giovedì 13 novembre 2025

Sarajevo Safari

Cecchini a Sarajevo: bersagli per ricchi assassini, anche italiani – Ennio Remondino

Chi ha vissuto almeno parte dei quattro anni tra il 1992 e il 1995 nella Sarajevo assediata, la parola chiave del vivere e sopravvivere era ‘sniper’, cecchino, e tu eri sempre e comunque possibile bersaglio. L’ampia e lunga strada centrale per entrare nella città era il ‘viale dei cecchini’. Il tiro che ha trapassato il braccio sinistro di Roberto Cannaviccio, tecnico Rai, fu il benvenuto mentre entravamo per la prima volta. E i colpi che hanno collaudato i vetri antiproiettile della blindata Rai dei tempi BR, finita sulle montagne della Bosnia. Mentre scoprivo che il ‘zip zip’ disegnato che sfiora la testa di Tex Willer, è il rumore vero che senti, se sei fortunato che il proiettile ti sfiora soltanto.

Brevi note personali, poche righe di un libro non scritto per introdurci alla lettura di una sintesi ANSA, su una tra le molte mostruosità che l’Europa ha vissuto nel suo ventre, senza saperla prevenire e soprattutto fermarla qualche migliaio di morti prima. Tiro a segno dalla collina che sovrasta la parte orientale di Saraievo, la ‘parte serba’ di Karadzic, per chi ancora ricorda. E il cimitero monumentale ebraico che con le sue lapidi marmoree e le edicole di famiglia offriva la postazione ideale per il tiro a segno sulla città bersaglio. Per soldati che praticano il terrorismo sugli innocenti credendo di combattere e, peggio, di tiratori civili e stranieri che pagavano per l’emozione della caccia all’animale uomo, bambini, donne, vecchi come bersagli e tariffe diverse da pagare a fine ‘vacanza’ agli organizzatori di quelle emozioni. Certo, adesso, segnati dal male assoluto accaduto a Gaza, si riduce la stessa portata della nostra indignazione, e la memoria di orrori rimossi troppo rapidamente. Ma la disumanità belluina di singoli di cui avevamo memoria e conoscenza già da allora, senza aver raggiunto mai i dettagli che ritenevamo necessari e, soprattutto i nomi dei sospettati mostri, riesce a superare le disumanità più feroci di ogni guerra.

‘I cecchini del weekend a Sarajevo’, inchiesta a Milano

Se ne parlava già in articoli di 30 anni fa sulle ‘vacanze in Bosnia per fare la guerra’, avverte la redazione ANSA. Si sono aggiunti negli anni testimonianze e documentari e uno scrittore, forte di un dialogo con una “fonte”, ha deciso di raccogliere quel materiale e presentare un esposto. Così la Procura di Milano dovrà iniziare a indagare sui cosiddetti “cecchini del weekend”, persone che pagavano per andare ad uccidere, anche donne e bambini, partecipando all’assedio di Sarajevo da parte dei serbo-bosniaci, tra il ’92 e l’95.

Il documento alla procura

«Ciò che ho appreso, da una fonte in Bosnia-Erzegovina, è che l’intelligence bosniaca a fine ’93 ha avvertito la locale sede del Sismi della presenza di almeno 5 italiani, che si trovavano sulle colline intorno alla città, accompagnati per sparare ai civili.

Inizia così il documento di 17 pagine, inviato alla Procura dallo scrittore Ezio Gavazzeni, assistito dagli avvocati Nicola Brigida e Guido Salvini. Di luglio la notizia dell’apertura di un’inchiesta, col pm Alessandro Gobbis che indaga per omicidio volontario plurimo aggravato dai motivi abietti e dalla crudeltà. Quella ‘fonte’, indicata con nome e cognome, «faceva parte dell’intelligence bosniaca». Gavazzeni riporta uno scambio di mail del 2024 in cui l’ex 007 scrive: «Ho appreso del fenomeno alla fine del 1993 dai documenti del servizio di sicurezza militare bosniaco sull’interrogatorio di un volontario serbo catturato (…) Ha testimoniato che 5 stranieri hanno viaggiato con lui da Belgrado alla Bosnia Erzegovina (almeno tre di loro erano italiani)». All’epoca, ha raccontato, «condividemmo le informazioni con gli ufficiali del Sismi (ora Aise) a Sarajevo perché c’erano indicazioni che gruppi turistici di cecchini/cacciatori stavano partendo da Trieste».

