Un crimine che non nasce da solo
Il genocidio
in corso nella Striscia di Gaza non è un evento improvviso né isolato. È il
risultato di un processo lungo, costruito su decenni di occupazione militare,
impunità politica e complicità internazionale. Come documenta con precisione il
rapporto presentato alle Nazioni Unite dalla relatrice speciale Francesca
Albanese, si tratta di un crimine collettivo, in cui Stati terzi hanno avuto un
ruolo determinante nel fornire supporto diplomatico, militare, economico e
persino “umanitario”, consentendo a Israele di trasformare l’occupazione in una
macchina di distruzione sistematica.
Dietro le
macerie di Gaza non ci sono solo bombe e soldati. Ci sono governi che
forniscono armi, porti che accolgono navi cariche di materiale bellico, banche
che finanziano industrie, imprese che forniscono tecnologia dual-use,
diplomazie che esercitano veti e silenzi che valgono come complicità. Il
genocidio, come sottolinea il rapporto, non è mai opera di un solo attore.
Il quadro
giuridico: obblighi chiari, responsabilità ignorate
Il diritto
internazionale impone agli Stati non solo di non partecipare a crimini come
genocidio, apartheid o aggressione, ma di prevenirli e punirli. La Corte internazionale
di giustizia aveva già nel 2004 dichiarato illegale l’occupazione israeliana e
ribadito gli obblighi di tutti gli Stati di agire. Questi obblighi non sono
facoltativi: gli Stati hanno il dovere giuridico di non riconoscere situazioni
illegali, di non prestare aiuto o assistenza e di intervenire per far cessare
le violazioni.
Ma le misure
previste — embarghi sulle armi, sospensioni di accordi commerciali, pressione
diplomatica e cooperazione con i tribunali internazionali — non sono state
adottate. Anzi, in molti casi è accaduto l’opposto: si è consolidato un sistema
di relazioni che ha reso possibile, sul piano materiale e politico, la campagna
di distruzione di Gaza.
La
diplomazia come rete di protezione
Il primo
pilastro della complicità è quello diplomatico. Dopo il 7 ottobre 2023, il
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è diventato teatro di una paralisi
sistematica. Gli Stati Uniti hanno posto il veto sette volte su risoluzioni per
un cessate il fuoco permanente. Altri Paesi occidentali si sono limitati a
sostenere tregue temporanee o corridoi umanitari, lasciando proseguire la
macchina di guerra.
Il discorso
pubblico si è allineato alla narrativa israeliana, dipingendo i palestinesi
come “terroristi”, “scudi umani” o “obiettivi collaterali” e cancellando il
loro status di popolazione occupata protetta dal diritto internazionale
umanitario. Questa manipolazione linguistica è stata essenziale per
giustificare l’inerzia diplomatica e normalizzare l’idea che la guerra a Gaza
fosse una risposta legittima a un’aggressione, piuttosto che la prosecuzione di
un’occupazione coloniale.
Stati arabi
e musulmani hanno mantenuto un profilo ambiguo. Alcuni hanno denunciato
pubblicamente la violenza, ma allo stesso tempo hanno preservato relazioni
economiche e strategiche con Israele, in particolare dopo la normalizzazione
sancita dagli Accordi di Abramo. Altri hanno tentato mediazioni parziali senza
mai incidere realmente sull’equilibrio militare e politico.
Mentre pochi
Stati — come Belize, Bolivia, Colombia e Nicaragua — hanno sospeso relazioni
diplomatiche con Israele, la maggior parte ha continuato a mantenere contatti
ufficiali, rafforzando la percezione che non ci sarebbero state conseguenze
reali per il genocidio.
Le armi: il
carburante della macchina di guerra
Il secondo
pilastro è quello militare. La campagna israeliana a Gaza è stata sostenuta e
resa possibile da un flusso costante e massiccio di armi provenienti in gran
parte da Paesi occidentali. Gli Stati Uniti da soli coprono circa due terzi delle
importazioni militari israeliane. Solo tra il 2023 e il 2025 hanno approvato
742 spedizioni di armi e munizioni, oltre a fornire accesso diretto ai depositi
militari statunitensi presenti in Israele.
