ha ampliato la sua presenza in Libia e sta facendo pressioni per il ritorno di Saif al-Islam Gheddafi, il figlio del defunto dittatore, come possibile prossimo sovrano.
Le tensioni sono aumentate nella capitale Tripoli dopo l’attacco del 25 dicembre al ministero degli Esteri, rivendicato dall’ISIS. Continuano, intanto, le lotte tra le varie milizie e le dispute tra i politici dei Paesi che a vario titolo stanno intervenendo come “mediatori”. La legge sui referendum e due emendamenti costituzionali, che dovrebbe aprire la strada al referendum sulla bozza di Costituzione e al nuovo Consiglio della presidenza, non è piaciuta all’Alto Consiglio di Stato di Tripoli e ha suscitato critiche riguardanti presunte carenze sostanziali e procedurali. Neanche l’ultimo incontro tra le parti rivali ad Est di Bengasi, il 29 dicembre, ha portato a grandi risultati.
Intanto proliferano i centri di detenzione per migranti che vorrebbero arrivare in Europa, in realtà veri e propri lager, da dove giungono storie di disumana violenza.
MALI 
Iniziata nel Nord del Paese nel 2012, l’insurrezione islamica si è ripercossa in tutta l’Africa occidentale e non mostra segni di diminuzione. Lo spiegamento di oltre 15.000 soldati delle forze di pace delle Nazioni Unite e di 4.000 soldati francesi non è riuscito a impedire che gli attacchi dei militanti si diffondessero – ad esempio – nel vicino Burkina Faso, anch’esso interessato dalla violenza di gruppi estremisti.
La missione MINUSMA in Mali è quella che conta il maggior numero di morti tra le forze internazionali, almeno 177 peacekeepers hanno perso la vita finora. La situazione di instabilità ha generato oltre 140.000 rifugiati e oltre 55.000 sfollati. La situazione è praticamente di caos con frequenti attentati e la popolazione che si trova braccata dalle violenze jihadiste da un lato e le aggressive rivalità tra le varie etnie dall’altro. L’ultimo episodio risale a pochi giorni fa quando decide di uomini di etnia Fulani sono stati uccisi in un’area del centro del Paese dove, secondo le Nazioni Unite, la violenza etnica è costata la vita lo scorso anno a 500 civili. Lo scontro riguarda i pastori nomadi Fulani e gli agricoltori Bambara e Dogon. Una disputa che riguarda l’accesso alla terra da pascolo e alle fonti d’acqua.
Una situazione drammatica in un Paese povero e segnato, come dicevamo, dalla violenza dell’estremismo islamico. A tutto questo si aggiungono le violazioni dei diritti da parte dello stesso Governo e la critica situazione economica. Le forze di sicurezza nel mese di dicembre hanno represso le proteste dell’opposizione a Bamako, persone che cercavano di denunciare il malgoverno e l’estensione del mandato dei parlamentari fino al giugno 2019, dovuto ad un nuovo posticipo delle elezioni legislative. Più di 50 organizzazioni all’inizio di dicembre hanno denunciato la proposta di legge del Governo, National Understanding che – dicono – garantirebbe l’impunità sui crimini commessi durante gli eventi del 2012. E rimane ancora senza seguito l’accordo di pace firmato nel 2015, mentre lo scorso agosto è stato rieletto presidente Ibrahim Boubacar Keita, alla guida del Paese.
CIAD
Il Ciad ha schierato truppe e aerei militari vicino al confine settentrionale con la Libia in seguito a un attacco mortale dello scorso anno sulle postazioni dell’esercito, rivendicato dai ribelli del Consiglio militare del comando per la salvezza della Repubblica (CCSMR). Si ritiene che questo gruppo armato sia supportato dai combattenti libici. Settimane di scioperi dei lavoratori pubblici hanno peggiorato la già precaria situazione economica del Paese. Il presidente Déby il 5 dicembre ha ritirato il taglio dei salari dei soldati e ha firmato due accordi di finanziamento con la Francia, tra cui 40 milioni di euro per gli stipendi dei dipendenti pubblici e i pagamenti delle pensioni. Serviranno fino alla prossima crisi di liquidità. A tutto questo si aggiunge la presenza di Boko Haram e una grave crisi ambientale che riguarda il lago Ciad che bagna 4 Stati africani (Camerun, Ciad, Niger e Nigeria). Dal 1960 ad oggi la superficie del lago si è ridotta del 90%.
