Eyal Sivan è un documentarista israeliano che ormai da molto tempo vive e lavora in Francia. Molti dei suoi lavori (Itzkor, schiavi della memoria, 1990, Route 181, frammenti di un viaggio in Palestina-Israele – con Michel Kleifi – 2003, La Meccanica dell’Arancia, 2009) hanno segnato in modo importante la chiave interpretativa degli aspetti meno indagati e meno noti del cosiddetto conflitto israelo-palestinese che ha per conseguenza determinato la “questione palestinese”.
Dopo il 7 ottobre 2023 e l’aggressione
genocidaria di Israele contro la Striscia di Gaza, fin da subito Eyal Sivan si
è impegnato non solo nella solidarietà con i palestinesi, ma anche smascherando
sistematicamente gli alibi che la propaganda israeliana – e suoi megafoni di
quella occidentale – ha sparso a piene mani per negare il genocidio, di fatto
addossandone la responsabilità alle vittime.
L’analisi senza sconti o scorciatoie della
società israeliana che ci offre in questa conferenza è di fondamentale
importanza perché anche il movimento internazionale a sostegno del popolo
palestinese per un verso non smarrisca la strada e per un altro non cada
vittima esso stesso di “vittorie” che invece tali non sono. Tenendo presente
che l’arma più efficace nelle lotte anticoloniali è sempre la reazione delle
società degli stessi Paesi colonialistici e in questo Israele non fa eccezione.
Quando mi hanno invitato a tenere questa
conferenza il compito più difficile era trovare un titolo, perché, come per
molti di voi immagino, è difficile parlare di fronte a questa ecatombe, questo
orrore che stiamo vivendo. Soprattutto perché nulla cambia ed ogni giorno è
peggio.
Quindi ho scelto un titolo che
corrisponde a due domande che probabilmente ci poniamo spesso: qual è il futuro
in tutto ciò che accade e cosa possiamo fare. Nasce da qui il titolo: quale
futuro quale solidarietà per la Palestina,
Vi avviso in anticipo che non farò della
geopolitica e grandi analisi dei rapporti di forza, ecc. Penso che di questi
argomenti è meglio ne parlino altri più indicati a farlo; inoltre, penso che
non serva a granché.
Poi non sono uno storico anche se sono
stato invitato a tenere dei corsi in un dipartimento di storia presso il Centro
europeo di studi sulla Palestina all’università di Exter e molti miei film
trattano di questioni storiche.
Vorrei evitare di entrare nella
questione, perché la ritengo un anacronismo, se quello che stiamo vedendo oggi
è inscritto da qualche parte nel passato, ossia nelle origini, nel DNA,
nell’ideologia.
Sono un documentarista, quindi ho a che
fare con il reale, certo ci sono delle messe in scena, ma il materiale è la
realtà.
Per rispondere alla prima questione:
quale futuro, non è necessario essere un indovino per immaginarlo. Per questo
vi invito a guardare non alla vittima, i palestinesi, ma ai carnefici, gli
israeliani. Ossia alla società da cui provengo, quello Stato di cui ho il
passaporto.
Quando penso alla società israeliana, mi
chiedo cosa pensano, al di là della questione dell’orrore, i soldati.
Ma i soldati sono legati alla società da
cui provengono e l’esercito israeliano non è a ferma volontaria, quindi è più
un esercito che ha un popolo che un popolo che ha un esercito.
Salto direttamente alle conclusioni: non
penso che ci sia nessuna possibilità di una opposizione e una rottura
all’interno della società israeliana. Da qui arriviamo alla seconda parte: cosa
possiamo fare? Tenendo presente che non c’è alcuna volontà, desiderio e speranza
nella società israeliana che cambi qualcosa.
Voglio soffermarmi sull’idea del
“qualcosa cambi” e torno al 6 ottobre 2023. Quel giorno se avessimo fatto una
riunione come questa, ci saremmo ritrovati in venti: perché la questione della
Palestina non esisteva più, nessuno se ne interessava o manifestava. Questa,
dal punto di vista della società israeliana, era la pace. Un momento in cui era
possibile fingere agevolmente che la questione palestinese non esisteva più,
sono calmi, nel loro ghetto di Gaza, dietro il muro e i checkpoint in Cisgiordania:
non ci disturbano. E se ne parla dopo il 7 ottobre, questo è il terribile
paradosso, non perché sono morti dei palestinesi ma degli israeliani. Partendo
da questo si è ricominciato a parlare della questione palestinese.
