Il rapporto di Tax Justice Network: Italia rapinata dai paradisi fiscali. Saccheggio da 22 miliardi – Chiara Brusini
Il sistema.
L’elusione fiscale delle multinazionali ha tolto 1.700 miliardi ai Paesi. Con
Trump gli Usa sono diventati la meta dei colossi a suon di favori
Tra il 2016
e il 2021 l’Italia ha perso 22,3 miliardi di dollari di tasse che sarebbero
dovute entrare nelle casse pubbliche. Soldi rimasti invece nei bilanci di
grandi multinazionali che hanno registrato i propri profitti in Paesi dove le
imposte sono più leggere: non solo Irlanda, Paesi Bassi e Lussemburgo, ma anche
– e per una fetta importante – Stati Uniti. Il nuovo rapporto State of
Tax Justice 2025 di Tax Justice Network, rete internazionale che da
anni analizza l’elusione delle imprese e dei super-ricchi, aggiorna le stime
sul costo globale degli abusi delle grandi imprese. E arriva alla conclusione
che il mancato gettito sia ammontato solo in quei sei anni all’astronomica
cifra di 1.700 miliardi di dollari, poco meno del Pil della Spagna, di cui 495 miliardi
(il 29% del totale) per effetto delle strategie fiscali delle sole
multinazionali statunitensi. Soldi che avrebbero potuto essere utilizzati per
finanziare sanità, istruzione e altri servizi pubblici…
Paradisi fiscali, capitalismo estrattivo e democrazia derubata - Mario Sommella
In sei anni
l’Italia si è vista sfilare 22,3 miliardi di dollari che dovevano finire in
scuole, ospedali, trasporti, sostegno alla non autosufficienza. Non sono
spariti per magia. Hanno semplicemente preso la strada che la finanza globale e
le grandi corporation hanno apparecchiato da anni: registrare i profitti dove
si pagano meno tasse, anche se quei profitti sono stati generati qui. È la
fotografia che emerge dal rapporto di Tax Justice Network che hai riportato, e
che combacia con l’andamento globale del fenomeno: le multinazionali spostano
centinaia di miliardi di utili ogni anno in giurisdizioni amichevoli, lasciando
i conti pubblici dei Paesi reali a fare i salti mortali. Su scala mondiale
parliamo di oltre mille miliardi di profitti spostati e di centinaia di
miliardi di gettito bruciati ogni anno.
Questo non è
un incidente tecnico della fiscalità internazionale. È l’effetto logico di un
capitalismo che si è fatto politica, che ha trasformato gli Stati in
contenitori da cui estrarre rendita fiscale, e che usa la concorrenza tra Paesi
come arma per pagare sempre meno. È la famosa corsa al ribasso. E quando le
imprese pagano meno del dovuto, non è che il costo scompare: viene scaricato
sulla collettività, cioè sui cittadini che pagano l’Irpef, sull’Iva, sui
piccoli imprenditori che non possono aprire una controllata in Delaware.
Il ruolo
degli Stati Uniti dopo il taglio Trump
La parte più
interessante e più scandalosa del quadro è il comportamento degli Stati Uniti
dopo il Tax Cuts and Jobs Act del 2017. Quella riforma, presentata come leva
per riportare investimenti in patria, ha in realtà trasformato Washington in un
rifugio fiscale per le proprie multinazionali e per molte straniere: imposta
federale sulle società più bassa, regole più morbide, e soprattutto la
possibilità di far atterrare negli USA profitti prodotti altrove pagando
aliquote effettive molto più basse. Risultato: tra il 2016 e il 2024 gli utili
dichiarati in patria sono saliti, ma le tasse effettivamente pagate sono scese.
Non è un paradosso, è un disegno.
Così gli USA
sono diventati un nuovo polo di attrazione per i profitti sottratti ai Paesi
dove sono stati davvero generati, scalzando perfino paradisi fiscali europei
più tradizionali. E nello stesso momento Washington ha sabotato o rallentato
tutti i tentativi internazionali di far pagare una quota equa alle big tech e
alle altre multinazionali, dal fragile accordo OCSE sulla minimum tax fino ai
tentativi di tassare i servizi digitali. Perché? Perché quando hai reso il tuo
Paese un magnete del profitto altrui non hai alcun interesse a far tornare quei
soldi a casa d’altri.
Europa e
Italia: le casse bucano, i servizi arretrano
Dentro
questo quadro l’Italia sta nel gruppo dei Paesi che perdono senza avere
strumenti adeguati per reagire. La cifra che hai riportato, 22,3 miliardi di
dollari tra 2016 e 2021, va letta così: è come se avessimo lasciato aperto un
rubinetto fiscale verso l’estero proprio negli anni in cui si diceva che “non
ci sono risorse” per scuola, sanità, disabilità, politiche abitative. È una
sottrazione silenziosa, perché non passa dal Parlamento, non richiede un
decreto, non ha opposizione: avviene nelle note integrative dei bilanci delle
multinazionali.
