Se lo Yemen, la Siria, l’Afghanistan
sono i Paesi i cui ormai lunghi anni di guerra stanno contribuendo a devastare
il sempre precario equilibrio geopolitico in Medio Oriente, è l’Africa che
continua ad alimentare il numero di conflitti nel
mondo.
E il 2019 si annuncia come un
periodo alquanto complesso per varie ragioni. Da un lato i numerosi appuntamenti
elettorali – più di venti, tra presidenziali e legislative –
dall’altro le nuove dinamiche economiche
e di rapporti di forza e le
solite ingerenze, che vedono affiancarsi a multinazionali e Governi europei il colosso cinese (con cui i
Paesi dell’Africa Sub-Sahariana hanno un debito di oltre 417 miliardi di
dollari) e gli Stati Uniti che pur
in “crisi di egemonia” rimangono presenti sul territorio, soprattutto con basi
militari e “partnership” (come quella con l’Unione Africana) per il
“rafforzamento della pace, stabilità e sviluppo economico”. Per non parlare
delle numerose “missioni di pace” ONU sparse in aree di crisi.
Sono appunto queste ultime che
segneranno il futuro immediato del continente. Nei termini di stabilità e rafforzamento delle economie,
sempre compromesse dai conflitti. E questi problemi non riguardano certo solo
l’Africa. Perché, seppure certe tensioni e conflitti rimangono circoscritti a
livello interno o regionale, l’instabilità economica e le conseguenze in
termini di annientamento dei diritti e della giustizia sociale non possono non
ripercuotersi altrove, pensiamo ad esempio ai rifugiati e
di chi cerca condizioni di vita migliori e più sicure.
Ma vediamo quali sono i Paesi in
maggiori condizioni di instabilità.
LIBIA
Il Paese rimane fortemente diviso. Otto anni di disordini cominciati con l’uccisione del
dittatore Muammar Gheddafi lo hanno destabilizzato, facendolo di fatto cadere nel caos. La speranza è riposta nelle elezioni di cui
da tempo si parla. Sfumata la data del 2018, non si sa ancora bene quando si
svolgeranno. I principali leader rivali – Fayez al Serraj, il cui governo
internazionalmente riconosciuto ha sede nell’Ovest, e il maresciallo Khalifa
Haftar nell’Est del Paese – avevano accettato di cessare le ostilità e di
indire elezioni. Vedremo cosa accadrà. Ma intanto resta la paura, non solo
quella legata alla frammentazione ma che questo stato di cose potrebbe agevolare
la diffusione dello Stato Islamico. Ad una situazione già difficile si aggiunge
il fatto che la Russia ha ampliato la sua presenza in Libia e sta facendo
pressioni per il ritorno di Saif al-Islam Gheddafi, il figlio del defunto
dittatore, come possibile prossimo sovrano.
Le tensioni sono
aumentate nella
capitale Tripoli dopo l’attacco del 25 dicembre al ministero degli Esteri,
rivendicato dall’ISIS. Continuano, intanto, le lotte tra le varie milizie e le
dispute tra i politici dei Paesi che a vario titolo stanno intervenendo come
“mediatori”. La legge sui referendum e due emendamenti costituzionali, che
dovrebbe aprire la strada al referendum sulla bozza di Costituzione e al nuovo
Consiglio della presidenza, non è piaciuta all’Alto Consiglio di Stato di
Tripoli e ha suscitato critiche riguardanti presunte carenze sostanziali e
procedurali. Neanche l’ultimo incontro tra le parti rivali ad Est di Bengasi,
il 29 dicembre, ha portato a grandi risultati.
Intanto proliferano i centri di detenzione per migranti che
vorrebbero arrivare in Europa, in realtà veri e propri lager, da dove giungono storie di disumana
violenza.