Questo terribile paradosso ci interpella.
Questa situazione che perdura da tempo è stata resa possibile perché è stata
normalizzata dagli israeliani e dai loro amici e alleati. Si è quindi resa
normale una situazione terrificante: occupazione accelerata, arresti arbitrari,
uccisioni di persone, tortura, distruzione di infrastrutture, divieto di
associazione e molto altro.
Gaza sotto blocco.
Il risveglio dopo il 7 ottobre perché
sono morti degli israeliani mostra bene il loro valore mediatico, politico ed
emotivo. Infatti, questi fanno i titoli, non i morti palestinesi.
Si sottolinea l’estrema violenza
dell’attacco del 7 ottobre e quello che la simbolizza di più è ciò che è
accaduto al festival organizzato a ridosso della barriera con Gaza. Coincidenza
vuole che io abbia insegnato anni fa in un college israeliano, che si chiama
Shapir, ad appena due chilometri da quella barriera e già all’epoca gli
studenti, nel 2012 e nel 2013, facevano feste di quel genere e questo
dimostrava il sentimento profondo di sicurezza e di pace degli israeliani. “Nulla
ci può accadere”, anche se la musica della nostra festa arriva nelle case al di
là della barriera Beit Hanun e altre città di Gaza, oggi tutte totalmente rase
al suolo, che non esistono più sulla carta geografica.
Il 7 ottobre è stato prima di tutto,
dopo le vittime, un attacco alla sicurezza israeliana, il ritorno dei profughi:
arrivati dal nulla. Cosa è accaduto? Perché? Tutto andava bene…vivevamo bene,
facevamo la festa, la borsa di Tel Aviv esplodeva… Oggi comprare una casa a Tel
Aviv è più caro che a Parigi. Israele è un Paese carissimo. Secondo i sondaggi
internazionali Israele è il terzo Paese dove la gente è più felice.
È stato chiesto, per un sondaggio agli
israeliani come vedono il loro futuro economico, se peggiore, uguale o migliore
e per la schiacciante maggioranza, il settanta per cento, la risposta è stata:
migliore.
La società israeliana ha subito un colpo
formidabile riguardo al suo senso di sicurezza; improvvisamente non si poteva
più fingere che la questione palestinese non esistesse, malgrado quattro anni
di manifestazioni gigantesche contro il governo Netanyahu ma non contro
l’occupazione o la colonizzazione: contro la riforma giudiziaria in quanto
attacco a quella che i manifestanti chiamavano “democrazia” …
Democrazia in un Paese nel quale il
cinquanta per cento dei governati non godono di nessun diritto civile. Questo si chiama apartheid.
Tuttavia si lottava per la democrazia,
certo quella che riguarda una parte della popolazione solo di poco
maggioritaria che sono gli ebrei israeliani.
Questa è l’opposizione.
Per quattro anni si manifesta contro
l’attacco alla democrazia, ma la questione palestinese non esisteva. Quindi si
manifestava per preservare questo privilegio che è l’apartheid, una
discriminazione legalizzata e praticata in quelli che vengono chiamati
“territori occupati”.
Quindi è una situazione che ha l’aria
del temporaneo in cui invece è stata creata una sequenza temporale definita “il
provvisorio permanente”, cosa che permette da un lato di legittimare a priori e
a posteriori di giustificare il fatto che “per il momento” (i palestinesi) non
hanno diritti. Nonché giustifica il fatto che l’accaparramento di terre, la
colonizzazione, la rapina, sono cose “provvisorie” …da sessant’anni. Quindi il
provvisorio diventa perenne. Infatti, tra la proclamazione dello Stato di
Israele, la Nakba, e la conquista dei Territori Occupati sono passati solo
diciassette anni, durante i quali, fino al 1965/66, i palestinesi rimasti erano
soggetti a un regime militare.
La pratica del regime militare imposto
su una parte della popolazione del Paese e dei privilegi per l’altra, non è
nata con l’occupazione del 1967, ma con la creazione stessa dello Stato, che la
inscrive nella sua stessa definizione di Stato ebraico e democratico. Alcuni
diranno che c’è autonomia tra “ebraico” e “democratico”. È come se dicessimo
che uno Stato è “maschile” e “democratico” e legiferasse in quanto tale.