Cacciatori d’uomini da Milano, Torino e Trieste

Ci sarebbero stati un uomo di Torino, uno di Milano e l’ultimo di Trieste, «quello milanese era proprietario di una clinica privata specializzata in interventi di tipo estetico». Per ora agli atti ci sono i documenti depositati dall’autore dell’esposto e nelle prossime settimane il pm, con delega al Ros dei carabinieri, dovrà effettuare verifiche, ascoltando semmai i testi indicati. Al momento, si fa riferimento a ‘soffiate’ anche sul tariffario dell’orrore: «i bambini costavano di più, poi gli uomini (meglio in divisa e armati), le donne e infine i vecchi che si potevano uccidere gratis». Centrale un documentario, ‘Sarajevo Safari’ del 2022. Il regista Miran Zupanic, segnala Gavazzeni, «ci ha dato le password per accedere alla visione riservata del film (…) posso fornirle al magistrato».

Inchiesta 40 anni dopo

Nel filmato c’è un ‘testimone anonimo e «alcune fonti parlano di americani, canadesi e russi, ma anche di italiani, che erano disposti a pagare per giocare alla guerra». I ‘clienti’, ha raccontato l’ex agente segreto, «erano persone molto ricche che potevano permettersi economicamente una sfida così adrenalinica. Per il modo in cui tutto era organizzato, i servizi bosniaci ritenevano che dietro a tutto ci fosse il servizio di sicurezza statale serbo.  E con “infrastrutture dell’ex compagnia aerea serba di charter e turismo. Jovica Stanišić, ‘condannato per crimini di guerra’, avrebbe svolto un ruolo chiave in questo servizio».

‘Cecchini turistici’

Stando all’esposto, tra i ‘turisti-cecchini’ c’erano appassionati di caccia e armi, vicini all’estrema destra. «La copertura dell’attività venatoria serviva per portare, senza sospetti, i gruppi a destinazione a Belgrado». Un ex vigile del fuoco statunitense, volontario nella Sarajevo del massacro (oltre 11mila vittime), ne aveva già parlato nel 2007 nel processo al comandante dell’esercito serbo-bosniaco Ratko Mladic. «Non mi sembravano persone del posto – ha messo a verbale – il loro modo di vestire e le armi mi hanno fatto pensare che fossero tiratori turistici».

da qui

 

 

Inchiesta a Milano per i “safari della morte” di Sarajevo: si indaga sui turisti che pagavano per essere cecchini

Il fascicolo è stato aperto dal pm Alessandro Gobbis con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e dai motivi abbietti ed è al momento a carico di ignoti. nasce dall’esposto presentato dal giornalista e scrittore Ezio Gavazzeni, con la collaborazione di due avvocati e dell’ex magistrato Guido Salvini

A 30 anni dagli orrori della guerra in Bosnia, c’è una storia che riguarda l’Italia – e in particolare Milano, Torino e Trieste – che è diventata oggetto di un’inchiesta penale che, in considerazione dei gravissimi reati contestati, è ancora perseguibile. La procura indaga, come riportano Il Giorno e La Repubblica, su cittadini italiani che sarebbero partiti dall’Italia, dopo aver pagato somme “ingenti” ai militari serbi, per partecipare all’assedio di Sarajevo e sparare “per divertimento” contro i cittadini della capitale bosniaca. Uomini, donne e addirittura bambini falciati dalle postazioni in cima ai palazzi su cui installavano le loro armi i killer. Questi “turisti della guerra” avrebbero quindi partecipato al massacro di oltre 11mila persone tra il 1993 e il 1995. Un caso che era già emerso alcuni anni fa quando si parlò di “safari di guerra” – oggetto anche di un documentario – che coinvolgeva cittadini stranieri disposti a versare tariffe per “contribuire” a trasformare alcune parti della città della città in un mostruoso poligono a cielo aperto.