I dati
europei confermano che non è un problema solo nostro: Francia e Germania
perdono ancora di più in valore assoluto, la Spagna vede evaporare una quota di
gettito pari a più del 5 per cento della spesa sanitaria di quegli anni. Vuol
dire che i sistemi pubblici stanno pagando la concorrenza fiscale decisa
altrove. E vuol dire che quando ci dicono che bisogna “aziendalizzare” la
sanità, o aumentare i ticket, o privatizzare pezzi di welfare perché “mancano i
soldi”, stanno in realtà scaricando sui cittadini il conto di un trasferimento
di ricchezza verso i board delle corporation.
Le
multinazionali si sono fatte politica
Qui sta il
punto politico che va detto con chiarezza. Il problema non è solo il
Lussemburgo che fa il furbo o l’Irlanda che offre aliquote basse. Il problema è
che le grandi imprese hanno conquistato negli anni un potere di interlocuzione
diretto con i governi, tale da far scrivere le regole fiscali in modo
compatibile con le loro strutture societarie. Non si limitano a usufruire delle
norme: le orientano. E siccome sono transnazionali e gli Stati no, la
trattativa è sempre sbilanciata.
Questa è la
forma aggiornata della subalternità politica al capitale: non più solo lobbying,
ma vera e propria co-scrittura delle regole contabili, fiscali e di
trasparenza. A livello OCSE si è deciso che i dati che mostrano dove le
multinazionali fanno profitti e dove pagano le imposte restano in gran parte
riservati, quindi i cittadini non possono vedere chi paga e chi no. Gli USA,
già nel decennio scorso, hanno voluto che la rendicontazione paese per paese
non fosse pubblica. Senza trasparenza non c’è neppure conflitto democratico.
La partita
ONU e l’astuzia del Nord globale
Per questo è
importante che all’ONU sia partita la trattativa per una Convenzione fiscale
internazionale, cioè per spostare dal club dei Paesi ricchi al sistema
multilaterale la regia sulla tassazione delle multinazionali. È una richiesta
che arriva da anni dal Sud globale, perché sono proprio i Paesi a medio e basso
reddito quelli che, in proporzione, perdono di più rispetto alle loro entrate
complessive. Ma i Paesi guida del capitalismo occidentale hanno già fatto muro
e continueranno a farlo, perché un vero registro pubblico e una vera tassazione
dove si genera il valore taglierebbero le gambe alle loro stesse imprese e alle
loro piazze finanziarie. 
Se la
Convenzione ONU riuscisse a introdurre la rendicontazione pubblica paese per
paese e il principio che il profitto si tassa dove si produce, secondo le stime
di Tax Justice si potrebbero recuperare ogni anno centinaia di miliardi. È
esattamente ciò che oggi manca ai bilanci pubblici per finanziare i diritti
sociali senza doverli trasformare in servizi a pagamento.
Un problema
di modello, non di furbetti
Qui è utile
togliere di mezzo la retorica dei singoli evasori. Non stiamo parlando del
professionista che non emette una fattura. Stiamo parlando di un’architettura
pensata per permettere a gruppi con fatturati da Stato medio di sottrarsi alla
progressività fiscale. È un problema sistemico, prodotto dall’aziendalizzazione
della politica: gli Stati hanno interiorizzato l’idea che per essere
“attrattivi” bisogna costare poco alle imprese. Il risultato è che si compete al
ribasso, e chi vince sono i soggetti globali che possono muovere una riga di
bilancio da un continente all’altro con un clic.
Ed è un
problema che rompe la democrazia fiscale. Perché se i grandi non pagano, i
piccoli pagano di più. Se i grandi portano fuori 22 miliardi in sei anni, lo
Stato deve recuperarli altrove: tagliando spesa sociale, vendendo patrimonio,
aumentando la pressione su chi non può spostarsi in Irlanda. È la
socializzazione delle perdite e la privatizzazione degli utili, la cifra di questo
capitalismo.
Cosa dire,
allora
Primo, che i
paradisi fiscali non sono un’anomalia distante, sono incorporati nel
funzionamento del capitalismo occidentale. Secondo, che l’Italia non può
continuare a presentare come inevitabili i tagli a sanità, scuola e disabilità
finché non mette al centro la lotta al drenaggio di base imponibile. Terzo, che
la battaglia per la trasparenza fiscale internazionale è oggi una battaglia
democratica: sapere chi paga le tasse è un diritto politico, non un vezzo di
tecnici.
E soprattutto
va detto che questo drenaggio non è neutro. Ogni miliardo che esce per
compiacere una multinazionale è un miliardo sottratto alla vita quotidiana
delle persone, ai territori, ai servizi. È un trasferimento dal basso verso
l’alto reso possibile da regole scritte dall’alto. Finché non spezziamo questo
circuito, continueremo a discutere di micro-bonus, di privatizzazioni
necessarie e di austerità “inevitabile”, mentre i veri soldi, quelli che
potrebbero cambiare la vita delle persone, seguiranno la rotta invisibile dei
paradisi fiscali.
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