SUDAN e DARFUR
Il Sudan è entrato nel nuovo anno con proteste senza precedenti in quasi tutto il Paese riguardanti soprattutto l’aumento del costo della vita. Le proteste sono state represse brutalmente dalle forze di polizia Una situazione che sta mettendo a dura prova il presidente Omar al-Bashir – di cui i manifestanti chiedevano a gran voce le dimissioni – salito al potere con un colpo di Stato appoggiato dall’Islam nel 1989. Al-Bashir, che ha sedato diverse ribellioni interne è stato incriminato dalla Corte penale internazionale per presunti crimini di guerra e genocidio della popolazione del Darfur.
La situazione più critica è, appunto, quella di quest’area occidentale del Paese, con un conflitto in corso dal 2003. Situazione molto complessa dove si uniscono fattori religiosi, economici, territoriali. La battaglia continua senza soluzione di continuità: da un lato i gruppi ribelli: Sudan Liberation Movement (SLM) e Justice and Equality Movement (JEM), dall’altro il Governo di Khartoum accusato di oppressione e crimini contro la popolazione non araba e di spalleggiare e sostenere le feroci milizie dei Janjaweed. Negli anni tale oppressione ha assunto l’aspetto di un genocidio e ha generato una delle più gravi crisi umanitarie del pianeta – almeno 1.6 milioni di persone vivono in campi profughi – a cui si aggiunge un altro conflitto dimenticato, quello nel Kordofan meridionale.
SUD SUDAN
Dal 2013, inizio della guerra civile, nella più giovane nazione africana nata dalla separazione dal Sudan nel 2011, quasi 390.000 persone – secondo ultime stime – sarebbero morte nel conflitto. Quattro milioni sarebbero gli sfollati e quelli che si sono rifugiati in Paesi vicini. Il Sud Sudan è il terzo Paese nel continente sub-sahariano per riserve di petrolio, ma questa sembra essere una iattura per i suoi abitanti.  Dopo cinque anni di guerra il presidente Salva Kiir ha accettato di sedersi al tavolo negoziale con il leader dell’opposizione – ed ex vice presidente – Riek Machar. Intanto, negli anni si sono moltiplicati i casi di abusi sessuali e attacchi ingiustificati contro i civili. E anche in questo caso la comunità internazionale e l’ONU hanno ripetutamente parlato di crimini di guerra.
NIGERIA
I nigeriani andranno alle urne nel febbraio 2019 per le legislative federali e per eleggere un nuovo presidente. In programma anche le elezioni legislative. Le elezioni nigeriane sono state spesso caratterizzate dalla violenza – nel 2015 morirono più di 100 persone in vari scontri prima e dopo le consultazioni – e niente fa prevedere che questa volta saranno pacifiche. Muhammadu Buhari, presidente uscente si è ricandidato e il suo principale rivale è l’ex vicepresidente Atiku Abubakar. I rapporti tra i due sono particolarmente astiosi.
Tante le tensioni in questa che è la nazione più popolosa dell’Africa, i livelli di criminalità violenta e di insicurezza generale restano elevati e in particolare nel Nord-Est i civili sono tra due fuochi: le truppe governative e Boko Haram, che guadagna terreno e i cui attacchi in questo Paese sono particolarmente violenti e determinati. Altra questione è la violenza tra i pastori, prevalentemente musulmani e gli agricoltori, per lo più cristiani che ha già provocato migliaia di morti e messo in ginocchio l’economia tradizionale. La nazione più popolosa dell’Africa e sesto produttore di petrolio dell’OPEC, fa anche i conti con la crisi mai sopita nel Delta del Niger dove gruppi militanti hanno minacciato di riprendere gli attacchi.