MALI
Iniziata nel Nord del Paese nel 2012,
l’insurrezione islamica si è ripercossa in tutta l’Africa occidentale e non
mostra segni di diminuzione. Lo spiegamento di oltre 15.000 soldati delle forze
di pace delle Nazioni Unite e di 4.000 soldati francesi non è riuscito a
impedire che gli attacchi dei militanti si diffondessero – ad esempio – nel
vicino Burkina Faso,
anch’esso interessato dalla violenza di gruppi estremisti.
La missione MINUSMA in Mali è quella che conta il maggior numero
di morti tra le forze internazionali, almeno 177 peacekeepers hanno perso la
vita finora. La situazione di instabilità ha generato oltre 140.000 rifugiati e oltre 55.000
sfollati. La situazione è praticamente di caos con frequenti attentati e la
popolazione che si trova braccata dalle violenze jihadiste da un lato e le aggressive rivalità
tra le varie etnie dall’altro. L’ultimo episodio risale a pochi giorni fa
quando decide di uomini di etnia Fulani sono stati uccisi in un’area del centro
del Paese dove, secondo le Nazioni Unite, la violenza etnica è costata la vita
lo scorso anno a 500 civili. Lo scontro riguarda i pastori nomadi Fulani e gli
agricoltori Bambara e Dogon. Una disputa che riguarda l’accesso alla terra da pascolo e alle fonti d’acqua.
Una situazione drammatica in un
Paese povero e segnato, come dicevamo, dalla violenza dell’estremismo islamico.
A tutto questo si aggiungono le violazioni dei diritti da parte dello stesso
Governo e la critica situazione economica. Le forze di sicurezza nel mese di
dicembre hanno represso le proteste dell’opposizione a Bamako, persone che
cercavano di denunciare il malgoverno e l’estensione del mandato dei
parlamentari fino al giugno 2019, dovuto ad un nuovo posticipo delle elezioni
legislative. Più di 50 organizzazioni all’inizio di dicembre hanno denunciato
la proposta di legge del Governo, National Understanding che – dicono –
garantirebbe l’impunità sui crimini commessi durante gli eventi del 2012. E
rimane ancora senza seguito l’accordo di pace firmato nel 2015, mentre lo
scorso agosto è stato rieletto presidente Ibrahim Boubacar Keita,
alla guida del Paese.
CIAD
Il Ciad ha schierato truppe e aerei
militari vicino al confine settentrionale con la Libia in seguito a un attacco
mortale dello scorso anno sulle postazioni dell’esercito, rivendicato dai
ribelli del Consiglio militare del comando per la salvezza della Repubblica
(CCSMR). Si ritiene che questo gruppo armato sia supportato dai combattenti
libici. Settimane di scioperi dei lavoratori pubblici hanno peggiorato la già
precaria situazione economica del Paese. Il presidente Déby il 5 dicembre
ha ritirato il taglio dei salari dei soldati e ha firmato due accordi di
finanziamento con la Francia, tra cui 40 milioni di euro per gli stipendi dei
dipendenti pubblici e i pagamenti delle pensioni. Serviranno fino alla prossima
crisi di liquidità. A tutto questo si aggiunge la presenza di Boko Haram e una
grave crisi ambientale che riguarda il lago Ciad che bagna 4 Stati
africani (Camerun, Ciad, Niger e Nigeria). Dal 1960 ad oggi la superficie
del lago si è ridotta del 90%.
SUDAN e DARFUR
Il Sudan è entrato nel nuovo anno con
proteste senza precedenti in quasi tutto il Paese riguardanti soprattutto
l’aumento del costo della vita. Le proteste sono state represse brutalmente
dalle forze di polizia Una situazione che sta mettendo a dura prova il
presidente Omar al-Bashir –
di cui i manifestanti chiedevano a gran voce le dimissioni – salito al potere
con un colpo di Stato appoggiato dall’Islam nel 1989. Al-Bashir, che ha sedato
diverse ribellioni interne è stato incriminato dalla Corte penale
internazionale per presunti crimini
di guerra e genocidio della popolazione del Darfur.
