sabato 1 novembre 2025

Il genocidio di Gaza e la complicità globale - Giuseppe Gagliano

Un crimine che non nasce da solo

Il genocidio in corso nella Striscia di Gaza non è un evento improvviso né isolato. È il risultato di un processo lungo, costruito su decenni di occupazione militare, impunità politica e complicità internazionale. Come documenta con precisione il rapporto presentato alle Nazioni Unite dalla relatrice speciale Francesca Albanese, si tratta di un crimine collettivo, in cui Stati terzi hanno avuto un ruolo determinante nel fornire supporto diplomatico, militare, economico e persino “umanitario”, consentendo a Israele di trasformare l’occupazione in una macchina di distruzione sistematica.

Dietro le macerie di Gaza non ci sono solo bombe e soldati. Ci sono governi che forniscono armi, porti che accolgono navi cariche di materiale bellico, banche che finanziano industrie, imprese che forniscono tecnologia dual-use, diplomazie che esercitano veti e silenzi che valgono come complicità. Il genocidio, come sottolinea il rapporto, non è mai opera di un solo attore.

Il quadro giuridico: obblighi chiari, responsabilità ignorate

Il diritto internazionale impone agli Stati non solo di non partecipare a crimini come genocidio, apartheid o aggressione, ma di prevenirli e punirli. La Corte internazionale di giustizia aveva già nel 2004 dichiarato illegale l’occupazione israeliana e ribadito gli obblighi di tutti gli Stati di agire. Questi obblighi non sono facoltativi: gli Stati hanno il dovere giuridico di non riconoscere situazioni illegali, di non prestare aiuto o assistenza e di intervenire per far cessare le violazioni.

Ma le misure previste — embarghi sulle armi, sospensioni di accordi commerciali, pressione diplomatica e cooperazione con i tribunali internazionali — non sono state adottate. Anzi, in molti casi è accaduto l’opposto: si è consolidato un sistema di relazioni che ha reso possibile, sul piano materiale e politico, la campagna di distruzione di Gaza.

La diplomazia come rete di protezione

Il primo pilastro della complicità è quello diplomatico. Dopo il 7 ottobre 2023, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è diventato teatro di una paralisi sistematica. Gli Stati Uniti hanno posto il veto sette volte su risoluzioni per un cessate il fuoco permanente. Altri Paesi occidentali si sono limitati a sostenere tregue temporanee o corridoi umanitari, lasciando proseguire la macchina di guerra.

Il discorso pubblico si è allineato alla narrativa israeliana, dipingendo i palestinesi come “terroristi”, “scudi umani” o “obiettivi collaterali” e cancellando il loro status di popolazione occupata protetta dal diritto internazionale umanitario. Questa manipolazione linguistica è stata essenziale per giustificare l’inerzia diplomatica e normalizzare l’idea che la guerra a Gaza fosse una risposta legittima a un’aggressione, piuttosto che la prosecuzione di un’occupazione coloniale.

Stati arabi e musulmani hanno mantenuto un profilo ambiguo. Alcuni hanno denunciato pubblicamente la violenza, ma allo stesso tempo hanno preservato relazioni economiche e strategiche con Israele, in particolare dopo la normalizzazione sancita dagli Accordi di Abramo. Altri hanno tentato mediazioni parziali senza mai incidere realmente sull’equilibrio militare e politico.

Mentre pochi Stati — come Belize, Bolivia, Colombia e Nicaragua — hanno sospeso relazioni diplomatiche con Israele, la maggior parte ha continuato a mantenere contatti ufficiali, rafforzando la percezione che non ci sarebbero state conseguenze reali per il genocidio.

Le armi: il carburante della macchina di guerra

Il secondo pilastro è quello militare. La campagna israeliana a Gaza è stata sostenuta e resa possibile da un flusso costante e massiccio di armi provenienti in gran parte da Paesi occidentali. Gli Stati Uniti da soli coprono circa due terzi delle importazioni militari israeliane. Solo tra il 2023 e il 2025 hanno approvato 742 spedizioni di armi e munizioni, oltre a fornire accesso diretto ai depositi militari statunitensi presenti in Israele.

Bombe, artiglieria pesante, munizioni di precisione, caccia e componenti per sistemi avanzati di sorveglianza e targeting sono stati consegnati mentre la fame e la carestia colpivano la popolazione civile. La Germania è il secondo esportatore di armi verso Israele, con licenze di esportazione per centinaia di milioni di euro, mentre l’Italia, il Regno Unito, la Francia e altri Paesi hanno contribuito direttamente o indirettamente a questa catena.

Questa rete non riguarda solo armi finite, ma anche componenti e tecnologie. Il programma dell’F-35 coinvolge 19 Paesi, molti dei quali forniscono parti e sistemi integrati impiegati direttamente nei bombardamenti su Gaza. Il flusso di armi non si è interrotto nemmeno quando erano già note le violazioni del diritto internazionale umanitario.

I porti e le basi come arterie logistiche

Dietro ogni consegna militare c’è un’infrastruttura globale che rende possibile la guerra. Porti in Europa e nel Mediterraneo — in Turchia, Francia, Italia, Paesi Bassi, Grecia, Marocco e Belgio — sono stati usati per far transitare componenti e armamenti. Aeroporti in Irlanda, Belgio e Stati Uniti hanno garantito l’arrivo dei rifornimenti. Alcuni scali hanno addirittura deviato spedizioni per aggirare proteste sindacali o controlli politici.

La cooperazione militare non si è limitata al commercio di armi: Israele ha partecipato a esercitazioni multinazionali, ha ricevuto intelligence in tempo reale e ha integrato la propria macchina bellica con sistemi occidentali, in particolare statunitensi e britannici.