CAMERUN
Nel Paese è di fatto in corso una guerra civile iniziata con le prime tensioni separatiste della popolazione anglofona (ovest del Paese), nel 2016 quando insegnanti e avvocati anglofoni scesero in piazza per protestare contro l’uso massiccio del francese nei sistemi di istruzione e legale. Rivendicazioni che si sono trasformate in proteste più ampie sull’emarginazione della minoranza anglofona del Camerun, che rappresenta circa un quinto della popolazione del Paese. Da allora è stato creato un Governo ad interim delle regioni anglofone e fondato lo Stato di Ambazonia.
Il Governo di Paul Biya, 85 anni e al potere da 36, non ha reagito bene e da allora le forze governative si oppongono brutalmente ai separatisti. Secondo l’ONU si contano già 30.000 rifugiati anglofoni nella vicina Nigeria e 437.000 sfollati interni. Non si conosce con esattezza il numero di morti in un conflitto che non vede molti testimoni al di là della popolazione locale. Nelle ultime elezioni Biya fece bloccare Internet nelle regioni anglofone. Un programma di disarmo recentemente annunciato non ha ancora prodotto risultati ma non si prevede nulla di buono dalla minaccia del presidente di fare piazza pulita di coloro che si rifiutano di deporre le armi entro quest’anno.
A peggiorare una situazione davvero critica c’è la presenza di Boko Haram che opera indisturbato, soprattutto nell’estremo Nord del Paese, nonostante le dichiarazioni di Biya che davanti alle telecamere aveva recentemente affermato che il gruppo terroristico era stato sconfitto. Gravi invece le accuse di Amnesty International, che nel suo Rapporto “Stanze segrete di tortura in Camerun: violazioni dei diritti umani e crimini di guerra nella lotta contro Boko Haram”  ha rivelato che “le autorità del Camerun hanno fatto ampiamente ricorso alla tortura contro i civili accusati di sostenere Boko Haram, spesso arrestati senza alcuna prova”.
SOMALIA
Una guerra civile senza soluzione di continuità è in corso in Somalia da due decenni, ma già a partire dagli anni Novanta ci sono stati conflitti e scontri che hanno ucciso – si stima – tra 350.000 e un milione di persone. Un’area di forte instabilità che si ripercuote in tutto il Corno d’Africa e in Paesi limitrofi anche a causa degli attacchi dei militanti di al-Qaeda, in particolare della fazione nota come al-Shabaab. Questi rimangono la principale fonte di insicurezza in Somalia, nonostante le continue operazioni per ridurne la forza, compresi i raid aerei statunitensi, intensificati sotto l’amministrazione del presidente Donald Trump.
Dal 2007 nel Paese è in atto la missione autorizzata dall’ONU, African Union Mission in Somalia (AMISOM), prorogata di anno in anno. Una delle più lunghe nella storia delle missioni di pace, quasi 12 anni. L’ultima estensione del mandato è stata a luglio 2018, il contingente resterà fino al 31 maggio 2019. Impegna 25.500 soldati e 500 poliziotti. 
Secondo gli ultimi bollettini dell’OCHA, l’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli aiuti  umanitari, alla situazione disperata già generata dal conflitto vanno aggiunte la siccità e la conseguente scarsità di cibo(solo la produzione di cereali è scesa del 75%), le tensioni tra clan e il degrado dell’ambiente. Si calcola che 4.2 milioni di persone, un terzo della popolazione, avranno bisogno degli aiuti umanitari nel corso del 2019.
REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
La RDC è nota a tutti per essere uno dei territori più ricchi del continente, basti pensare alle miniere di coltan, ma anche uno di quelli con il più basso PIL pro capite e in cui la popolazione civile vive da anni violenze di ogni sorta – pensiamo agli stupri di massa di donne, ragazze e anche bambine, soprattutto nel conflitto che, dal 2016, sta infiammando la Regione del Kasai. Almeno 5.000 persone sono rimaste uccise e oltre 1.4 milioni sono sfollati. Ma in tutto il Paese gli sfollati sarebbero oltre 4 milioni. Anche in questo caso la comunità internazionale ha parlato di genocidio. Altra area calda è il Nord Kivu, dove oltre alle violenze tra il Governo e i gruppi ribelli si deve fare i conti con l’ebola che ha già colpito oltre 200 persone.
