Qualche decennio addietro, il criminologo marxista statunitense Richard Quinney, affermava che la criminalità paga. Non si riferiva ai possibili vantaggi derivanti dall’intraprendere una carriera criminale. Quinney guardava ai vantaggi che la questione criminale forniva alla società. Un decimo dell’apparato di Stato è costituito da addetti alla sfera giudiziario-penale. A questi vanno sommati gli avvocati, gli imprenditori che costruiscono gli istituti penitenziari e tutto l’indotto del business penitenziario, come lo avrebbe definito più tardi Nils Christie. Allargando il perimetro, il numero di psicologi, psichiatri, esperti a vario titolo, criminologi clinici, accademici, giornalisti, scrittori, membri dell’associazionismo e del volontariato che traggono rendite di posizione dalla criminalità, finisce per formare una schiera consistente. Senza tralasciare la sfera mediatica dell’intrattenimento. A questa schiera, Quinney, non dimenticava di aggiungere i politici, che attorno al binomio di legge e ordine costruiscono le loro carriere politiche.
La questione
della sicurezza, così come è stata sviluppata in Italia nell’ultimo trentennio,
conferma l’attendibilità dell’assunto formulato da Richard Quinney. Cominciò la
Lega, che deve buona parte delle sue fortune all’avere intercettato le
rivendicazioni securitarie dei comitati civici sorti, più o meno spontaneamente,
nell’ex triangolo industriale alla fine degli anni ottanta. Una ricostruzione
simile può essere svolta per i Cinque Stelle, che hanno fatto della parola
d’ordine onestà, da declinare in senso giustizialista, il loro
cavallo di battaglia. FdI, ovviamente, raccoglie il testimone delle crociate
per l’ordine pubblio di cui è sempre stata portatrice la forza politica di cui
costituisce la filiazione diretta. Non a caso, l’attuale compagine
governativa, fa della sicurezza il proprio collante e il proprio marchio di
fabbrica per rinsaldare il consenso dell’elettorato.
Che la
sicurezza rappresenti la cifra della destra, non stupisce. Viceversa, sorprende
l’ossessione securitaria che ha recentemente conquistato l’opposizione (https://volerelaluna.it/commenti/2025/08/18/sicurezza-gli-ultimi-danni-di-veltroni/), con la segretaria del PD che, da
ultimo, convoca in tutta fretta una conferenza nazionale degli amministratori
locali per parlare dell’insicurezza delle città. Come se rispondesse
all’appello lanciato dalle colonne dei giornali dall’ex sindaco di Roma, e al
suo proclama per cui la libertà non esiste senza sicurezza. Lo spettacolo che
il cosiddetto centrosinistra mette in scena appare goffo e patetico, nella
misura in cui, oltre a tentare di occupare uno spazio già saldamente presidiato
dagli altri, denota un preoccupante vuoto progettuale, oltre che una mancanza
di consapevolezza.
Affermare
che il centrosinistra non ha mai applicato politiche securitarie, costituisce
un punto di partenza errato, sia sul piano della riflessione teorica che sotto
il profilo delle politiche pubbliche. Le sindacature di Chiamparino a Torino, di Veltroni
a Roma, quella di Cofferati a Bologna con la famigerata battaglia sui
lavavetri, lo zelo con cui i sindaci di centrosinistra sono corsi ad applicare
le zone rosse, sono lì a dimostrarlo. Come lo suffragano, a livello nazionale,
il pacchetto sicurezza varato dall’allora Guardasigilli Fassino, i GOM
istituiti dal suo predecessore Diliberto, la predisposizione della macchina
repressiva che a Genova, in occasione del G8, avrebbe sortito risultati tragici
(e che, appunto, venne consegnata a Berlusconi dal precedente Governo di
centro-sinistra presieduto da Giuliano Amato). Iniziative tutte accomunate dal
maldestro tentativo di dimostrare all’elettorato di essere sufficientemente
duri contro il crimine come la destra, suffragate da ricerche sociologiche approssimate,
che enfatizzano i dati grezzi. E i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti,
come il Governo che ci troviamo in carica e i sui decreti anti-rave, Caivano e
sicurezza.
Dove sbaglia
la sinistra? Sicuramente, nell’accettare lo scontro aperto in un campo in cui
non ha stabilito le regole. Soprattutto, nel rifiuto di elaborare una riflessione propria
sulle tematiche della sicurezza, da tradurre in politiche alternative a quelle
della destra. Si potrebbe, per esempio, cominciare dall’approfondire il concetto
stesso di sicurezza, tutt’altro che passibile di una definizione univoca. Da un
lato è vero che in italiano l’univocità è la conseguenza della sinonimia tra
quello che gli inglesi distinguono tra safety, in senso
sociale, e security, che richiama alla protezione fisica.
Dall’altro lato, questa distinzione, non viene svolta per via di una pigrizia
intellettuale che risente dei mutati scenari socio-politici successivi alla
caduta del Muro di Berlino. L’imporsi del pensiero unico neoliberista, ha comportato
il prevalere del significato del termine nel senso della security,
oppure, se preferiamo, del cosiddetto diritto alla sicurezza.