Il fascicolo – di cui aveva già scritto Il Giornale a luglio – è stato aperto dal pm Alessandro Gobbis con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e dai motivi abbietti ed è al momento a carico di ignoti e nasce dall’esposto presentato dal giornalista e scrittore Ezio Gavazzeni, con la collaborazione di due avvocati e dell’ex magistrato Guido Salvini. In base alle testimonianze raccolte, da tutto il Nord Italia questi ‘cecchini del weekend’, perlopiù simpatizzanti dell’estrema destra con la passione per le armi, si radunavano a Trieste e venivano portati poi sulle colline attorno a Sarajevo dove potevano sparare sulla popolazione della città assediata dopo aver pagato le milizie serbo-bosniache di Radovan Karadzic, poi condannato per genocidio e crimini contro l’umanità. Nel fascicolo c’è anche una relazione su questi “ricchi stranieri amanti di imprese disumane” inviata alla Procura di Milano dall’ex sindaca di Sarajevo Benjamina Karic.

Le testimonianze raccolte

“Ciò che ho appreso, da una fonte in Bosnia-Erzegovina, è che l’intelligence bosniaca a fine 1993 ha avvertito la locale sede del Sismi della presenza di almeno cinque italiani, che si trovavano sulle colline intorno alla città, accompagnati per sparare ai civili” si legge nell’esposto di Gavazzeni. La “mia fonte”, spiega lo scrittore assistito dagli avvocati Nicola Brigida e Guido Salvini, “faceva parte dell’intelligence bosniaca” e nell’atto viene indicato con nome e cognome. Lo scrittore riporta uno scambio di mail del novembre 2024 con la “fonte” che scriveva: “Ho appreso del fenomeno alla fine del 1993 dai documenti del servizio di sicurezza militare bosniaco sull’interrogatorio di un volontario serbo catturato, venuto a combattere dalla parte dei serbi di Bosnia ed Erzegovina. Ha testimoniato – si legge – che cinque stranieri hanno viaggiato con lui da Belgrado alla Bosnia Erzegovina (almeno tre di loro erano italiani, e uno ha detto di essere di Milano)”.

All’epoca, ha raccontato l’ex 007 bosniaco, “lavoravo nel servizio di intelligence militare dell’esercito bosniaco. Condividemmo le informazioni con gli ufficiali del Sismi (ora Aisi) a Sarajevo perché c’erano indicazioni che gruppi turistici di cecchini/cacciatori stavano partendo da Trieste”. Nelle 17 pagine dell’esposto – come riporta l’Ansa – si dà conto che “in una testimonianza è riportato che tra questi ci fossero degli italiani: un uomo di Torino, uno di Milano e l’ultimo di Trieste“. E ancora: “Uno dei cecchini italiani identificati sulle colline sopra Sarajevo nel 1993, oggetto della segnalazione al Sismi, era di Milano e proprietario di una clinica privata specializzata in interventi di tipo estetico”.

Indagini affidate al Ros dei Carabinieri

Per ora agli atti dell’indagine, ci sono solo i documenti presentati dall’autore dell’esposto, datato 28 gennaio, e nelle prossime settimane il pm Alessandro Gobbis, con delega al Ros dei carabinieri, dovrà effettuare verifiche, ascoltando le persone indicate dallo scrittore. Per ora “sono solo ‘soffiate”, ma sarebbe esistita anche “una tariffa per queste uccisioni: i bambini costavano di più, poi gli uomini (meglio in divisa e armati), le donne e infine i vecchi che si potevano uccidere gratis”. Lo scrittore fa proprio riferimento al documentario Sarajevo Safari del 2022 e chiarisce che “il regista Miran Zupanic ci ha dato le password per accedere alla visione riservata del film sul sito di Al Jazeera e posso fornirle al magistrato che ne farà richiesta”. Nel filmato anche un testimone “anonimo”. E ancora: “Alcune fonti parlano di americani, canadesi e russi, ma anche di italiani, che erano disposti a pagare per giocare alla guerra”.