Questo è il paradosso israeliano: vivono
in una democrazia esattamente come pensavano i sudafricani bianchi. Come una sorta
di democrazia a due cerchi, che però non si incrociano. Questa è la differenza
con la democrazia vera.
Di fronte a questa visione di se stessi,
sistematicamente ribadita dai mass media, dalle leggi, ecc., la questione si
riduce a come non vedere l’aberrazione della discriminazione, dell’apartheid…i
palestinesi sono lo specchio di questo paradosso: è l’altro. Quindi si fa di
tutto per non vederlo perché non rinvii l’immagine di ciò che io sono.
Tutto questo inizia, sicuramente nella
fase che stiamo vivendo, paradossalmente con il cosiddetto processo di pace che
porta all’inscrizione fisica della separazione tra due comunità presentata come
un progresso.
La separazione che si materializza, per
esempio, con il Muro che si vede solo da un lato, ossia dalla Cisgiordania,
mentre dal lato israeliano lo stesso Muro non esiste perché nascosto da
ornamenti floreali che lo nascondano complemente.
Questa è la situazione di questa società
che improvvisamente riceve un colpo in faccia: questo è il 7 ottobre.
Poi c’è l’altra faccia del 7 ottobre: la
terrificante sconfitta di quella che è considerata la quarta potenza militare a
livello mondiale e la più forte della regione, capace di sapere cosa pensano i
palestinesi prima che loro stessi lo pensino, che conosce dove si trova un
qualunque dirigente (palestinese, NDT). Una società in cui i sistemi di
allarme, di spionaggio con droni e alta tecnologia, che costano miliardi di
dollari, sono stati polverizzati in una sequenza storica: la guerra trai mezzi
senza tecnologia e l’high-tech. Ciò che ha salvato alcuni israeliani è che la
serratura della loro porta chiudeva bene. Dall’altra parte si è potuto
polverizzare il sistema di sorveglianza israeliana utilizzando i motori delle
macchinine per bambini trasformandoli in piccole bombe…poi quarantott’ore di
caos totale: non si riesce a mobilitare le unità militari che a volte non
trovano le chiavi dei posti dove ci sono le armi, gli elicotteri che sparano su
chiunque si muova. L’esercito israeliano: invincibile.
Certo, si può ironizzare, ma questa è
una sconfitta fondamentale dell’idea stessa della costituzione (non in senso
giuridico) di questo Stato.
Questa disfatta è quella del movimento
che ha costruito questo Stato e di chi lo sostiene come risposta al genocidio
ebraico in Europa, quello che alcuni chiamano Shoah (spiegherò dopo perché io
non uso questo termine), che è stato possibile perché gli ebrei europei non
avevano mezzi di autodifesa. Quindi bisognava dare loro questi mezzi, fondando
uno Stato che avrà un esercito, quello degli ebrei, che sarà lo scudo per
prevenire un altro giudeocidio.
Che il 7 ottobre rappresenti la
sconfitta dello Stato e del movimento sionista che lo ha fondato ce lo hanno
detto loro stessi e i loro amici fin dal giorno dopo parlando del 7 ottobre come
del giorno più sanguinoso dopo la Shoah. Una specie di “mini Shoah”, ma questo
gli si è rivoltato contro perché lo Stato ha perso legittimità o comunque agli
occhi dei suoi cittadini lo Stato non può più difendere la sua stessa ragion
d’essere. Il paradosso più straordinario è che il posto più pericoloso per gli
ebrei in tutto il mondo è nello “Stato ebraico”. Questo ha innescato un
sentimento di sfiducia terribile rispetto all’educazione che abbiamo ricevuto,
anche perché nella storia di Israele non c’era stata mai una battaglia
all’interno delle sue frontiere riconosciute dal diritto internazionale. In
più, contro una popolazione e una resistenza armata su cui dall’inizio
dell’occupazione sono state scritte pagine e pagine di definizioni spregiative:
animali, bestiali, vermi, ecc. Contemporaneamente, questi riescono a sfidare
l’esercito e attaccare la ragion d’essere stessa dello Stato.
Una parte della popolazione si fa presto
i conti e dopo il 7 ottobre decine di migliaia di israeliani abbandonano il Paese,
che non è poco su un totale di cinque milioni e mezzo di ebrei israeliani.
L’altra forma di sfiducia è il rafforzamento della visione apocalittica molto
presente nel discorso pubblico israeliano, innanzitutto con il mito di Masada
la città assediata dove, durante l’occupazione dell’impero romano della
Palestina, quando di fronte all’arrivo delle truppe si sceglie il suicidio
collettivo. Lo slogan è: “Masada non cadrà una seconda volta”.
