Negli ultimi anni l’appello al merito e
alla meritocrazia è tornato centrale nel dibattito pubblico, sopratutto a
partire dalla crisi economica del 2008. Proprio quell’anno, tra l’altro,
uscì Meritocrazia di Roger Abravanel
(Garzanti). Successivamente però si sono moltiplicate le voci che ne hanno
messo in discussione un uso a volte acritico, altre ideologico, se non un vero
e proprio abuso. Un testo centrale, in questo senso, è stato La
tirannia del merito di Michael Sandel (Feltrinelli
2021). Si è creato così un dibattito vivo e divisivo, che riguarda anche le
istituzioni.
In Italia chi difende i valori del merito
e della meritocrazia si rifà in genere alla seconda parte dell’articolo
34 della costituzione: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi,
hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La repubblica rende
effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre
provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.
Il merito dunque deve avere diritto di
cittadinanza in una democrazia come quella italiana che nella sua costituzione
(articolo
3) sancisce come suo principio fondativo un’uguaglianza sostanziale? In che
modo merito e uguaglianza possono stare insieme?
Chi lo difende da una prospettiva liberale
di destra – il sociologo Luca
Ricolfi, per esempio – se la prende soprattutto con i fantasmi di un presunto
ugualitarismo nato nel sessantotto, colpevole di aver tradito il progetto dei
padri costituenti, creando una “scuola facilitata”.
Chi segue una
prospettiva socialdemocratica insiste sull’uguaglianza delle
opportunità e sulla possibilità di costruire una scuola che si rifaccia a
questo valore. Sono citati filosofi come Martha Nussbaum, Amartya Sen, John
Rawls; si mette in discussione un concetto di uguaglianza più radicale,
liquidato come un socialismo uniformante e utopico.
Chi lo critica a sinistra da una
prospettiva socialista ritiene che quest’equilibrio tra uguaglianza e merito
sia impossibile, e che produca anzi torsioni ideologiche che andrebbero invece
smascherate.
Il libro che ha segnato un prima e un dopo
in questa disputa è un romanzo-pamphlet del 1958. L’ha scritto il sociologo
laburista inglese Michael Young, si intitola L’avvento
della meritocrazia ed è estremamente profetico. Nel
testo Young immaginava che nel 2033 un’utopia si sarebbe trasformata in una
distopia, in cui la meritocrazia distruggeva le democrazie liberali. In questo
mondo, volendo migliorare i criteri di giustizia sociale si finiva con il
provocare risultati terribili e ridicoli.
Young mostra i limiti di un concetto che
necessariamente vive in un campo di forze dinamico: quanto cambia il merito al
cambiare di ciò che è riconosciuto come meritevole? E, soprattutto, chi decide
il merito?
Pregiudizi strutturali
Proprio perché è un dibattito sui valori
di riferimento, in Italia quello sul merito si è concentrato soprattutto sulle
istituzioni scolastiche e sull’educazione in generale. È successo in
particolare da quando il governo Meloni ha deciso di ribattezzare il ministero
dell’istruzione in ministero dell’istruzione e del merito. Lo stesso ministro
Giuseppe Valditara non perde occasione per ricordare la centralità di questo
concetto.
L’ha fatto nel suo intervento al raduno della
Lega a Pontida il 23 settembre: “Sette, otto ragazzi l’anno scorso hanno deciso
di contestare il merito alla maturità. Noi siamo per il merito, e riteniamo che
la scuola debba eliminare gli ostacoli, aiutare i ragazzi a risolvere i
problemi, non a aggirarli, non a negarli”. L’ha fatto il 30 luglio,
quando è stato
dato il via libera del consiglio dei ministri alla riforma del voto
in condotta, che lo rende più determinante nei percorsi scolastici: “Costruiamo
una scuola autorevole. Fondamentali, merito, rispetto e centralità della
persona”.