I clienti, ha raccontato l’ex 007 bosniaco, erano “sicuramente persone molto ricche” che potevano “permettersi economicamente una sfida così adrenalinica”. Per il modo in cui “tutto era organizzato, i servizi bosniaci ritenevano che dietro a tutto ci fosse il servizio di sicurezza statale serbo”. E con “le infrastrutture dell’ex compagnia aerea serba di charter e turismo Aviogenex”. Jovica Stanisic “condannato per crimini di guerra dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, svolgeva un ruolo chiave in questo servizio”. Stando all’esposto, tra questi “turisti-cecchini” c’erano anche appassionati di caccia e armi. E la “copertura dell’attività venatoria serviva così per portare, senza sospetti, i gruppi a destinazione a Belgrado”.

La testimonianza nel processo a Mladic

“Ho assistito in più di un’occasione a persone che non mi sembravano persone del posto per il loro abbigliamento, per le armi che portavano, per il modo in cui venivano trattati, gestiti, cioè guidati dai locali. Ho visto questo a Sarajevo in diverse occasioni” ha testimoniato nel 2007 John Jordan, un ex vigile del fuoco statunitense che era volontario nella città assediata di Sarajevo negli anni ’90, davanti alla Corte internazionale dell’Aja nel processo al comandante dell’esercito serbo-bosniaco Ratko Mladic. “Era chiaramente evidente – si legge ancora nella testimonianza di 18 anni fa – che la persona guidata da uomini che conoscevano bene il terreno era completamente estranea al terreno, e il suo modo di vestire e le armi che portava con sé mi hanno fatto pensare che fossero tiratori turistici”. E ancora: “Quando un ragazzo si presenta con un’arma che sembra più adatta alla caccia al cinghiale nella Foresta Nera, che al combattimento urbano nei Balcani…. Quando lo si vede maneggiare e si capisce che è un novizio…”.

da qui

 

Turisti dell’orrore. La storia che l’Italia ha nascosto sotto il tappeto – Mario Sommella

Ci sono vicende che non appartengono solo alla cronaca giudiziaria, ma alla tenuta etica di un Paese. L’inchiesta aperta dalla Procura di Milano sui cosiddetti “cecchini del weekend” che, negli anni dell’assedio di Sarajevo, avrebbero pagato per andare a sparare sui civili è una di queste. Non riguarda soltanto la guerra nei Balcani, né soltanto i paramilitari serbo-bosniaci, né soltanto le oltre 11 mila vittime della città assediata tra il 1992 e il 1996: riguarda direttamente l’Italia. Se le ricostruzioni saranno confermate, significa che da città italiane partivano uomini facoltosi, ben inseriti, con reputazione pubblica, qualcuno legato al mondo dell’imprenditoria e delle cliniche private, altri appassionati di armi, che nel fine settimana raggiungevano le colline sopra Sarajevo per partecipare alla caccia all’uomo e poi rientravano nella normalità delle loro vite. Come se nulla fosse accaduto.

Il punto di snodo è l’esposto dello scrittore milanese Ezio Gavazzeni, classe 1959, che ha raccolto documenti, testimonianze e corrispondenze con una fonte dell’intelligence bosniaca dell’epoca. Gavazzeni ha spiegato di aver seguito questa vicenda per pura ricerca di verità, dopo aver letto, già negli anni Novanta, gli articoli che accennavano al fenomeno dei “tiratori turistici” e, più di recente, dopo aver visto il documentario “Sarajevo Safari” del regista sloveno Miran Zupanič, che nel 2022 ha riportato alla luce il tema degli stranieri paganti accompagnati dai serbi a sparare sui civili. Da lì è partita una ricostruzione più sistematica: richieste a fonti bosniache e italiane, contatti con ex agenti, recupero di materiali che hanno portato alla presentazione di un esposto di 17 pagine, solo una parte di ciò che – a detta dello scrittore – è effettivamente noto.

