Il nuovo
rapporto diffuso da Medici per i diritti
umani-Israele (Phri) apre uno squarcio ulteriore su un sistema
detentivo che negli ultimi due anni ha raggiunto un livello di letalità senza
precedenti. 98 prigionieri politici palestinesi sono morti nelle carceri e nei
centri di detenzione israeliani, il bilancio più alto degli ultimi decenni. 94
di queste morti sono documentate tra il 7 ottobre 2023 e l’agosto 2025. Le
altre quattro si collocano nei due mesi successivi, in un quadro che gli autori
dello studio definiscono l’esito di una escalation sistemica.
Il rapporto,
intitolato Deaths of Palestinians in Israeli custody: enforced
disappearances, systematic killings and cover-ups, descrive una
macchina repressiva che con l’inizio dell’offensiva contr0 Gaza ha acquisito
una forza inedita. La maggioranza dei palestinesi provenienti dalla Striscia e
deceduti in detenzione non era classificata come combattente dalle stesse
autorità israeliane. Erano civili arrestati in modo arbitrario, in un contesto
di prigionia, sparizioni e punizioni collettive della popolazione di Gaza. Phri
parla senza mezzi termini di morti frutto di gravi violenze, omissioni e abusi
strutturali.
Nei primi
otto mesi dopo il 7 ottobre un prigioniero palestinese moriva in media ogni
quattro giorni. Una frequenza che rischia persino di essere sottostimata,
perché centinaia di persone arrestate a Gaza non risultano ufficialmente
detenute e molte famiglie non hanno ricevuto alcuna comunicazione sulla sorte
dei propri cari. Diciotto cittadini di Gaza morti in custodia restano privi di
identità. In passato l’esercito ha negato detenzioni poi rivelatesi tali solo
con la morte degli arrestati, e questo precedente alimenta il sospetto che il
numero reale sia più alto.
I referti
medici esaminati dai ricercatori raccontano un repertorio ricorrente di
maltrattamenti. Percosse prolungate e concentrate su parti vitali del corpo.
Malnutrizione e rifiuto delle cure. Mancata somministrazione di farmaci a
pazienti con patologie croniche gravi. Condizioni di vita insostenibili che in
alcuni casi hanno portato alla setticemia o a complicazioni respiratorie. Le
dieci autopsie disponibili non lasciano spazio all’ambiguità. Costole spezzate,
lacerazioni interne, lesioni compatibili con ripetuti colpi contundenti.
Oneg Ben Dror, tra i ricercatori che hanno contribuito
all’inchiesta, descrive questo insieme di evidenze come la manifestazione di un
disegno deliberato. “Quelle che emergono” afferma “non sono morti accidentali o
il risultato di episodi isolati ma uccisioni di palestinesi durante la
detenzione. La totale assenza di indagini credibili sui responsabili trasforma
il quadro giuridico israeliano in una copertura formale che legittima
l’impunità”.
Le autorità
carcerarie, sotto la linea dura promossa dal ministro della Sicurezza Itamar Ben Gvir, hanno intensificato restrizioni e
abusi, mentre in Parlamento prende forma una proposta di legge per introdurre
la pena di morte per i “terroristi palestinesi”.
Il centro di detenzione di Sde Teiman emerge come il
punto più nero della mappa. Ventinove dei novantotto morti sono passati da lì. Il luogo è tornato al
centro dell’attenzione pubblica dopo l’incriminazione di cinque soldati
accusati di torture, stupro e lesioni aggravate contro un prigioniero
palestinese, in un caso reso noto dalla procuratrice militare Yifat Tomer Yerushalmi. L’inchiesta ha scosso
l’apparato militare ma la procuratrice, invece di essere tutelata, è stata
arrestata con l’accusa di aver diffuso immagini riservate e arrecato un danno
allo Stato. L’unica sentenza definitiva riguarda per ora un soldato condannato
a sette mesi per aggressioni a detenuti, un epilogo che conferma la difficoltà
di spezzare il muro di omertà.
Dopo Sde
Teiman seguono, per numero di decessi, le prigioni di Ketziot, Megiddo e Nitzan. Cinque prigionieri sono
morti all’ospedale Soroka di Beersheva, spesso dopo settimane di detenzione in
condizioni dure. Sessantotto delle vittime provenivano da Gaza, ventitré dalla
Cisgiordania e tre erano cittadini palestinesi di Israele. Sette casi si collocano
prima del trasferimento formale in carcere, un’ulteriore zona d’ombra che
riguarda i centri di detenzione militare.
Nel carcere
di Megiddo gli esiti delle autopsie indicano emorragie interne e traumi da
impatto violento, come nel caso di Omar Daraghmeh. Poco dopo è deceduto Abdul
Rahman Marai, le cui costole e il cui sterno risultavano fratturati. Un
testimone riferisce che quindici agenti lo picchiarono per diversi minuti
colpendo soprattutto la testa. Il quadro non cambia per i più giovani. Walid
Ahmed, diciassette anni, è morto nel marzo scorso in uno stato di denutrizione
estrema, con ferite non curate e gravi infezioni intestinali. Un destino
analogo ha colpito Mohammed Al Sabbar, ventun anni, deceduto nel febbraio 2024.
La sequenza
dei decessi descrive un sistema che opera fuori dalle leggi internazionali,
sostenuto da una combinazione di violenza sistematica e mancanza di
responsabilità. Il rapporto di Phri rappresenta una delle documentazioni più
profonde di questa realtà, ma sfiora soltanto la superficie. Le famiglie
palestinesi continuano a cercare risposte, i centri di detenzione restano
opachi.
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