Il merito sembra un concetto neutro e
positivo. Perché allora essere scettici sul suo utilizzo in ambito pedagogico,
per esempio? Una buona risposta la si può trovare nel capitolo che gli dedica
il docimologo, studioso di valutazione, Cristiano Corsini nel libro La
fabbrica dei voti (Laterza 2025).
Spesso, mostra Corsini, i nostri giudizi
su ciò che valutiamo positivamente e sul merito sono influenzati da una serie
di pregiudizi strutturali che proprio le valutazioni a scuola alimentano: “Le
disuguaglianze del sistema in tal modo non vengono solo riprodotte dal voto, ma
anche legittimate: il vantaggio diventa merito, il privilegio diritto, lo
svantaggio colpa”.
Corsini, come altri studiosi della
valutazione e del merito, prova a indicare quali sono le lenti distorsive che
applichiamo ai processi per riconoscere il merito.
C’è per esempio l’effetto san Matteo
(ispirato al passo biblico “a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi
non ha sarà tolto anche quello che ha”) per cui spesso chi ha un vantaggio
iniziale nell’apprendimento acquisisce maggiori competenze nel tempo. C’è
l’effetto Pigmalione (ispirato alla figura mitologica del re di Cipro, che
scolpì una meravigliosa statua di Afrodite e poi pregò gli dei di darle vita
per sposarla), per cui “se gli insegnanti credono che un bambino sia meno
dotato, o più dotato degli altri, lo tratteranno, anche inconsciamente, in modo
diverso dal resto del gruppo; il bambino interiorizzerà il giudizio e si
comporterà di conseguenza; si instaura così un circolo vizioso per cui il
bambino tenderà a divenire nel tempo proprio come l’insegnante lo aveva
immaginato”.
Ma c’è soprattutto un’impossibile pretesa
di oggettività quando assegniamo note di merito e di demerito a qualcuno.
L’ascensore sociale
Già nel 1979 escono due testi che
ridefiniscono il dibattito sul merito e il valore sociale dato dall’educazione.
Pierre Bourdieu pubblica La distinzione, in cui sostiene che i
sistemi educativi riproducono e si reggono su un classismo di tipo culturale.
Nello stesso anno Randall Collins pubblica The credential society. An
historical sociology of education and stratification (purtroppo
mai tradotto in italiano) che dà vita a un lungo filone di riflessione sul
“mercato” dei crediti, dei meriti e delle valutazioni. Da questi testi in poi è
chiaro che il concetto di merito può essere molto soggettivo, e intrinsecamente
relativo – si è meritevoli se qualcun altro lo è meno di noi – e serve a creare
e perpetuare classificazioni sociali.
Del resto la tesi che “i capaci e i
meritevoli” finiscano per appartenere sempre un po’ alla stessa classe sociale
e culturale l’aveva già sostenuta sempre Bourdieu (insieme a Jean Luc Passeron)
in Les héritiers (1964) e in La riproduzione (1970). E in maniera ancora più
esemplare don Lorenzo Milani con i suoi ragazzi di Barbiana in Lettera a una professoressa (1967): “Ancora
sostenete che dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri”.
In genere chi non rinuncia a minimizzare
il problema della presenza e del peggioramento delle disuguaglianze è di
orientamento liberale, e fa proprie le riflessioni di figure di liberali
italiani anche autorevoli come Gaetano Salvemini o Pietro Calamandrei.
Entrambi, dall’inizio del novecento agli anni del fascismo, a quelli
dell’assemblea costituente e oltre, tornarono spesso sulla funzione della
scuola come ascensore sociale: l’importanza di dare a tutti l’opportunità di diventare
classe dirigente.
Ma nella metafora dell’ascensore sociale
c’è un rischio: quello di non distinguere due aspetti significativi di una
prospettiva politica che si vuole democratica. Il primo è sottintendere di
vivere in una società che deve rimanere gerarchica e verticale. Il secondo è
che è difficile ammettere l’equità di un ascensore sociale che per alcuni si
muove anche verso il basso. Semplicemente, forse fatichiamo a riconoscere i
privilegi. Li consideriamo spesso naturali o inamovibili, o perfino giusti, e
altrettanto spesso li confondiamo con i meriti.
