«Le relazioni euro-africane degli ultimi cinque secoli – diceva , lo scrittore nigeriano Nobel per la letteratura 1986 – sono la storia di un monologo. Quello europeo».
Nel rapporto
tra il vecchio continente e quello nero c’è qualcosa di profondamente malato
che fatica a rimarginarsi. Lo schiavismo e il colonialismo hanno
lasciato segni indelebili e, a differenza di fenomeni devastanti come il
nazismo, non sono mai passati attraverso un vero e proprio processo di
espiazione e riparazione, non hanno mai avuto, per così dire, la loro
Norimberga. L’uscita delle potenze europee dall’Africa, cominciata a ridosso
degli anni Sessanta dello scorso secolo e conclusasi nel 1990 quando, al
termine di una lunga lotta, raggiunse l’indipendenza la Namibia, (ex Africa del
Sud-Ovest, colonia tedesca), non è coincisa con una chiusura definitiva del
colonialismo, né in senso politico né mentale. Il sentimento di superiorità
europea verso popoli considerati sottosviluppati di natura – e non perché
soggiogati per secoli – ha continuato a circolare in Occidente come un virus e
a permeare il pensiero sull’Africa e, di conseguenza, i rapporti. Il concetto
colonialista è ancora molto presente nell’approccio degli europei e gli
occidentali in genere verso l’Africa. Le clamorose gaffe dei leader politici
sono forse l’emersione più chiara e pericolosamente naïf: George W. Bush che,
nel 2001 a Göteborg, definisce l’Africa «una nazione che soffre di una malattia
incredibile»; Silvio Berlusconi che, premier nel 2009, dichiara tranquillamente
che «Roma è sporca come l’Africa»; Emmanuel Macron che, nel 2017, durante un
incontro con gli studenti a Ouagadougou, capitale dell’ex colonia Burkina Faso,
li esorta a «non trattarlo come se fosse il presidente del Burkina Faso» e
si rivolge all’omologo locale Cristian Kaborè, alzatosi indignato,
apostrofandolo con un «Ma dai resta qui… Niente, deve essere andato a riparare
l’aria condizionata»; fino ad arrivare al premier spagnolo Pedro Sanchez che in
viaggio in Kenya lo scorso ottobre stringe la mano al presidente e dice: «Un
onore essere in Senegal». L’elenco sarebbe veramente lungo. Basta però
riportare questi pochi esempi non per citare figuracce quasi umoristiche,
quanto per stigmatizzare un tipo di pensiero sotteso nella mentalità generale
da cui è difficile affrancarsi e che, inesorabilmente, di tanto in tanto emerge
platealmente.
Le cose,
però stanno cambiando. E lo si è cominciato a percepire chiaramente nel
summit UE - UA celebratosi il 17 e il 18 febbraio 2022. Il tempo
delle «briciole dalla tavola» ‒ ha detto proprio così il presidente del
Sudafrica Cyril Ramaphosa nel corso dell’incontro ‒ è destinato a tramontare
per fare posto a una collaborazione inter pares capace di
proporre soluzioni globali a questioni globali. In questo solco di progressiva
decolonizzazione del rapporto si è inserita ultimamente anche la
nostra cooperazione. L’innesco di un processo nuovo di solidarietà con Paesi
terzi al fine di continuare a sostenerli nell’affrontare criticità punta ad
affrancarsi definitivamente da un rapporto stile sviluppato/sottosviluppato
facilmente riassumibile nello slogan “aiutiamoli a casa loro” tanto in
voga da noi e in Occidente in genere. Come se si potesse fingere di ignorare che
quella ‘casa loro’ è diventata nostra a suon di stragi, riduzione in schiavitù,
violenze e abusi di ogni genere per 150 anni fino a soli 60 anni fa. L’AICS
(Agenzia Italiana Cooperazione e Sviluppo) si è fatta interrogare dalla storia
della presenza europea in Africa e, alla ricerca di nuovi approcci efficienti e
rispettosi, ha avviato un percorso che fin dal titolo promette di essere
interessante. «La decolonizzazione dell’aiuto ‒ spiega Emilio Ciarlo
responsabile del dipartimento External relations dell’Agenzia ‒ è diventata per
l’Aics molto più di uno slogan. Siamo partiti con una riflessione sulla
cooperazione più come investimento nello sviluppo che come “aiuto”, più come
reale partnership tra pari con le comunità e le persone che come relazione con beneficiari
di nostri fondi. Per questo ci siamo definiti creatori di sviluppo e
non pianificatori. Tutto questo ci porta ad avviare un percorso sulla
“decolonizzazione dell’aiuto”, una presa di coscienza piena della dignità,
dell’autonomia e della ricchezza degli altri che deve fugare i
tentativi di “aiutare per rendere simili a noi”, un’inconsapevole volontà di
inculcare modelli e valori rendendo gli altri popoli dipendenti dai nostri
soldi. Assicurare la ownership del percorso di sviluppo ai
governi e alle comunità locali, rafforzare la società civile e il ruolo delle
ong locali, garantire posti di rilievo a non occidentali nelle nostre
organizzazioni. Questi sono i passi per “decolonizzare” l’aiuto
e progettare la cooperazione come un processo con non per».
