Intervenendo alla Knesset lo scorso 13 ottobre, Donald Trump ha sostenuto che, grazie al suo piano di pace, «ora il mondo ama di nuovo Israele». Per poi aggiungere – con parole rivolte direttamente a Benjamin Netanyahu – «che se foste andati avanti con la guerra e le uccisioni non sarebbe stato lo stesso» (cioè, il mondo avrebbe continuato a odiarvi).
Naturalmente,
come spesso capita, anche in questa occasione il presidente degli Stati Uniti
ha sovrapposto i propri desideri alla realtà. Il mondo continua a essere
sgomento al cospetto della violenza scatenata, e ostentata, da Israele contro
gli inermi di Gaza (e, sempre più, anche della Cisgiordania); e nessun
credibile segnale mostra mutamenti nella ripulsa con cui l’opinione pubblica
mondiale continua – giustamente – a considerare Israele. È, tuttavia, significativo
il fatto che Trump abbia ritenuto di dover intervenire sulla reputazione dello
Stato ebraico, anche perché le sue parole non sono figlie di una
considerazione estemporanea. Secondo quanto riportato dal Financial
Times, già durante l’estate, il 31 luglio, il presidente statunitense aveva
toccato l’argomento in una conversazione privata intrattenuta con un influente
donatore della sua campagna elettorale, al quale aveva confessato: «il mio
popolo sta iniziando a odiare Israele». Ciò induce due considerazioni.
La prima
considerazione è che dalla guerra dell’informazione Israele è uscito sconfitto,
a dispetto delle enormi risorse economiche profuse in propaganda e della
pletora di media, giornalisti e influencer assoldati al suo
servizio. Due anni
di violenza bellica contro i civili, spietata al punto da renderla
genocidaria, hanno alienato allo Stato ebraico molte delle simpatie di
cui tradizionalmente godeva, unitamente a quelle acquisite all’indomani
dell’attacco terroristico del 7 ottobre 2023. Decenni d’incessante lavorio
sull’inquadramento ideologico e sullo sviluppo storico del conflitto
israelo-palestinese sono finiti in cenere. Feticci un tempo inscalfibili – come
quelli di «unica democrazia del Medio Oriente», «minaccia esistenziale al
diritto all’esistenza di Israele», «esercito più morale del mondo» – suonano
oggi ridicoli; così come ridicole suonano le parole un tempo proprie del
linguaggio dominante – «vittime collaterali», «territori contesi», «esodo dei
palestinesi», «guerra difensiva», «civili usati come scudi umani» –, che oggi
screditano chi ancora osa pronunciarle. Il vergognoso «definisci bambino»
proferito durante un dibattito televisivo dal presidente dell’associazione
Amici di Israele, Eyal Mizrahi, è divenuto il simbolo di una propaganda così
smaccata da farsi caricaturale. E persino il solitamente compassato (nei modi)
Paolo Mieli ha perso la testa quando, non avendo argomenti da spendere, si è
ridotto a dileggiare pubblicamente per il suo aspetto fisico la studiosa
palestinese residente in Italia Souzan Fatayer, sulla base del cortocircuito
mentale per cui solo i fisicamente filiformi avrebbero facoltà di denunciare la
carestia provocata da Israele a Gaza. Ciò che più impressiona è che, nel
loro spregiudicato cinismo, Israele e i suoi sostenitori non hanno avuto
ritegno di gettare nel discredito persino l’antisemitismo. Chiunque abbia
mosso la più timida critica all’operato dello Stato ebraico o abbia osato
allontanarsi dalla sua versione dei fatti o non abbia docilmente ottemperato ai
suoi desiderata è divenuto, per ciò solo, «antisemita»,
mentre, nel frattempo, chi pronunciava tale accusa – l’accusa più infamante –
non esitava ad accompagnarsi ai nostalgici del fascismo e del nazismo. È
difficile immaginare per il sionismo una nemesi più radicale dell’aver reso
lo Stato di Israele la più rilevante minaccia per la sicurezza degli ebrei nel
mondo.
La seconda
considerazione è che l’orientamento dell’opinione pubblica ha assunto una
rilevanza decisiva nel determinare gli sviluppi degli eventi in Palestina. Non c’è alcun dubbio che Israele
avrebbe voluto proseguire l’attacco contro Gaza, come dimostrano i ripetuti
sabotaggi delle tregue e delle trattative compiuti da Netanyahu, il cui
obiettivo era – ed è – l’estensione della guerra dal Mar Mediterraneo al Golfo
Persico. La tregua di Sharm el-Sheikh è stata imposta a Israele
dall’esterno, per via del timore suscitato nel governo statunitense dalla
crescente pressione dell’opinione pubblica mondiale, la cui principale
conseguenza è stata la catena di – formali, ma altamente simbolici –
riconoscimenti dello Stato di Palestina, che ha indebolito la compattezza del
fronte occidentale. Non è possibile sapere se la tregua terrà. Così come non
è possibile comprendere quali potrebbero essere, in caso di tenuta, le
evoluzioni successive. Israele mantiene il controllo di oltre la metà della
striscia di Gaza e lì, a detta di James David Vance e Jared Kushner, saranno
concentrati i lucrosi interventi di ricostruzione. A chi saranno destinati i
nuovi insediamenti urbani? Ai palestinesi che vi risiedevano prima della
devastazione bellica o a nuovi coloni israeliani? Altrettanto oscuro è quel che
avverrà nella rimanente parte della striscia di Gaza. Sarà davvero schierata
una forza militare internazionale di interposizione? E, se sì, composta da contingenti
di quali Stati? Decisivo sarà capire se la Turchia risulterà o meno coinvolta.
Come che sarà, rimane in ogni caso fermo che a determinare la tregua non è
stato l’avanzamento delle trattative – le condizioni sono le medesime già
discusse in passato –, ma il conto che l’opinione pubblica mondiale ha, infine,
minacciato di presentare ai sostenitori di Israele nel caso in cui il genocidio
e la pulizia etnica fossero proseguiti (o, almeno: fossero proseguiti con la
tracotanza che li ha sinora connotati).
Ad aprirsi,
ora, è la questione relativa alla punizione dei responsabili dei crimini
commessi da Israele: non solo
da Netanyahu, ma dal grosso della dirigenza politica e militare di Israele,
oltre che dai singoli soldati sul terreno. La propaganda dello Stato ebraico
già è all’opera, con l’intento di negare ogni rilevanza – storica, morale e
giuridica – alle spaventose violazioni del diritto internazionale compiute.
Facile prevedere il ricompattamento del fronte occidentale, non solo per via
dei legami d’ideale e d’interesse con Israele, ma anche per il timore delle
corresponsabilità che gravano sui tanti governanti – italiani inclusi – che i
crimini israeliani hanno coperto politicamente, appoggiato militarmente e
sostenuto economicamente. Accetterà l’opinione pubblica mondiale di
dimenticare quanto accaduto? Di fare come se la devastazione di uno
dei più antichi insediamenti umani del Mediterraneo, con le centinaia di
migliaia di vittime che ha consapevolmente comportato, non fosse mai avvenuta?
Non potendo
fare pieno affidamento sugli Stati, l’efficacia con cui la giustizia
internazionale riuscirà a svolgere il proprio lavoro dipenderà anche – o forse:
soprattutto – dall’intensità della domanda di giustizia che salirà dalle piazze che
in tutto il mondo sono state dedicate a Gaza e alla Palestina.
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