Anche per questa difficoltà, nella società
e nella scuola italiana le disuguaglianze sono tali che parlare di merito senza
pensare a come affrontarle è ipocrita. Quella più decisiva riguarda la
cittadinanza. Dal rapporto di settembre di Save the children “Chiamami
col mio nome” e dalle rilevazioni
Istat risulta che nelle classi ci sono circa 860mila studenti non italiani,
due terzi dei quali sono nati in Italia. Hanno le stesse opportunità degli
altri loro compagni? Ci sarebbe più uguaglianza attraverso il sostegno ai
“capaci e meritevoli”? Se ci fossero più borse di studio, come stabilito
dalla costituzione e che drammaticamente mancano, le cose
potrebbero andare meglio?
I dati sono significativi: la dispersione
scolastica è del 30,1 per cento tra le ragazze e i ragazzi non italiani, mentre
è del 9,8 per cento tra quelli italiani. Nel 2023 il 26,4 per cento degli
studenti senza cittadinanza italiana era in ritardo scolastico (cioè
ripetente), a fronte del 7,9 per cento di studenti senza background migratorio.
Tra i minori con origine straniera di
prima generazione il 3,1 per cento ha ripetuto la scuola uno o più anni, il
17,8 una volta, il 79 per cento mai. Tra gli alunni senza background migratorio
invece lo 0,6 per cento ha ripetuto più volte l’anno scolastico, il 4,6 una
volta, il 94,8 mai.
Se definire cos’è il merito può essere
difficile, lo è molto meno nel caso della cittadinanza. E non solo possiamo
ammettere quanto questa barriera sia discriminatoria – un buon testo per
conoscere lo stato dell’arte è Tra
i bianchi di scuola (Einaudi 2024) di Espérance
Hakuzwimana – ma sappiamo da diversi
studi che la cittadinanza contribuisce a diminuire l’abbandono scolastico,
ad aumentare la frequenza delle scuole superiori e a migliorare il rendimento anche
in materie chiave come la matematica.
Nozioni vaghe
Di fronte a queste disuguaglianze così
evidenti, parlare di riconoscere e premiare il merito a scuola e in altri
contesti educativi e sociali, sembra davvero una pratica astratta, a rischio di
diventare perfino controproducente dal punto di vista dell’uguaglianza e della
giustizia. Eppure in Italia il discorso pubblico sull’istruzione spesso si
paralizza proprio solo su questo confronto sulla valutazione di studenti,
docenti e istituti (come testimonia il rituale delle classifiche di Eduscopio
di fine novembre).
Quello che emerge dalla lettura
dell’infinita bibliografia critica sul merito è che per cercare di definire e
valorizzare un concetto che ci sembra così vago, si usano nozioni che rischiano
di essere ancora più vaghe, come quelli di “talento” o di “differenza delle
intelligenze”.
Una delle più interessanti sfide
pedagogiche degli ultimi anni sarà invece quella che riguarda la ricerca
sull’uguaglianza delle intelligenze. Le ideologie di destra, neoliberiste,
conservatrici, tradizionaliste, autoritarie, postfasciste, hanno tutte un punto
in comune: cercano di trovare degli elementi che giustifichino le
disuguaglianze. Quest’attacco della destra arriva spesso a mettere in
discussione le conquiste democratiche del secondo novecento, le costituzioni, i
diritti per le minoranze. Ed è un’aggressione tanto intensa da richiamare in
scena perfino un fantasma di cui pensavamo di esserci per fortuna sbarazzati
per sempre: quello del razzismo scientifico, il cui ritorno
nel dibattito pubblico è molto più diffuso di quello che
immaginiamo. Contro questa tendenza non basta difendere il diritto
all’uguaglianza delle opportunità, ma occorrerebbe forse rivendicare quella che
potremmo definire l’uguaglianza delle intelligenze. È una linea molto
produttiva del dibattito pedagogico attuale, che vede nella riscoperta del
lavoro del pedagogista francese Joseph Jacotot (1770-1840) un punto centrale.