La situazione più critica è,
appunto, quella di quest’area occidentale del Paese, con un conflitto in corso dal 2003.
Situazione molto complessa dove si uniscono fattori religiosi, economici,
territoriali. La battaglia continua senza soluzione di continuità: da un lato i
gruppi ribelli: Sudan Liberation Movement (SLM)
e Justice and Equality Movement (JEM),
dall’altro il Governo di Khartoum accusato di oppressione e crimini
contro la popolazione non araba e di spalleggiare e sostenere le feroci milizie dei Janjaweed.
Negli anni tale oppressione ha assunto l’aspetto di un genocidio e ha
generato una delle più gravi crisi umanitarie del pianeta – almeno
1.6 milioni di persone vivono in campi profughi – a cui si aggiunge un altro
conflitto dimenticato, quello nel Kordofan
meridionale.
SUD SUDAN
Dal 2013, inizio della guerra civile, nella più giovane nazione africana nata dalla
separazione dal Sudan nel 2011, quasi 390.000 persone – secondo ultime stime –
sarebbero morte nel conflitto. Quattro milioni sarebbero gli sfollati e quelli
che si sono rifugiati in Paesi vicini. Il Sud Sudan è il terzo Paese nel
continente sub-sahariano per riserve di petrolio, ma questa sembra essere una
iattura per i suoi abitanti. Dopo cinque anni di guerra il presidente Salva Kiir ha accettato di
sedersi al tavolo negoziale con il leader dell’opposizione – ed ex vice
presidente – Riek Machar.
Intanto, negli anni si sono moltiplicati i casi di abusi sessuali e attacchi ingiustificati contro i civili.
E anche in questo caso la comunità internazionale e l’ONU hanno ripetutamente
parlato di crimini di guerra.
NIGERIA
I nigeriani andranno alle urne nel febbraio 2019 per le legislative
federali e per eleggere un nuovo presidente. In programma anche le elezioni
legislative. Le elezioni
nigeriane sono state spesso caratterizzate dalla violenza – nel
2015 morirono più di 100 persone in vari scontri prima e dopo le consultazioni
– e niente fa prevedere che questa volta saranno pacifiche. Muhammadu Buhari, presidente
uscente si è ricandidato e il suo principale rivale è l’ex vicepresidente Atiku Abubakar. I rapporti tra i
due sono particolarmente astiosi.
Tante le tensioni in questa che è la
nazione più popolosa dell’Africa, i livelli di criminalità violenta e di insicurezza
generale restano elevati e in particolare nel Nord-Est i civili sono tra due
fuochi: le truppe governative e Boko Haram,
che guadagna terreno e i cui attacchi in questo Paese sono particolarmente
violenti e determinati. Altra questione è la violenza tra i pastori,
prevalentemente musulmani e gli agricoltori, per lo più cristiani che ha già
provocato migliaia di morti e messo in ginocchio l’economia tradizionale. La
nazione più popolosa dell’Africa e sesto produttore di petrolio dell’OPEC, fa
anche i conti con la crisi mai sopita nel Delta del Niger dove gruppi militanti hanno
minacciato di riprendere gli attacchi.
CAMERUN
Nel Paese è di fatto in corso
una guerra civile iniziata con
le prime tensioni separatiste della popolazione anglofona (ovest
del Paese), nel 2016 quando insegnanti e avvocati anglofoni scesero in piazza
per protestare contro l’uso massiccio del francese nei sistemi di istruzione e
legale. Rivendicazioni che si sono trasformate in proteste più ampie sull’emarginazione della minoranza anglofona del
Camerun, che rappresenta circa un quinto della popolazione del Paese. Da allora
è stato creato un Governo ad interim delle regioni anglofone e fondato lo Stato
di Ambazonia.