Il quadro che emerge è ancora più grave perché mostra una dimensione sociale precisa. Non si trattava soltanto di ricchi annoiati. Molti di quei “clienti” provenivano da ambienti dove si incrociano il culto dell’arma, il collezionismo militare, la frequentazione di poligoni e fiere di militaria, e segmenti dell’estrema destra europea di quegli anni, spesso simpatetica verso la causa serbo-bosniaca. Una zona grigia che univa disponibilità economica, nostalgia paramilitare, feticismo bellico e relazioni nei Balcani. La guerra di Bosnia, con la sua opacità e con la presenza di strutture militari e di intelligence serbe, venne percepita da questi soggetti come il luogo dove “giocare alla guerra vera”, al riparo da conseguenze immediate. La copertura venatoria – gruppi che partivano dall’Italia con la scusa della caccia – serviva proprio a questo: far passare senza sospetti persone che poi venivano accompagnate in quota per sparare sui civili. Un meccanismo che, nelle testimonianze raccolte, è attribuito anche alla protezione e all’organizzazione dei servizi di sicurezza serbi.

Secondo quanto riportato dalla fonte bosniaca sentita da Gavazzeni, alla fine del 1993 l’intelligence di Sarajevo aveva avvisato la locale sezione del Sismi italiano della presenza di almeno cinque italiani sulle colline attorno alla città, accompagnati per sparare sui civili. Non solo: la stessa fonte sostiene che i servizi bosniaci condivisero nel 1994 con il Sismi informazioni più ampie su “gruppi turistici di cecchini-cacciatori” che partivano da Trieste. La risposta italiana, sempre secondo tale ricostruzione, fu che la partenza di questi safari della morte era stata individuata e interrotta. Se così è stato, deve esistere un faldone nei nostri archivi di intelligence. Il fatto che a distanza di trent’anni quel faldone non sia ancora emerso è, di per sé, un fatto grave.

Un ulteriore elemento di ferocia è il cosiddetto “tariffario dell’orrore”: nelle deposizioni e nelle segnalazioni riportate all’autorità giudiziaria si parla di prezzi diversi per tipologia di vittima. I bambini “costavano” di più, gli uomini in divisa erano ritenuti bersagli migliori, le donne stavano più in basso nella scala e gli anziani potevano essere uccisi gratis. È la mercificazione totale della vita umana, la trasformazione di una capitale europea assediata in un parco macabro dove chi ha denaro può comprare il diritto di togliere la vita. Tutto questo mentre l’Europa occidentale era impegnata nei suoi percorsi di integrazione e mentre l’Italia contribuiva alle missioni internazionali in Bosnia.

L’indagine della Procura di Milano, coordinata dal procuratore Marcello Viola e affidata al pm Alessandro Gobbis, ha deciso di acquisire gli atti del Tribunale penale internazionale dell’Aia per l’ex Jugoslavia proprio per incrociare quanto emerso in sede bosniaca e internazionale con i nuovi elementi italiani. Tra i testi che saranno ascoltati ci sarà anche l’ex agente dell’intelligence bosniaca indicato nell’esposto. La presenza accanto a Gavazzeni degli avvocati Nicola Brigida e, soprattutto, dell’ex giudice milanese Guido Salvini – magistrato noto per le indagini sulle stragi e sui depistaggi – è un ulteriore segnale della solidità con cui si intende sostenere l’impianto accusatorio.

Il profilo dei presunti autori di questi “weekend delittuosi” è ciò che rende la vicenda così disturbante: persone con reputazione, con posizione sociale, con attività economiche floride, in alcuni casi legate a settori professionali di alto livello, che dopo aver sparato sui civili rientravano in Italia e continuavano a essere considerate cittadini rispettabili. La società che li circondava non vedeva, o faceva finta di non vedere. È la forma più subdola dell’indifferenza del male: l’idea di poter fare Dio per qualche ora e poi rientrare nella comunità senza pagare alcun prezzo.

Da questa storia emerge anche un tassello che spesso viene rimosso: l’incrocio tra violenza politica della destra radicale europea post-Guerra fredda e conflitto balcanico. In quegli anni non mancavano correnti della destra neofascista e nazionalista che guardavano con simpatia ai serbo-bosniaci, costruendo reti, viaggi, contatti e circoli di sostegno. In quelle stesse reti circolavano collezionisti d’armi, ex militari, nostalgici delle formazioni paramilitari, persone abituate a muoversi in ambienti di frontiera. È plausibile che proprio da lì siano passati alcuni dei nomi che oggi si cercano. Non è dunque un episodio isolato, ma il prodotto di un humus culturale e politico che ha tollerato l’idea della guerra come “esperienza da vivere”.

