Io, bersaglio di attacchi dopo la pubblicazione del libro sull’ecofascismo. Turpiloquio e insinuazioni nel canale Telegram di forze dell’ordine e militari.
Il
politicamente corretto minaccia la libertà d’espressione, viviamo tempi di
censura, ormai “non si può più dire nulla”. Lo ripetono in molti, come un
mantra e mentre si moltiplicano le lamentazioni, più o meno in buona fede,
contro il cosiddetto wokismo, chi prova a raccontare fatti verificabili, che
magari non sono in linea con la propaganda dominante, viene travolto da ondate
di odio.
Da quasi un
anno mi trovo in un vortice dai risvolti angosciosi, che ha cambiato il mio
modo di guardare alla rete, e anche a me stessa. Tutto è cominciato nell’aprile
2024 con la pubblicazione di un libro in cui analizzavo il modo in cui le
destre estreme si appropriano dei temi ecologici per giustificare discorsi
identitari, nazionalisti, talvolta apertamente razzisti. Le prime reazioni
furono prevedibili: titoli polemici, critiche ineleganti (per tenerci nel
territorio dell’eufemismo), perfino stroncature quasi paranormali, perché
pubblicate il giorno stesso dell’uscita, quando il libro non poteva essere
stato letto da nessuno.
Poi, il 30
luglio 2024, il breve estratto di un mio intervento televisivo, pochi secondi
tagliati, decontestualizzati, in sostanza manipolati, viene rilanciato sui
social. La reazione è immediata, compatta, di proporzioni imprevedibili:
migliaia di commenti misogini, insulti sessisti, minacce di morte e di stupro.
Chi
frequenta il web lo sa: la violenza digitale non è un incidente, è un metodo,
anzi un sistema. L’International press institute (Ipi), che in quel periodo
stava conducendo un monitoraggio sulle minacce online ai giornalisti
ambientali, include il mio caso nel suo rapporto annuale. Nelle conclusioni si
legge che gli attacchi non erano casuali, ma parte di “una rete consolidata che
seleziona obiettivi specifici e innesca azioni coordinate”. È un linguaggio
tecnico, ma dice una cosa semplice: non si tratta di aggressioni verbali
volgari, a volte orrende ma spontanee, quasi casuali; si tratta di violenza
organizzata.
In ogni
caso, dopo mesi di shitstorm, a gennaio 2025 decido di denunciare, segue poi
una seconda denuncia a marzo, a seguito della comparsa di nuovi attacchi. Per
mesi ho creduto che tutto si limitasse a una delle tante campagne virali di
disinformazione, non riuscivo però a capire come ciclicamente saltassero fuori
queste ondate di insulti, e soprattutto non riuscivo a capire come il mio nome
fosse finito su VKontakte, il social network russo e su Gab, la piattaforma
americana che raccoglie suprematisti e neonazisti. Poi pochi giorni fa, ho
scoperto un nuovo tassello di questa vicenda surreale che ha cambiato il
quadro. Un quadro a dir poco inquietante.
Il mio
avvocato ha ottenuto copia del primo fascicolo con i nomi di alcuni hater
identificati dalla polizia postale. Pochi, rispetto alle migliaia di messaggi,
ma sufficienti per capire che non si trattava solo di profili fittizi. Tra
loro, tanto per intenderci, figurano la segretaria provinciale della Lega di
Pesaro e un ex consigliere comunale capitolino di Forza Italia: persone con
nomi e cognomi, ruoli pubblici, seguito reale. La signora in questione, tanto
per dare un’idea della qualità del dibattito, si chiedeva, tra le altre cose,
come mai una come me potesse “piacere a un uomo bianco”. Nel medesimo orizzonte
concettuale, a completamento, diciamo, un tizio mi augurava di essere
ripetutamente stuprata con modalità creative da un gruppo di uomini africani.
Il dettaglio
più inquietante, però, è un altro. Tre giorni dopo quel mio intervento
televisivo, il video era già stato diffuso su un canale Telegram chiamato O.S.A.
Italia, acronimo di “Operatori di Sicurezza Associati”, un gruppo di
circa 16 mila iscritti, composto da appartenenti o ex appartenenti alle
forze dell’ordine, militari e “simpatizzanti civili”. Sul sito
l’associazione si presenta come promotrice della “cultura della legalità e
della sicurezza”. Parole nobili, dietro le quali però si nasconde un mondo
parallelo, non una realtà professionale neutrale: nei canali social si trovano
messaggi polarizzanti intrisi di rancore, retoriche anti-media, teorie
complottiste e una propaganda aggressiva mascherata da patriottismo.
Nel canale
dove è comparso il mio video si è scatenata una valanga di insulti sessisti,
turpiloqui, insinuazioni a sfondo sessuale. Molti dei profili erano
riconducibili a persone che indossano, o hanno indossato, una divisa. Il
presidente di O.S.A., Gianluca Salvatori detto Drago, è un ex agente della
Polizia di Stato noto per le sue apparizioni televisive come “esperto di
sicurezza”. Intorno a lui si muovono figure provenienti da movimenti nati
durante la pandemia, No Green Pass, no vax, gruppi di protezione civile
ideologizzati, oggi riuniti sotto un linguaggio pseudo-istituzionale che
mescola populismo legalitario, rabbia e sfiducia verso le istituzioni.
Quando la
violenza verbale arriva da chi dovrebbe rappresentare la legalità, si
oltrepassa una soglia pericolosa. Il confine tra dissenso e intimidazione si
dissolve. Il problema non è solo la brutalità delle parole, ma il loro effetto:
normalizzano la prepotenza, danno l’idea che insultare sia un modo legittimo di
partecipare al dibattito pubblico.
Un dato del
rapporto dell’IPI mi ha colpita: oltre l’80% degli attacchi che ho subito
proveniva da uomini. Non è una sorpresa. La violenza online contro le
giornaliste ha quasi sempre una componente sessualizzata: serve a ribadire che
certi argomenti – ambiente, energia, economia – restano affare maschile.
Ovviamente il tema non è la mia vicenda personale. È la fotografia di un clima.
La libertà di parola, in molti casi, è diventata un alibi: la scusa dietro cui
si nasconde l’impunità dell’offesa. Chi invoca il diritto indiscriminato di “dire
ciò che pensa” ignora che la libertà d’espressione non è un’arma per colpire,
ma uno spazio di responsabilità condivisa.
Forse l’odio
digitale sembra qualcosa di impalpabile, fatto solo di parole. Ma le parole non
sono mai solo parole: costruiscono realtà, creano categorie, orientano
comportamenti. Allora sì, forse oggi “non si può più dire nulla”. Ma non perché
esista una dittatura del politicamente corretto, semmai perché è diventato
normale odiare. Difendere la libertà d’espressione, oggi, significa difendere
la possibilità di parlare senza essere intimiditi dalle aggressioni online come
dalle querele dei potenti. Significa saper distinguere il dissenso
dall’aggressione, in sostanza: la critica dalla diffamazione.
*da La
Stampa
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