Il Governo di Paul Biya, 85 anni e al potere da
36, non ha reagito bene e da allora le forze governative si oppongono
brutalmente ai separatisti. Secondo l’ONU si contano già 30.000 rifugiati anglofoni
nella vicina Nigeria e 437.000 sfollati interni. Non si conosce con esattezza
il numero di morti in un conflitto che non vede molti testimoni al di là
della popolazione locale. Nelle ultime elezioni Biya fece bloccare Internet
nelle regioni anglofone. Un programma di disarmo recentemente
annunciato non ha ancora prodotto risultati ma non si prevede nulla di buono
dalla minaccia del presidente di fare piazza pulita di coloro che si rifiutano
di deporre le armi entro quest’anno.
A peggiorare una situazione davvero
critica c’è la presenza di Boko
Haram che opera indisturbato, soprattutto nell’estremo Nord del
Paese, nonostante le dichiarazioni di Biya che davanti alle
telecamere aveva recentemente affermato che il gruppo terroristico era stato
sconfitto. Gravi invece le accuse di Amnesty International, che nel suo
Rapporto “Stanze segrete di tortura in Camerun: violazioni dei diritti
umani e crimini di guerra nella lotta contro Boko Haram” ha rivelato che “le autorità del Camerun hanno fatto
ampiamente ricorso alla tortura
contro i civili accusati di
sostenere Boko Haram, spesso arrestati senza alcuna prova”.
SOMALIA
Una guerra civile senza
soluzione di continuità è in corso in Somalia da due decenni, ma
già a partire dagli anni Novanta ci sono stati conflitti e scontri che hanno
ucciso – si stima – tra 350.000 e un milione di persone. Un’area di forte
instabilità che si ripercuote in tutto il Corno d’Africa e in Paesi limitrofi
anche a causa degli attacchi dei militanti
di al-Qaeda, in particolare della fazione nota come al-Shabaab. Questi rimangono la
principale fonte di insicurezza in Somalia, nonostante le continue operazioni
per ridurne la forza, compresi i raid aerei statunitensi, intensificati sotto
l’amministrazione del presidente Donald Trump.
Dal 2007 nel Paese è in atto la missione
autorizzata dall’ONU, African Union Mission in Somalia (AMISOM), prorogata di anno in anno. Una delle più
lunghe nella storia delle missioni di pace, quasi 12 anni. L’ultima estensione
del mandato è stata a luglio 2018, il contingente resterà fino al 31 maggio
2019. Impegna 25.500 soldati e 500 poliziotti.
Secondo gli ultimi bollettini
dell’OCHA, l’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli aiuti
umanitari, alla situazione disperata già generata dal conflitto vanno aggiunte
la siccità e la conseguente scarsità di cibo(solo
la produzione di cereali è scesa del 75%), le tensioni tra clan e il degrado
dell’ambiente. Si calcola che 4.2 milioni di persone, un terzo della
popolazione, avranno bisogno degli aiuti umanitari nel corso del 2019.
REPUBBLICA
DEMOCRATICA DEL CONGO
La RDC è nota a tutti per essere uno
dei territori più ricchi del continente, basti pensare alle miniere di coltan, ma anche uno
di quelli con il più basso PIL pro capite e in cui la popolazione civile vive
da anni violenze di ogni sorta – pensiamo agli stupri di massa di donne, ragazze e anche bambine,
soprattutto nel conflitto che, dal 2016, sta infiammando la Regione del Kasai.
Almeno 5.000 persone sono rimaste uccise e oltre 1.4 milioni sono sfollati. Ma
in tutto il Paese gli sfollati sarebbero oltre 4 milioni. Anche in questo caso
la comunità internazionale ha parlato di genocidio. Altra area calda è il Nord Kivu, dove oltre alle violenze tra il Governo e i
gruppi ribelli si deve fare i conti con l’ebola che ha già colpito oltre 200
persone.