In questo quadro, la posizione delle autorità bosniache è netta: il console bosniaco a Milano ha assicurato piena collaborazione e ha parlato di urgenza nel chiudere i conti con un episodio “così crudele”. È la conferma che la memoria di Sarajevo non si è spenta. La città che ha conosciuto il fuoco dei cecchini ogni giorno non può accettare che chi ha partecipato a quell’assedio per divertimento resti senza nome e senza pena.

Resta infine il tema più attuale: se una tale forma di “turismo di guerra” è stata possibile negli anni Novanta in Europa, può esserlo anche oggi in altri teatri di conflitto. Esistono denaro, contatti, compagnie di sicurezza, tratte militari coperte; esiste un mercato globale dell’arma e dell’addestramento; esistono, soprattutto, persone disposte a pagare per la violenza. L’unico modo per spezzare questa catena è dimostrare che il tempo non cancella la responsabilità e che l’impunità non è garantita neppure dopo trent’anni. Individuare, processare e condannare chi ha pagato per uccidere civili inermi non è un atto simbolico: è la condizione minima perché una società europea possa ancora chiamarsi tale. Chi ha trasformato Sarajevo in un tiro a segno deve rispondere davanti alla giustizia e deve farlo con le pene più severe previste dall’ordinamento, senza attenuanti e senza indulgenze. La memoria delle vittime e la dignità del Paese lo esigono.

da qui

 

QUI un video in cui si vede sulle colline di Sarajevo, in qualità di cecchino, l'osannato (e merdoso) Limonov

 


un film italiano del 1997, "Il carniere", di Maurizio Zaccaro, del 1997, con Antonio Catania, Leo Gullotta e Massimo Ghini, una gita spensierata, una battuta di caccia, e poi si cade nell'incubo, mi era piaciuto molto, forse solo a me, si può vedere qui:

 

  

un video di Al Jazeera sugli omicidi dei turista della morte (con sottotitoli in inglese)

 

 

“Sarajevo safari”, tiro al bersaglio sulla città sotto assedio - Serena Prenassi 

Un film documentario si inserisce nelle ferite della memoria della Sarajevo assediata e porta alla luce un capitolo brutale e poco noto della guerra in Bosnia. Con testimonianze e filmati dell’epoca, il regista Milan Zupanič cerca di ricostruire le vicende dei “safari” su Sarajevo e propone interrogativi non solo etici, ma anche di natura introspettiva e psicologica.

Sarajevo ha ospitato dal 9 al 13 settembre di quest’anno la rassegna cinematografica Al Jazeera Balkans Documentary Film Festival. Il concorso presenta e promuove autori e documentari che si occupano di temi sociali, in particolare valori umani universali come il coraggio, la giustizia e la tolleranza. Molti i film in concorso sulla Bosnia, il paese balcanico più rappresentato al festival.

Uno dei documentari che ha maggiormente attirato l’attenzione dell’opinione pubblica è Sarajevo Safari del regista sloveno Miran Zupanič, prodotto dalla slovena Arsmedia. Presentato in première il 10 settembre, questo documentario di 75 minuti affronta uno degli aspetti tragici meno conosciuti e documentati della guerra degli anni Novanta.

Mentre può sembrare che, a distanza ormai di oltre venticinque anni dalla fine del conflitto, ci sia ancora poco da raccontare, o poca spinta e volontà di farlo, il regista ha voluto cercare di far luce su un’attività cruenta e senza scrupoli che avveniva durante il lungo ed estenuante assedio della città tra il 1992 e il 1995: facoltosi uomini stranieri, probabilmente annoiati dagli ordinari passatempi e alla ricerca di esperienze forti e cariche di adrenalina, avrebbero pagato ingenti somme di denaro per unirsi alle truppe serbo-bosniache lungo le postazioni ai margini di Sarajevo, sulle montagne che circondano la città, per darsi a una barbara attività venatoria: la caccia all’essere umano. Zupanič, attraverso le informazioni fornite da alcuni testimoni, cerca di ricostruire questa vicenda dal punto di vista fattuale ma non solo, anche psicologico e filosofico.