Bombe,
artiglieria pesante, munizioni di precisione, caccia e componenti per sistemi
avanzati di sorveglianza e targeting sono stati consegnati mentre la fame e la
carestia colpivano la popolazione civile. La Germania è il secondo esportatore
di armi verso Israele, con licenze di esportazione per centinaia di milioni di
euro, mentre l’Italia, il Regno Unito, la Francia e altri Paesi hanno
contribuito direttamente o indirettamente a questa catena.
Questa rete
non riguarda solo armi finite, ma anche componenti e tecnologie. Il programma
dell’F-35 coinvolge 19 Paesi, molti dei quali forniscono parti e sistemi
integrati impiegati direttamente nei bombardamenti su Gaza. Il flusso di armi
non si è interrotto nemmeno quando erano già note le violazioni del diritto
internazionale umanitario.
I porti e le
basi come arterie logistiche
Dietro ogni
consegna militare c’è un’infrastruttura globale che rende possibile la guerra.
Porti in Europa e nel Mediterraneo — in Turchia, Francia, Italia, Paesi Bassi,
Grecia, Marocco e Belgio — sono stati usati per far transitare componenti e
armamenti. Aeroporti in Irlanda, Belgio e Stati Uniti hanno garantito l’arrivo
dei rifornimenti. Alcuni scali hanno addirittura deviato spedizioni per
aggirare proteste sindacali o controlli politici.
La
cooperazione militare non si è limitata al commercio di armi: Israele ha
partecipato a esercitazioni multinazionali, ha ricevuto intelligence in tempo
reale e ha integrato la propria macchina bellica con sistemi occidentali, in
particolare statunitensi e britannici.
Gli aiuti
umanitari trasformati in arma
Il terzo
pilastro è quello “umanitario”. Gaza era già prima della guerra un territorio
assediato e dipendente dagli aiuti: l’80% della popolazione viveva grazie ai
programmi di assistenza, soprattutto dell’UNRWA. Con la guerra, il blocco si è
trasformato in assedio totale. I camion umanitari sono stati ridotti a meno di
un terzo dei livelli precedenti. Ospedali, scuole e centri di distribuzione
sono stati bombardati, più di 370 operatori dell’UNRWA sono stati uccisi.
Parallelamente,
Israele e Stati Uniti hanno tentato di creare strutture umanitarie alternative,
controllate militarmente, come la Gaza Humanitarian Foundation. Gli aiuti sono
stati usati per spostare forzatamente civili, mentre le principali potenze occidentali
paracadutavano cibo e medicinali in modo spettacolare ma inefficace, spostando
l’attenzione dalla responsabilità politica alla gestione tecnica della crisi.
Economia e
profitti: l’altra faccia della guerra
Il quarto
pilastro è quello economico. Israele è un’economia fortemente integrata nei
mercati globali: il commercio estero vale oltre la metà del PIL. L’Unione
Europea è il principale partner commerciale, seguita da Stati Uniti, Asia e
alcuni Paesi arabi. Le esportazioni di armi e tecnologia dual-use — in
particolare circuiti integrati e sistemi di sorveglianza — sono cresciute
durante la guerra.
Mentre Gaza
veniva rasa al suolo, i flussi commerciali non si sono ridotti: anzi, in alcuni
casi sono aumentati. Paesi europei e arabi hanno incrementato gli scambi con
Israele, garantendo risorse e stabilità all’economia di guerra. I gasdotti nel
Mediterraneo orientale hanno continuato a funzionare e, nell’agosto 2025,
l’Egitto ha firmato un accordo energetico da 35 miliardi di dollari con
Israele, proprio mentre la fame devastava la popolazione di Gaza.