In realtà è da circa venti anni che
i cittadini della RDC vivono
nella violenza e nella paura. Più volte l’ONU ha elaborato report che
parlano di omicidi di massa e fosse comuni. 6 milioni di morti senza che in sostanza si
sia fatto nulla. Tutto questo si è svolto sotto gli occhi dell’ormai ex
presidente Joseph Kabila, rimasto al potere
dal 2001 al 2018.
Per anni si era parlato di elezioni,
costantemente rinviate a data da destinarsi. Finalmente, il 30 dicembre scorso
la popolazione è andata al voto per eleggere il successore di Kabila. L’ex
presidente aveva fatto di tutto per restare al potere, incluso un sovvertimento costituzionale e un candidato/ombra.
Le cose – almeno secondo i risultati che potrebbero ancora essere messi in
discussione dalla Corte Costituzionale – sono però andate diversamente. E per
alcuni osservatori ciò potrebbe portare a ulteriori sorprese.
(Immagine tratta dal sito di ACLED (The Armed Conflict Location & Event Data). Si
tratta di un centro di ricerca, analisi e raccolta dati su disordini e
conflitti nel mondo. L’immagine si riferisce ad eventi di violenza avvenuti in
varie parti del continente nei primi 5 giorni dell’anno.
https://www.acleddata.com/)
A queste aree di forte crisi ne
vanno aggiunte altre. A cominciare dal Togo –
dove i negoziati sui cambiamenti costituzionali pianificati con i
maggiori partiti dell’opposizione sono ad un punto morto e le proteste di massa
contro il regime del presidente Faure
Gnassingbe non accennano a diminuire. Gnassingbe è presidente dal
2005, elezioni contestate, tenutesi poco dopo la morte del suo padre,
Gnassingbe Eyadema, che a sua volta è stato al governo del Paese per 38
anni.
Situazione difficile anche in Guinea-Bissau, Zimbabwe e Burundi. Nel
primo è in corso una faida politica tra il presidente Jose Mario Vaz e il suo
partito, PAIGC, e la decisione di posporre le elezioni sta generando rabbia tra
una popolazione perlopiù giovane e senza sbocchi di lavoro. Nello Zimbabwe si sta vivendo una forte
recessione – scarsità di benzina, cibo, medicinali – con manifestazioni dei
sindacati e dei lavoratori. In Burundi è
in corso una crisi politica dal 2015 con il presidente Pierre Nkurunziza
accusato di stroncare con ogni mezzo la voce degli oppositori e di crimini
contro l’umanità intensificatisi negli ultimi due anni.
Da tenere d’occhio la situazione in Gabon dove, pochi giorni fa,
un tentativo di colpo di Stato ha messo in luce una tensione
che cova da tempo e che mette ormai in forse la sopravvivenza del lungo
regime, 50 anni, di Ali Bongo.
Di fatto, già i risultati delle elezioni di un paio di anni fa sollevarono
dubbi e proteste. Il Paese è di fatto senza Governo da
molto tempo, sia perché Bongo si trova in Marocco per cure mediche, sia perché
dopo le elezioni legislative di ottobre 2018 non si è proseguito agli
adempimenti. Il 22 dicembre scorso i leader dell’opposizione hanno richiesto
una commissione medica per determinare lo stato di salute del presidente Bongo
e il 31 dicembre ha chiesto un periodo di transizione di due anni con il
presidente e un Governo transitorio. La Corte costituzionale il 28 dicembre ha
confermato i risultati delle elezioni legislative di ottobre; il partito al
Governo ha vinto la maggioranza, il nuovo Governo sarà formato nelle prossime
settimane.
Infine, genera grande preoccupazione
l’escalation delle azioni dei militanti islamici in Egitto, così come di quelli di
Boko Haram in Niger e Burkina Faso e in aree
dell’Africa orientale per quel che riguarda Al-Shabaab. Mentre rimane sotto
osservazione della missione di pace MINUSCA, la Repubblica
Centrafricana (CAR), presente nel Paese dal 2014 e nuovamente
prorogata.
da qui
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