Poste Italiane si è trasformata in un laboratorio di veleno sociale, un ambiente saturo di meschinità dove la competizione sfocia nel cinismo più brutale. È un luogo dove l'opportunismo ha un prezzo altissimo: c'è chi sarebbe pronto a sacrificare qualsiasi cosa per un avanzamento di carriera, un trasferimento o un mero favore personale. Queste dinamiche, in particolare, trovano la loro massima espressione distruttiva nel settore del recapito.
Quest'azienda è diventata, di fatto, un monumento
alla codardia umana, un tratto che non conosce distinzione di età.
Chiunque abbia familiarità con questo ambiente o vi lavori lo constata
quotidianamente: l'uso sistematico dell'anonimato persino nelle banali
richieste di informazioni ne è la prova lampante.
Ma gli araldi della negatività sono coloro che, pur
lamentandosi della situazione, trovano sempre in qualcun altro il capro
espiatorio per i propri fallimenti. Mosche cocchiere,
desiderose di vedere gli altri fallire per non sentirsi soli nella propria
insoddisfazione, trasformano ogni occasione in un pretesto per vomitare veleni
e maldicenze, perfino contro chi si adopera per il bene comune.
I principali artefici di questa metastasi aziendale sono
i lavoratori a tempo indeterminato di lungo corso. Con la
stabilizzazione contrattuale, è come se avessero soffocato ogni senso di
umanità, dimenticando cosa significhi lavorare da precari. La maggior parte di
loro sembra aver rimosso la vera causa della propria stabilizzazione: non il
merito o la competenza, ma l'onda lunga dei ricorsi legali dei primi anni
Duemila.
Ne è scaturita una classe lavorativa che non
conosce il valore della conquista, né del posto fisso né dei diritti,
avendoli ottenuti con una facilità sostanziale. Questa mancanza di
consapevolezza del sacrificio spiega in gran parte perché gli scioperi in Poste
Italiane registrano una desolante e bassissima adesione, nonostante le
condizioni lavorative, specialmente nel settore del recapito, siano spesso
scioccanti e inaccettabili. La stabilità ottenuta senza sacrifici ha anestetizzato
la capacità di lottare per i diritti. Tali dipendenti, che per
esperienza e sicurezza dovrebbero essere la guida, sono invece un dannoso
esempio.
Vedono nei migliaia di giovani precari la preda perfetta:
una dinamica perversa dove i "penultimi" sfruttano cinicamente gli
"ultimi" per perpetuare una cultura dell'ignavia e della
sottomissione. Tale prassi torna drammaticamente comoda: il precario,
accettando condizioni al ribasso che non conoscono limiti, si spacca la schiena
lavorando addirittura fino a dodici ore al giorno, relegato nelle zone più
difficili e al lavoro più sporco, con la sola e incerta speranza di un futuro.
È in questo pantano di meschinità che chi possiede valori
etici è destinato a soccombere. L'onestà è una netta minoranza che non ha più
la forza di curare un organismo ormai in decomposizione;
ogni tentativo di risanamento è vano. Il sindacato stesso, inevitabilmente, si
trova ad essere lo specchio di questo squilibrio: non è un caso
che la tessera predominante abbia un colore solo. Quando una fetta
così grande dei lavoratori manifesta i valori appena descritti, il riflesso si
estende e contamina anche la dinamica della rappresentanza.
Se il recapito è morto, non è stata una fatalità. È stato
assassinato, lentamente e senza rimorsi, dalla complicità e dal tradimento
degli stessi uomini e donne che, per dovere e per contratto, avrebbero dovuto
difenderlo.
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