Questa
impostazione, si regge sul presupposto che la società sia composta da
individualità isolate, che condividono la razionalità dell’homo oeconomicus, a cui va garantito un quantum di
incolumità necessario a operare sull’arena del mercato per portare a termine
interazioni e scambi funzionali alla produzione e, soprattutto nella fase
odierna, al consumo. Si disegna così uno spazio uniforme, omogeneo, all’interno
del quale le diversità e le difformità vengono inquadrate come pericoli,
potenziali ed effettivi, da neutralizzare con interventi che siano il più
possibile rigorosi, e che prevedano un dispiegamento massimo delle risorse
giudiziario-penali. Il limite di questa impostazione è rappresentato
dal rifiuto di accettare l’esistenza di una pluralità di interessi, di valori,
progettualità, identità, stili di vita al di fuori di quelle offerte del
mercato. Ne consegue, paradossalmente, una contrazione delle singolarità,
colonizzate dalla paura, e costrette ad accontentarsi della nicchia del
mercato, e ad affidare a un potere sempre più invadente e autoritario le
proprie esistenze. Come nota Tamar Pitch ne Il malinteso della vittima, mettere
nelle mani di un potere terzo la tutela delle proprie aspettative, produce una
condizione di subalternità e gonfia a dismisura le prerogative repressive dello
Stato.
Il diritto
alla sicurezza avanza a spese di quella che Alessandro Baratta definiva
come la sicurezza dei diritti. Un approccio analitico
antitetico a quello dominante, in quanto parte dal presupposto che le
individualità esistono sempre all’interno di contesti sociali specifici,
all’interno dei quali, la fruizione dei diritti civili, politici e sociali,
oltre a ridurre le preoccupazioni quotidiane, costruisce una sfera pubblica
all’interno della quale agiscono individualità e soggetti collettivi
inclusi. Un tessuto sociale economicamente compatto e socialmente coeso
attorno a legami plurali, non regolamentato dal mercato, riduce sensibilmente i
rischi per le incolumità dei singoli.
Il problema
da porsi, riguarda proprio l’assottigliarsi della sicurezza dei diritti. Il passaggio dal fordismo al
post-fordismo, col deperimento dei grandi aggregati produttivi, ha finito per
produrre disoccupazione di massa, precarietà occupazionale, segmentazioni del
tessuto sociale. Le esistenze, per dirle con Zygmunt Bauman, si sono fatte
sempre più liquide, e sottoposte alla spinta a competere per l’accesso ai
consumi globali. Alla frammentazione sociale si sono sovrapposte la
multiculturalità, la pluralità degli stili di vita. Che traiettorie sempre più
individualizzate hanno comportato che venissero inquadrate come minacce messe
in atto dagli altri, visti come competitors, ovvero
concorrenti, più che come potenziali compagni con cui elaborare strategie
collettive. È proprio tra le pieghe di questa società anonimizzata,
frammentata, segmentata, impaurita, che alligna il securitarismo.
Una sinistra
che si definisce tale, che fa
propria l’esigenza di rispondere alla necessità di colmare lo scarto tra
l’esistente e il possibile, di questa insicurezza si deve senz’altro
occupare. Partendo però dalla consapevolezza che non si tratta di una
questione individuale, o ascrivibile all’anomalia delle classi pericolose di
volta in volta individuate. All’inizio degli anni Novanta, tra amministratori e
accademici, questa presa di coscienza era diffusa. L’esperienza di “Città
Sicure”, promossa in Emilia-Romagna dal compianto Massimo Pavarini, gli aveva
dato forma. Ricerche approfondite sulla vita dei quartieri, sulla percezione
della popolazione locale, sul consumo di sostanze, sulla prostituzione, avevano
prodotto proposte originali, che andavano dalla polizia di prossimità
alla riduzione del danno. Tuttavia, la convinzione che si vincesse al
centro, portò a ignorare i suggerimenti di quella esperienza, fino a liquidarla
del tutto, sia a livello locale e nazionale. Eppure, gli insegnamenti di “Città
Sicure”, sono ancora lì. Le si potrebbero riprendere, e anche integrare con esperienze
nuove, come la sicurezza plurale della Regione Umbria di qualche anno fa.
Oppure si potrebbe guardare a Granada, in Spagna, dove la
polizia municipale, ha istituito un parlamentino in cui rom, donne, LGBTQIA+,
sex workers e consumatori di sostanze, in cui si elaborano strategie condivise
per la gestione dell’ordine pubblico. Altri esempi, come il sindaco
della notte, che negozia tra gli attori della vita notturna, sono lì per
essere seguiti.
A partire
dalla sicurezza, si potrebbe riprendere il cammino per emanciparsi dalla
subalternità dalla destra. Soprattutto, si deve ricominciare a declinare la
sicurezza dei diritti. Il crimine non paga. Specialmente a sinistra, dove il
mercato non è il benvenuto.
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