Il grande programma nucleare israeliano,
costruito grazie alla Francia, si chiama “Opzione Sansone”, questo personaggio
catturato dai filistei, ormai cieco e legato alle colonne del Tempio, decide,
con le ultime forze, di far crollare il Tempio suicidandosi insieme ai
filistei.
Quindi, nel discorso israeliano è
inserita l’autodistruzione violenta, ossia una parte degli ebrei israeliani si
rifugiano nella visione apocalittica. Si attacca l’Iran, lo Yemen, ecc., tutto
il mondo è antisemita, non ci importa se siamo isolati…infatti la settimana
scorsa il primo ministro ha detto: “saremo Sparta”. E lui sa di cosa parla e
condanna Israele a trentatré anni di isolamento. Su questa scia c’è chi vede
nel 7 ottobre un segno di redenzione come una estrema legittimazione
dell’eliminazione fisica e totale del nemico. Questo argomento, peraltro, non è
stato usato solo dai religiosi, ma da tutti i leader politici israeliani.
Questa tendenza è rappresentata nel
governo, da Smotrich (ministro dell’economia) e Ben Gvir (ministro
dell’interno), poi c’è anche il vicepresidente del parlamento e altri.
In mezzo c’è la società israeliana che
vorrebbe che tutto questo finisse per non fare i riservisti all’infinito e
inoltre si rischia di perdere gli ostaggi che è l’altra cosa che interessa.
Alla società israeliana non interessano
le vittime, rispondendo in modo immediato a qualunque questione: “è Hamas che
usa la popolazione come scudo”, “sono le organizzazioni internazionali che
impediscono l’ingresso del cibo”, ecc. Tutti argomenti molto conosciuti perché
ripetuti come un ritornello su tutti i mass media.
Tuttavia questa società ha un problema:
non vuole essere riservista militare o collaborare con l’esercito…e questo è il
problema di quella che viene chiamata l’opposizione israeliana. La quale
malgrado rimproveri a Netanyahu il rifiuto delle proposte per la liberazione
degli ostaggi, quando si tratta di assumere una posizione attiva, pur potendolo
fare non lo fa.
Da qui nasce la domanda: cosa si può
fare in queste condizioni?
L’unica via è spingere una parte della
società israeliana a non avere scelta. Spingerla a fare delle azioni perché
tutto questo finisca. Ossia: disobbedire, rifiutare, scioperare…qualunque cosa
per fermare la guerra.
Fermare quello che anche loro chiamano
genocidio.
La solidarietà non è solo quella con le
vittime palestinesi, ma deve essere anche con tutti coloro che parlano in nome
del diritto internazionale. La solidarietà è composta da diversi elementi, il
primo dei quali, chiaramente, è il soccorso delle vittime – è importante – ,
ecc. , sono quindi importanti le pressioni delleorganizzazioni internazionali.
Un altro fattore è la consapevolezza che
l’aspetto politico è riassunto da quello umanitario. Sapendo che gli israeliani
hanno l’interesse a ridurre la questione palestinese a un caso umanitario. Per
questo motivo affamare la popolazione non ha il solo scopo di farli morire
(cosa che sarebbe anche poco efficace), ma soprattutto quello di cancellare la
questione palestinese come problema politico.
La distruzione dei campi di rifugiati in
Cisgiordania, sistematica dopo il 7 ottobre, spingendo gli abitanti verso le
periferie delle città. Quindi i rifugiati da politico diventano un problema di
quartieri di periferia.
Il terzo elemento è la parte
maggioritaria della società israeliana che non si mobilita, anzi partecipa
attivamente perché hanno dei privilegi da difendere.
Il più importante però sono le sanzioni
internazionali che in definitiva sono uno strumento banale nelle relazioni
internazionali. Ci sono circa trentasei Paesi sotto sanzioni o sotto embargo da
parte dell’Unione Europea. Ma le sanzioni contro Israele che potrebbero andare
dalle forniture di armi fino alla dipendenza economica (il settanta per cento
delle esportazioni israeliane va in Europa, non in America), non vengono mai
decise. Non le possiamo decidere né io né voi, ma si può chiederle.
Le sanzioni non sono una punizione, ma
la difesa del diritto internazionale. Ossia: oggi c’è un Paese che più di ogni
altro se ne frega del diritto internazionale e anzi da ordini agli altri e
questo va contro i nostri interessi, al di là della questione palestinese.