Il
ragionamento si inserisce in un più ampio ripensamento dei rapporti tra Europa
e Africa che vada al di là del modello donor recipient, frutto da
una parte di una nuova visione emergente in sede UE, dall’altra di una piena
consapevolezza dei leader africani che ha ormai fatto emergere il concetto che
il rapporto o è alla pari o non è. A questo si va ad aggiungere una nuova
coscienza che si sta facendo sempre più strada anche grazie alla crisi
energetica innescata dalla guerra in Ucraina: è l’Europa ad aver bisogno dell’Africa
e non solo viceversa. «Ci siamo affrancati da una logica preistorica che
considerava l’importanza dell’intervento a seconda dell’importo dell’assegno
staccato – dice sicuro Giovanni Grandi, direttore di AICS Nairobi, la sede
dell’Agenzia che comprende Kenya, Uganda, Tanzania, Burundi, Repubblica
Democratica del Congo e Rwanda – per passare a un approccio di partnership che
guarda non a quanto sto facendo ma a cosa sto facendo assieme al mio partner.
In questo senso abbiamo abbandonato un criterio paternalistico e scelto una
co-definzione degli obiettivi: in sintesi a noi non interessa più
intervenire per soccorrere, noi qui stiamo investendo, non donando. Uno
degli esempi più lampanti di quanto vado dicendo è il progetto di incubatore e
acceleratore che abbiamo finanziato in Kenya a partire dal 2018 in
collaborazione con la Cattolica di Milano e E4Impact. Siamo partiti dalla
considerazione che questo è un Paese estremamente dinamico, con un Pil
superiore al 5% previsto nei prossimi due anni nonostante la crisi globale e
con un tessuto imprenditoriale che viene dal basso, estremamente vivace.
L’incubatore è divenuto in breve un punto di riferimento per centinaia di
piccole e medie imprese e ha fornito strumenti di formazione gestionale e
manageriale per entrare nei mercati nazionale e internazionale. L’obiettivo è
ora creare collegamenti con il tessuto imprenditoriale italiano e approdare a
un risultato win-win per Kenya e Italia».
Africa: la
finanza vuole i poveri solo come clienti
Non si è ancora spenta l’eco della Africa Inclusive
Finance Week 2025, chiusa il 17 ottobre a Lomé, e già la retorica dell’“inclusione
finanziaria” mostra le sue crepe. Per una settimana, la Banca Africana di
Sviluppo e una lunga fila di fondazioni, governi e piattaforme fintech hanno
parlato di innovazione e di “nuovi strumenti per colmare il divario di accesso
al credito in Africa”. Hanno mostrato slide impeccabili, proiettato numeri
sull’alfabetizzazione digitale, celebrato l’avvento della “finanza per tutti”.
Il problema è che questa finanza non nasce per tutti,
ma per gli stessi di sempre. La parola “inclusione” funziona bene nei
comunicati, ma sul terreno significa un’altra cosa: portare milioni di persone
dentro il sistema, purché rispettino le regole del sistema.
Cioè: puoi avere un microcredito se hai un telefono,
un conto digitale, un indirizzo, una reputazione tracciabile e qualche garanzia
di rimborso. In altre parole, devi essere già quasi bancabile per poter essere
incluso. Gli altri restano fuori, come sempre, solo un po’ più profilati di
prima.
Nessuno alla conferenza ha ricordato che la maggior
parte delle economie africane si regge sul contante, sulle reti informali,
sulle rimesse e sulle donne che tengono in piedi microeconomie comunitarie
senza una sola app di pagamento.
“Includerle” significa spesso spingerle verso piattaforme dove i tassi e le commissioni sono decisi altrove — e dove ogni transazione genera dati che hanno un valore commerciale, ma non sociale.
Così l’inclusione diventa una nuova forma di
estrazione: non più oro, rame o cacao, ma profili digitali e flussi di
pagamento. Dietro la retorica dell’accesso si nasconde un mercato gigantesco —
quello dei nuovi clienti poveri. È il capitalismo dell’algoritmo applicato alla
povertà: ti faccio entrare nel circuito, ma alle mie condizioni e con il mio
prezzo.
E allora la domanda vera non è se la finanza possa
includere i poveri, ma se la povertà possa sopravvivere alla finanza. Perché
una volta dentro, non è detto che ne esci più libero: puoi ritrovarti
semplicemente più sorvegliato, più indebitato e con meno alternative. L’Africa
ha bisogno di credito, non di colonizzazione digitale; di regole sui tassi, non
di app patinate; di cooperazione, non di marketing solidale.
Ecco perché ne parliamo solo ora, a distanza di
giorni. Perché il silenzio dopo le conferenze dice più della conferenza stessa.
Quando le luci si spengono e i delegati tornano a casa, resta l’eco di una
parola — “inclusione” — che continua a suonare bene, ma a fare male.
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