A partire dalla biografia politica che ne
ha scritto il filosofo francese Jacques Rancière nel 1987, Il
maestro ignorante (Mimesis 2008), la riflessione di
Jacotot è diventata imprescindibile nella critica alle derive neoliberiste e
selettive, giustificate dall’ideologia del merito.
Jacotot sostiene che tutte le intelligenze
siano uguali in potenza. Non significa che tutti sappiano le stesse cose, ma
che tutti abbiano la capacità di capire e imparare. In Insegnamento universale, lingua materna (Eutimia
2019) Jacotot racconta un suo esperimento a Lovanio, in Belgio, con degli
studenti fiamminghi che dovevano imparare il francese. Loro non conoscevano la
sua lingua e lui non conosceva la loro.
Jacotot mise a disposizione di ragazze e
ragazzi ventenni un’edizione in francese e fiammingo delle Avventure di Telemaco, un romanzo popolare di Fénelon,
e li invitò a ragionare sul libro per imparare in modo autonomo. Con sua grande
sorpresa, confrontandosi tra loro gli studenti riuscivano a capire il testo e a
mano a mano impararono a scrivere in francese, senza spiegazioni dirette.
Nella concezione dominante della
pedagogia, l’insegnante è colui che sa e spiega, mentre l’allievo è colui che
ignora e deve ricevere passivamente il sapere. Secondo Jacotot, questo modello
non educa, ma stordisce l’intelligenza dell’allievo, mantenendolo in una
condizione di dipendenza e subordinazione.
Dall’esperienza di Lovanio, Jacotot trasse
la convinzione, trasformata in metodo, che il vero compito dell’insegnante è
emancipare, cioè aiutare l’allievo a scoprire la propria capacità di pensare.
L’uguaglianza delle intelligenze diventa così non solo un’idea pedagogica, ma
anche etica e politica.
I più importanti pedagogisti europei, da
Gert Biest a Philippe Meirieu, oggi riconoscono a Jacotot (grazie a Ranciére)
di aver inaugurato una riflessione sull’uguaglianza più interessante e radicale
anche di altri pensatori illuministi più conosciuti, da Condorcet a Helvetius,
da Condillac a La Mettrie, citati da chi insiste sulla possibilità di tenere
insieme merito e uguaglianza.
Jacotot, Rancière, Biesta, Meirieu, come
Paulo Freire o bell hooks e molti altri pedagogisti contemporanei preferiscono
dare centralità, piuttosto che al concetto di merito, a quello di
emancipazione. Visto che viviamo in un tempo infelice per i diritti all’uguaglianza,
non sembra per niente una brutta idea.
Per approfondire
Letture sul merito
- Against meritocracy di Jo Littler (Routledge 2017)
- Valutatemi! di Bénédicte Vidaillet
(Novalogos 2018)
- The meritocracy trap di Adrian Markovits (Penguin 2019)
- Contro l’ideologia del merito di Mauro Boarelli
(Garzanti 2019)
- Meritocrazia di Salvatore Cingari (Ediesse 2020)
- The aristocracy of talent di Adrian Wooldridge (Penguin 2021)
- Equità e merito nella scuola di Lorenzo Benadusi e
Orazio Giancola (FrancoAngeli 2021)
- Il complotto contro il merito di Marco Santambrogio
(Laterza 2021)
- La rivoluzione del merito di Luca Ricolfi (Rizzoli 2023)
- “Sulla
questione del merito” di Bruno Trentin, sull’Unità
- “La
riorganizzazione ‘meritocratica’ e i saperi dissonanti. Cosa è accaduto
all’università” di Francesca Coin, su La letteratura e noi
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