Perché se si dovesse prendere ad esempio il rapporto di Israele con il diritto
internazionale, per esempio, si potrebbe di dire buttiamo a mare Taiwan perché
Israele ha fatto altrettanto. Quindi, le sanzioni sono lo strumento per
difendere l’ultimo strumento rimasto, ma se queste tardano ad arrivare è
necessario scendere di livello.
Far sì che i cittadini stessi, la massa,
mettano in pratica le sanzioni. Certo, non penso che tra voi ci sia qualcuno
che compra dei droni dall’industria militare per controllare il proprio
giardino…e se c’è invito a non farlo.
Ma Israele ha bisogno di esportare i
propri avocado, ma noi possiamo non comprarli per il buon motivo che poi con
quei soldi viene comunque finanziata la guerra. Questo vale per molti settori e
l’effetto comincia a farsi sentire, ma bisogna rafforzare l’azione.
Più complicato è fare pressione su
coloro che collaborano col genocidio. Ma tuttavia, Microsoft oggi impedisce di
usare il cloud da parte dell’esercito israeliano, usato per immagazzinare
ottomila megabyte di conversazioni telefoniche dei palestinesi della
Cisgiordania e Gaza. Questo è successo grazie alle manifestazioni contro
Microsoft e perché dei lavoratori si sono rifiutati di collaborare e ha perso
contratti con piccole aziende che si sono rivolte ad altri, anche perché la
rappresentante speciale dell’ONU per i Territori Occupati ha pubblicato una
lista di grandi aziende che collaborano attivamente con il genocidio.
Ma c’è una questione più importante: la
normalizzazione delle relazioni culturali, universitarie e sportive con una
società che ne ha bisogno per rivendicarsi “normale” e allo stesso livello
degli altri.
Il boicottaggio in questi settori è
fondamentale perché tocca la classe più privilegiata degli israeliani, quelli
che hanno più da perdere.
Ostracizzare gli israeliani, poiché è
inutile attendersi che accada qualcosa all’interno, è necessaria una pressione
esterna perché i cittadini ebrei israeliani facciano il collegamento diretto
tra ciò che gli succede e non la politica del loro regime, ma delle loro
azioni. Per questo è importante che i soldati israeliani sappiano di essere
ricercati (per i crimini che commettono) da varie organizzazioni
internazionali, quando vanno all’estero o che, per esempio, vengano annullati i
concerti di cantanti israeliani nella regione e altrove. Perché questi artisti
devono essere messi di fronte ad una scelta: non possono cantare per l’esercito
e poi fare tournée come se niente fosse. Questo non può più essere normale.
Stessa cosa per il cinema e per il mondo
universitario.
In questi ambienti ci sono persone
formidabili, ma ai convegni non possono rappresentare le loro università, come
nel caso del Technion di Haifa che ha sviluppato i droni da combattimento.
Queste azioni sono efficaci quando diventano molte, perché l’idea di fondo è:
noi agiamo perché i governi non lo fanno. E a coloro che obiettano su queste
azioni, si risponderà che finché l’Unione Europea non sospenderà gli accordi
con Israele, lo faremo noi con i nostri atti.
Perché se c’è un film che è bellissimo e
molto critico sulla società israeliana, ma sono prodotti con denaro israeliano,
va boicottato. E all’autore va posta una domanda: perché se sei un dissidente
prendi i fondi dal ministero della cultura israeliano?
L’obiettivo è “de-normalizzare” Israele
per smascherare l’aspetto forse più perverso della situazione che stiamo
vivendo e che riguarda coloro che sono solidali con i palestinesi: il fatto che
riconoscere il genocidio in corso sia un grande successo e per questo ci si
consideri soddisfatti. Ciò comporta il pericolo che la lotta si fermi a questo.
Il riconoscimento del genocidio rischia
di soppiantare la lotta contro questo.
C’è un altro esempio: il riconoscimento
dello Stato palestinese. Ci sono organizzazioni che lo chiedono da anni, ma ora
che questo passo è stato fatto, cosa faranno dopo?