Gli aiuti umanitari trasformati in arma

Il terzo pilastro è quello “umanitario”. Gaza era già prima della guerra un territorio assediato e dipendente dagli aiuti: l’80% della popolazione viveva grazie ai programmi di assistenza, soprattutto dell’UNRWA. Con la guerra, il blocco si è trasformato in assedio totale. I camion umanitari sono stati ridotti a meno di un terzo dei livelli precedenti. Ospedali, scuole e centri di distribuzione sono stati bombardati, più di 370 operatori dell’UNRWA sono stati uccisi.

Parallelamente, Israele e Stati Uniti hanno tentato di creare strutture umanitarie alternative, controllate militarmente, come la Gaza Humanitarian Foundation. Gli aiuti sono stati usati per spostare forzatamente civili, mentre le principali potenze occidentali paracadutavano cibo e medicinali in modo spettacolare ma inefficace, spostando l’attenzione dalla responsabilità politica alla gestione tecnica della crisi.

Economia e profitti: l’altra faccia della guerra

Il quarto pilastro è quello economico. Israele è un’economia fortemente integrata nei mercati globali: il commercio estero vale oltre la metà del PIL. L’Unione Europea è il principale partner commerciale, seguita da Stati Uniti, Asia e alcuni Paesi arabi. Le esportazioni di armi e tecnologia dual-use — in particolare circuiti integrati e sistemi di sorveglianza — sono cresciute durante la guerra.

Mentre Gaza veniva rasa al suolo, i flussi commerciali non si sono ridotti: anzi, in alcuni casi sono aumentati. Paesi europei e arabi hanno incrementato gli scambi con Israele, garantendo risorse e stabilità all’economia di guerra. I gasdotti nel Mediterraneo orientale hanno continuato a funzionare e, nell’agosto 2025, l’Egitto ha firmato un accordo energetico da 35 miliardi di dollari con Israele, proprio mentre la fame devastava la popolazione di Gaza.

Le tecnologie militari israeliane testate sui palestinesi sono diventate un prodotto da esportare: sistemi di sorveglianza, droni, software di controllo. La guerra non è solo sostenuta dall’economia: è essa stessa un motore economico.

La crisi della legalità internazionale

Questa catena di complicità diplomatica, militare, economica e logistica non è solo una questione morale: mina le fondamenta stesse dell’ordine internazionale costruito dopo la Seconda guerra mondiale. Il genocidio di Gaza mostra quanto siano fragili gli strumenti di tutela collettiva. Le decisioni della Corte internazionale di giustizia, i richiami delle Nazioni Unite, le norme del diritto umanitario internazionale vengono sistematicamente ignorati da Stati potenti, che le applicano selettivamente secondo convenienza geopolitica.

Il doppio standard è palese: sanzioni immediate contro alcuni Paesi, complicità silenziosa con altri. Questa incoerenza alimenta sfiducia globale e offre terreno fertile a potenze che contestano l’ordine internazionale esistente, rafforzando fratture già profonde.

Un sistema di potere da smontare

Il rapporto Albanese è esplicito: il genocidio di Gaza non può essere affrontato solo chiedendo un cessate il fuoco. Bisogna smantellare la rete di sostegno internazionale che lo rende possibile. Ciò significa sospendere immediatamente tutte le relazioni militari, commerciali e diplomatiche con Israele, imporre un embargo sulle armi, interrompere i rapporti economici legati a tecnologie dual-use, sostenere l’UNRWA e cooperare pienamente con la giustizia internazionale.

La storia offre precedenti: la fine dell’apartheid in Sudafrica fu accelerata da un regime di sanzioni e isolamento diplomatico. Le stesse leve possono — e secondo il diritto internazionale devono — essere usate per porre fine al genocidio.

Una frattura tra governi e popoli

Mentre i governi occidentali continuano a sostenere Israele, le opinioni pubbliche si muovono in direzione opposta. Milioni di persone in Europa, Stati Uniti, America Latina e mondo arabo hanno manifestato chiedendo un cessate il fuoco e sanzioni. Questa distanza tra società e istituzioni rischia di erodere la legittimità politica interna e di accelerare una crisi di credibilità internazionale per quelle democrazie che proclamano principi universali ma li applicano in modo selettivo.

La responsabilità della comunità internazionale

Il genocidio di Gaza è una prova storica. Ogni veto, ogni contratto d’armi, ogni accordo commerciale firmato mentre Gaza veniva distrutta rappresenta un atto di complicità documentabile. In un futuro inevitabile di tribunali e commissioni, la catena delle responsabilità non si fermerà a Tel Aviv: risalirà a Washington, Londra, Berlino, Bruxelles e alle capitali arabe che hanno permesso, con azioni o omissioni, che tutto ciò avvenisse.

Come scrive Albanese, il mondo è oggi sospeso tra due possibilità: lasciar crollare definitivamente il sistema di diritto internazionale oppure ricostruirlo attraverso la giustizia. In questo bivio, la neutralità non esiste.

Conclusione: Gaza come spartiacque

Il genocidio in corso non è solo una tragedia umanitaria. È uno spartiacque storico e giuridico. Se la comunità internazionale continuerà a proteggere Israele, accettando che un regime di apartheid e occupazione possa condurre un genocidio senza conseguenze, allora le norme che hanno retto l’ordine mondiale dal 1945 diventeranno carta straccia.

Se invece Stati, istituzioni e società civili sceglieranno di agire, applicando le norme e interrompendo la catena della complicità, Gaza potrà segnare non solo una catastrofe, ma anche l’inizio di una ricostruzione del diritto internazionale.

Il mondo guarda. E la storia, prima o poi, presenterà il conto.

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