In realtà è da circa venti anni che i cittadini della RDC vivono nella violenza e nella paura. Più volte l’ONU ha elaborato report che parlano di omicidi di massa e fosse comuni. 6 milioni di morti senza che in sostanza si sia fatto nulla. Tutto questo si è svolto sotto gli occhi dell’ormai ex presidente Joseph Kabila, rimasto al potere dal 2001 al 2018.
Per anni si era parlato di elezioni, costantemente rinviate a data da destinarsi. Finalmente, il 30 dicembre scorso la popolazione è andata al voto per eleggere il successore di Kabila. L’ex presidente aveva fatto di tutto per restare al potere, incluso un sovvertimento costituzionale e un candidato/ombra. Le cose – almeno secondo i risultati che potrebbero ancora essere messi in discussione dalla Corte Costituzionale – sono però andate diversamente. E per alcuni osservatori ciò potrebbe portare a ulteriori sorprese.


(Immagine tratta dal sito di ACLED (The Armed Conflict Location & Event Data). Si tratta di un centro di ricerca, analisi e raccolta dati su disordini e conflitti nel mondo. L’immagine si riferisce ad eventi di violenza avvenuti in varie parti del continente nei primi 5 giorni dell’anno. https://www.acleddata.com/)

A queste aree di forte crisi ne vanno aggiunte altre. A cominciare dal Togo – dove i negoziati sui cambiamenti costituzionali pianificati con i maggiori partiti dell’opposizione sono ad un punto morto e le proteste di massa contro il regime del presidente Faure Gnassingbe non accennano a diminuire. Gnassingbe è presidente dal 2005, elezioni contestate, tenutesi poco dopo la morte del suo padre, Gnassingbe Eyadema, che  a sua volta è stato al governo del Paese per 38 anni.
Situazione difficile anche in Guinea-Bissau, Zimbabwe e Burundi. Nel primo è in corso una faida politica tra il presidente Jose Mario Vaz e il suo partito, PAIGC, e la decisione di posporre le elezioni sta generando rabbia tra una popolazione perlopiù giovane e senza sbocchi di lavoro. Nello Zimbabwe si sta vivendo una forte recessione – scarsità di benzina, cibo, medicinali – con manifestazioni dei sindacati e dei lavoratori. In Burundi è in corso una crisi politica dal 2015 con il presidente Pierre Nkurunziza accusato di stroncare con ogni mezzo la voce degli oppositori e di crimini contro l’umanità intensificatisi negli ultimi due anni.
Da tenere d’occhio la situazione in Gabon dove, pochi giorni fa, un tentativo di colpo di Stato ha messo in luce una tensione che cova da tempo e che mette ormai in  forse la sopravvivenza del lungo regime, 50 anni, di Ali Bongo. Di fatto, già i risultati delle elezioni di un paio di anni fa sollevarono dubbi e proteste. Il Paese è di fatto senza Governo da molto tempo, sia perché Bongo si trova in Marocco per cure mediche, sia perché dopo le elezioni legislative di ottobre 2018 non si è proseguito agli adempimenti. Il 22 dicembre scorso i leader dell’opposizione hanno richiesto una commissione medica per determinare lo stato di salute del presidente Bongo e il 31 dicembre ha chiesto un periodo di transizione di due anni con il presidente e un Governo transitorio. La Corte costituzionale il 28 dicembre ha confermato i risultati delle elezioni legislative di ottobre; il partito al Governo ha vinto la maggioranza, il nuovo Governo sarà formato nelle prossime settimane.
Infine, genera grande preoccupazione l’escalation delle azioni dei militanti islamici in Egitto, così come di quelli di Boko Haram in Niger e Burkina Faso e in aree dell’Africa orientale per quel che riguarda Al-Shabaab. Mentre rimane sotto osservazione della missione di pace MINUSCA, la Repubblica Centrafricana (CAR), presente nel Paese dal 2014 e nuovamente prorogata.
da qui

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