Le testimonianze sui safari

Il testimone chiave, che ha preferito rimanere anonimo e proteggere la sua identità, ha avuto una formazione di tipo militare negli anni Ottanta e ha lavorato nel settore dell’intelligence fino alla dissoluzione della Jugoslavia. Rimasto senza occupazione, ha ricevuto una proposta da un’agenzia americana con l’incarico di girare per il paese in guerra, protetto da un accredito stampa, e di acquisire informazioni, tastando il polso delle fazioni in conflitto. È durante questo periodo che viene a conoscenza di veri e propri “safari” che avvenivano a Sarajevo, organizzati in particolare nell’area di Grbavica. Uomini venuti da lontano (la cui provenienza resta da accertare, alcune fonti parlano di americani, canadesi e russi, altre di italiani), disposti a pagare grosse cifre per giocare alla guerra, per fare i cecchini per un giorno e sparare sulla città.

Oltre alla testimonianza, Zupanič si serve anche di filmati girati e recuperati da Božo Zadravec, cameraman e direttore della fotografia, e da Franci Zajc, produttore del film, che all’epoca erano giornalisti di guerra proprio nella Sarajevo sotto attacco. Sono state raccolte anche altre testimonianze di civili sarajevesi che sono stati colpiti o che hanno perso dei famigliari a causa del colpo ignobile di un cecchino. Un altro ex ufficiale dell’intelligence militare e analista parla apertamente davanti alla telecamera e corrobora la versione del narratore e collega anonimo con le proprie scoperte, ottenute da un soldato nemico catturato. Questi ha riferito di aver assistito in prima persona al trasporto di uno dei “cacciatori”. Non era certamente facile far arrivare dei civili sulle postazioni militari serbo-bosniache, alcune fonti rivelano che i trasporti avvenissero via terra, altre con elicotteri. Le località di riferimento per questi spostamenti erano prima Belgrado e poi Pale, a una manciata di chilometri da Sarajevo. Con molta probabilità, la modalità e le condizioni di sicurezza del trasferimento verso le zone da cui sparare dipendevano da quanto il cliente fosse disposto a pagare: più potente e più ricco, maggiore era il comfort durante il viaggio.

Il lavoro svolto dal regista e dai suoi collaboratori ha contribuito a togliere alcuni strati di oblio da queste brutali vicende, tuttavia resta ancora molto da sapere e da verificare. Senza dubbio, una lunga filiera di figure ed entità contribuiva a rendere possibile le spedizioni di caccia all’uomo.

I bastardi di Sarajevo di Luca Leone

Negli lunghi anni di silenzio e omertà dopo la fine della guerra, alcune voci coraggiose avevano già tentato di fare chiarezza su questi fatti, sia tra le vittime dei cecchini sia tra i giornalisti che si trovavano in città durante l’assedio. Lo scrittore e giornalista Luca Leone, co-fondatore di Infinito Edizioni, è tra i primi a parlare delle spedizioni intorno a Sarajevo. Nel 2014, e in seconda edizione nel 2018, pubblica I bastardi di Sarajevo. In forma di romanzo, dà voce a personaggi di diversa natura, da politici corrotti che tengono in pugno la città, spregiudicati carnefici, giovani che sognano di liberare la città, vittime avvolte nel silenzio, e ancora certi turisti stranieri che vogliono giocare alla guerra per trascorrere un weekend alternativo: “Stranieri da tutta Europa – c’erano anche italiani – pagavano ai checkpoint gestiti dai paramilitari serbi sia in Croazia sia in Bosnia per poi passare un fine settimana a sparare sui civili sopra Sarajevo”, afferma l’autore in un’intervista all’Ansa.