Le
tecnologie militari israeliane testate sui palestinesi sono diventate un
prodotto da esportare: sistemi di sorveglianza, droni, software di controllo.
La guerra non è solo sostenuta dall’economia: è essa stessa un motore
economico.
La crisi
della legalità internazionale
Questa
catena di complicità diplomatica, militare, economica e logistica non è solo
una questione morale: mina le fondamenta stesse dell’ordine internazionale
costruito dopo la Seconda guerra mondiale. Il genocidio di Gaza mostra quanto
siano fragili gli strumenti di tutela collettiva. Le decisioni della Corte
internazionale di giustizia, i richiami delle Nazioni Unite, le norme del
diritto umanitario internazionale vengono sistematicamente ignorati da Stati
potenti, che le applicano selettivamente secondo convenienza geopolitica.
Il doppio
standard è palese: sanzioni immediate contro alcuni Paesi, complicità
silenziosa con altri. Questa incoerenza alimenta sfiducia globale e offre
terreno fertile a potenze che contestano l’ordine internazionale esistente,
rafforzando fratture già profonde.
Un sistema
di potere da smontare
Il rapporto
Albanese è esplicito: il genocidio di Gaza non può essere affrontato solo
chiedendo un cessate il fuoco. Bisogna smantellare la rete di sostegno
internazionale che lo rende possibile. Ciò significa sospendere immediatamente
tutte le relazioni militari, commerciali e diplomatiche con Israele, imporre un
embargo sulle armi, interrompere i rapporti economici legati a tecnologie
dual-use, sostenere l’UNRWA e cooperare pienamente con la giustizia
internazionale.
La storia
offre precedenti: la fine dell’apartheid in Sudafrica fu accelerata da un
regime di sanzioni e isolamento diplomatico. Le stesse leve possono — e secondo
il diritto internazionale devono — essere usate per porre fine al genocidio.
Una frattura
tra governi e popoli
Mentre i
governi occidentali continuano a sostenere Israele, le opinioni pubbliche si
muovono in direzione opposta. Milioni di persone in Europa, Stati Uniti,
America Latina e mondo arabo hanno manifestato chiedendo un cessate il fuoco e
sanzioni. Questa distanza tra società e istituzioni rischia di erodere la
legittimità politica interna e di accelerare una crisi di credibilità
internazionale per quelle democrazie che proclamano principi universali ma li
applicano in modo selettivo.
La
responsabilità della comunità internazionale
Il genocidio
di Gaza è una prova storica. Ogni veto, ogni contratto d’armi, ogni accordo
commerciale firmato mentre Gaza veniva distrutta rappresenta un atto di
complicità documentabile. In un futuro inevitabile di tribunali e commissioni,
la catena delle responsabilità non si fermerà a Tel Aviv: risalirà a
Washington, Londra, Berlino, Bruxelles e alle capitali arabe che hanno
permesso, con azioni o omissioni, che tutto ciò avvenisse.
Come scrive
Albanese, il mondo è oggi sospeso tra due possibilità: lasciar crollare
definitivamente il sistema di diritto internazionale oppure ricostruirlo
attraverso la giustizia. In questo bivio, la neutralità non esiste.
Conclusione:
Gaza come spartiacque
Il genocidio
in corso non è solo una tragedia umanitaria. È uno spartiacque storico e
giuridico. Se la comunità internazionale continuerà a proteggere Israele,
accettando che un regime di apartheid e occupazione possa condurre un genocidio
senza conseguenze, allora le norme che hanno retto l’ordine mondiale dal 1945
diventeranno carta straccia.
Se invece
Stati, istituzioni e società civili sceglieranno di agire, applicando le norme
e interrompendo la catena della complicità, Gaza potrà segnare non solo una
catastrofe, ma anche l’inizio di una ricostruzione del diritto internazionale.
Il mondo
guarda. E la storia, prima o poi, presenterà il conto.
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