Il fatto è che anche il riconoscimento
della Palestina non ha cambiato nulla. Questo è il punto dell’articolazione
della solidarietà, perché occorre fare attenzione a vincere sul terreno della
retorica: l’obiettivo non è vincere su questo piano ma sui fatti concreti. Far
cambiare strada alla società israeliana è più importante del riconoscimento dello
Stato palestinese, perché è molto attenta a quello che fanno gli altri Paesi
nei suoi confronti. Ovviamente gli israeliani urleranno contro il
riconoscimento dello Stato di Palestina, infatti avete visto che per una
settimana si è parlato del riconoscimento e non del genocidio a Gaza.
Riguardo al futuro si può prevedere un
percorso apocalittico della società israeliana e non abbiamo ancora visto
tutto. Il problema più grave non è il primo ministro che rappresenta
l’interpretazione più autentica dei sentimenti di una gran parte della
popolazione, anche di coloro che sono all’opposizione e lo detestano come
persona e lo considerano molto corrotto, ma non si oppongono assolutamente alla
sua politica verso i palestinesi, compresa quella che mira a rendere la
Striscia di Gaza invivibile, e alla creazione di uno stato di guerra permanente
in tutta la regione. Tutto questo Netanyahu lo ha promesso fin dagli anni
ottanta nel suo libro contro il terrorismo in cui spiega che gli errori dello
Stato di Israele, fin dalla sua fondazione, sono stati, primo credere di poter
vivere in pace nella regione e, secondo, aver creato un esercito di difesa e
non di attacco.
Netanyahu e tutta una tendenza che va
dalle posizioni apocalittiche fino al centro sinistra, pensa che la pace non
sia assolutamente possibile e che non sia negli interessi di Israele. Questo
per delle ragioni puramente economiche, infatti quella israeliana è un’economia
di guerra.
Non è un caso che la prima industria
israeliana sia l’high-tech e rappresenta la privatizzazione di tutto un sistema
che ha al centro l’esercito. Infatti ci sono due grandi unità che sono
esclusivamente impegnate nella guerra cyber e fornisce l’ottanta per cento
dell’industria dell’alta tecnologia. I territori Occupati sono un grande
laboratorio della repressione, a questo è legata l’industria high-tech come la
filiera universitaria dell’ambito scientifico-tecnologico.
In questo senso, lo stato di guerra
permanente rende Israele un Paese interessante per l’industria militare statunitense
e non solo, perché se è vero che vende molto compra anche molto.
Israele ha però l’ossessione dei
palestinesi e finora a guardare alle reazioni quello che è stato fatto a Gaza
va bene. Sono stati destabilizzati Egitto e Giordania e non ci sono state
grandi reazioni, quindi si pensa ci si potrà sbarazzare dei palestinesi a danno
di questi Paesi senza troppi problemi.
Non posso prevedere il futuro, ma ilmodo
in cui agiscono i politici israeliani assomiglia a un sondaggio: si fa un
azione, per esempio, si uccidono tremila bambini e non accade nulla, quindi si
procede al passo successivo uccidendone diecimila; si bombarda ogni giorno il
libano? Stessa cosa…
L’altra possibilità è che il movimento
di solidarietà con i palestinesi riesca a isolare Israele in un modo tale da
rendere necessaria un’azione da parte degli israeliani.
La terza possibilità, la più pericolosa,
è appunto la normalizzazione di questa situazione che ha polverizzato il
diritto internazionale e in cui qualunque istituzione internazionale è bloccata
e non prende nessuna decisione. Tutto questo può portare allo sfinimento coloro
che si mobilitano contro Israele e anche a un sempre minor interesse mediatico.
In altri termini, un ritorno al 6 ottobre 2023.
In conclusione penso che oggi l’urgenza
si ponga non sulla questione della pace, ma sul fermare il genocidio a Gaza, la
pulizia etnica nel resto della Palestina e impedire la polverizzazione del diritto
internazionale.
Perché la conseguenza pericolosa è
continuare a considerare Israele un Paese democratico, malgrado le sue derive
genocidarie. Se ciò avverrà, bisognerà pensare a come definire la democrazia e
per questo motivo penso che tutti noi siamo in una bruttissima situazione.
(*) articolo e traduzione curati da RProject
§ La redazione di Rproject ringrazia Eyal Sivan per il consenso dato alla trascrizione, alla traduzione e all’adattamento per il pubblico italiano della conferenza del 25 settembre 2025, svoltasi a Aix en Provence, organizzata dal collettivo Pace e Giustizia in Medio Oriente, insieme alla Ligue fes Droits de l’Homme, sezione Pays en Provence e BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) Provence.
Nessun commento:
Posta un commento