Le parole del regista di Sarajevo Safari

Zupanič ha voluto mostrare immagini e testimonianze, volti e luoghi dove questa tragedia si consumava; ma ha anche tentato di sviscerare gli aspetti più introspettivi e le sfumature psicologiche. Nell’intervista di presentazione del film risponde alle domande di Al Jazeera Balkans, mettendo in evidenza che è necessario soffermarsi ad indagare i profili psicologici di uomini che rischiano anche la propria vita per entrare in una zona di guerra e pagano grandi importi di denaro per trovare diletto sparando su civili inermi e sconosciuti. Riportiamo qui uno stralcio della conversazione con il regista che permette di comprendere meglio le intenzioni del regista e le finalità del suo lavoro documentaristico:

Quando hai incontrato per la prima volta questo fenomeno?

Il mio produttore Franci Zajc mi ha parlato per la prima volta del “safari” nel febbraio 2019 e quella storia è stata assolutamente scioccante per me. Abbiamo girato in Bosnia ed Erzegovina con Franci e il cameraman Božo Zadravac già all’inizio del 1993. […] In effetti, Franci è il maggior responsabile di quel film, perché ha cercato per anni e poi ha trovato persone pronte a parlare del safari davanti alla telecamera. Purtroppo c’è stato anche chi prima ha acconsentito alla registrazione, ma poi ha cambiato idea. La paura è ancora presente dopo quasi trent’anni.

In che misura le autorità di Pale hanno partecipato all’organizzazione del “safari” di Sarajevo?

Secondo le testimonianze, alcuni membri dell’Esercito della RS e dell’Esercito della Jugoslavia hanno partecipato all’organizzazione del “safari”. […] Non ho informazioni sul ruolo delle autorità a Pale. Devo qui sottolineare che la nostra intenzione non era quella di identificare persone specifiche, perché, vista la delicatezza dell’argomento, quelle informazioni non erano nemmeno a nostra disposizione. […]

Qual era il profilo delle persone che vennero per uccidere i cittadini di Sarajevo: ricchi, politicamente influenti, psicopatici, avventurieri?

Il nostro film solleva più domande di quante ne risponda. È certo che in quel laboratorio del male che chiamiamo globo c’è un tipo speciale di persone pronte a sparare a chiunque si imbatta nei loro mirini senza alcun motivo esterno: un bambino, una madre, qualsiasi uomo o donna anonimo. Quali impulsi interni li portano a farlo? Che piacere offre loro? Che tipo di potere hanno che qualcuno lo organizza per loro? Da dove vengono e dove tornano?

Ci sono innumerevoli domande a cui non ho risposte. Ma non è tutto: i servizi segreti stranieri hanno seguito questo fenomeno e sembra che nessuno della comunità internazionale sia intervenuto per fermare questo “safari”. Perché no? Questa è la domanda più importante per me.

[…] Lasciami dire un’altra cosa. Ho fatto molti film nella mia carriera e nessuno è stato così oscuro come questo. Così nero e così pessimista. Ma, d’altra parte, mi sembra estremamente importante che tutti noi che abbiamo questa possibilità – diffondiamo la conoscenza della fenomenologia del male che è nell’essere umano. Per sapere come contrastare quel male. Ma non con il proprio male, ma con il bene individuale e comune.

Il male non ha mai un volto solo. Come sono questi uomini nella loro vita quotidiana? Hanno famiglia, figli? Chi scelgono di essere, quando nessuno dei loro cari li vede? Avventurieri della domenica, vogliono prendere parte a un gioco pericoloso, indossano abiti da soldato o da cacciatore, forse si danno arie sulle loro abilità venatorie, o forse hanno bisogno di bere qualcosa di forte prima di accingersi a puntare le armi sulla città assediata. Nei loro mirini, prede umane. I cittadini inerti di Sarajevo, come animali in fuga, si spostano curvi sperando di non essere visti, correndo a zig zag nel tentativo di confondere il cecchino. Ma ha speso molti soldi l’uomo venuto da lontano, e non vuole perdere l’occasione, non vuole sbagliare. Il prezzo sarà ancora più alto, se riesce ad abbattere un bambino. Che scarica di adrenalina, quando ricapitano opportunità come queste? Ci vuole una guerra complicata, i cui fronti si confondono, e una città sotto assedio, da cui non si entra e non si esce per lunghi anni. Non sono cose da tutti i giorni. O forse sì.

da qui

 

Nessun commento:

Posta un commento