Sempre più
spesso mi viene spontanea e irrefrenabile la voglia di guardare indietro.
Saranno gli anni che avanzano, sarà l’insostenibilità di certi aspetti del
presente ma mi pare che per tentare di non scivolare in un futuro
distopico sia sempre più necessario gettare l’ancora nel passato. Ciò che è
stato ha sempre l’efficacia dell’essere stato, avrebbe detto Giovanni
Verga, ed ha assunto, avrebbe detto Pirandello, la sua forma, fissata per
sempre, analizzabile e, per così dire, istruttiva. E noi da quel che è stato,
se avessimo l’umiltà e la pazienza necessarie, potremmo davvero imparare molto
e non ripetere il tragico copione che gli umani scrivono e riscrivono senza mai
dimenticare di assegnare la parte della co-protagonista a un mostro che ha nome
“violenza”: coprotagonista che assicura brividi, sentimenti forti e che, in
ultima analisi, genera l’attaccamento alla stessa vita che distrugge.
Il
rapporto Oxfam Italia
del 2025 ci informa che, secondo i dati dell’Uppsala
Conflict Data Program, nel mondo si contano oltre 100
conflitti armati, internazionali o interni ma con implicazioni globali. Il
pianeta, quindi, è butterato da guerre; ci sono voluti due anni e il crudele
sterminio del popolo palestinese messo in atto da Israele perché le coscienze
si smuovessero e i nostri Paesi fossero attraversati da manifestazioni di
protesta imponenti. Questo orribile presente per i Palestinesi non è, però, che
l’ultima pagina di una storia che, come tutti sappiamo, ha inizio molto tempo
fa, con la nascita del sionismo. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale ha
inizio la storia di Israele, avamposto dell’Occidente in terra araba; gli
insediamenti sionisti avevano avuto inizio ben prima e non certo in modo
pacifico.
Mi attengo
alla premessa iniziale e faccio un balzo in avanti nel tempo; arrivo al 1969,
anno in cui uno dei nostri grandi scrittori, Luciano Bianciardi, scrive un
articolo per la rivista Kent – una sorta di succedaneo
di Playboy, alla quale lo scrittore collaborò, probabilmente
per spirito di contraddizione e per non sentirsi al soldo di una borghesia che
aborriva. [Aveva rifiutato le 300mila lire al mese (un mucchio di soldi) che
l’allora direttore del Corriere, Indro Montanelli, gli offriva
per scrivere sul suo giornale quello che ritenesse opportuno. Luciano dunque
rifiutò e, dopo il successo enorme de La vita agra, scelse
invece di collaborare con testate molto meno prestigiose, anzi piuttosto
dubbie, come Le Ore, ABC, Kent, Playmen]. Nel settembre del
1969 Bianciardi è a Tel Aviv (ricorda ai suoi lettori che il nome
della città significa “il colle della primavera”), al seguito di una squadra di
“palla al canestro”, come la chiama lui, che fa anche, a modo suo, il cronista
sportivo. Bianciardi ha come guida per la visita della città “Ester, una
livornese alta un metro e quaranta, con due medaglie al valore”, la quale
comincia subito a fare il suo “spiegone” al gruppo di giornalisti italiani in
visita a Tel Aviv.
“Ecco gli
autocarri che durante la guerra dei sei giorni abbiamo strappato agli egiziani.
Ecco i resti, dipinti col minio, degli automezzi andati distrutti durante la
guerra del ’48, E ora, gente, eccovi una sorpresa. Questi sono i carri armati
che abbiamo strappato agli egiziani durante la guerra dei sei giorni. Vedete
quanti sono? Noi siamo contenti che i russi diano carri armati agli egiziani,
così ci forniscono i pezzi di ricambio”.
Io comincio ad averne le tasche piene. “Scusi, signora Ester” – chiesi, “se
voglio salutare una persona, da queste parti, che cosa debbo dire?” “Lei deve
dire scialom”. “E cosa significa?” “Significa pace” “Benissimo, grazie” […]
Ester aveva riattaccato lo spiegone: “Ecco la porta dei Leoni. Di qui durante
la guerra dei sei giorni, entrarono a Gerusalemme i nostri paracadutisti. Gli
arabi invece fuggirono dalla porta della spazzatura”.
A un certo punto la Ester mi redarguì. “Signor Luciano, perché lei cammina così
piano?”
“Ma perché siamo a Gerusalemme”.
“E allora?”
“A Gerusalemme si cammina lemme lemme. E anche a Betlemme. Sempre lemme lemme”.
“Ma lei mi prende in giro!”
“Non è vero. È contenta, cara Ester di vivere qui in Palestina?”
“Vivere dove?”
“In Palestina”
“Cosa è la Palestina?”
“È qui, dove siamo noi”.
“Guardi che noi diciamo Israele”.
“Ma davvero? A scuola mi avevano insegnato in altro modo”.
“Cioè?”
“A dire Palestina. O anche Terra Santa”.
“Ma lei mi prende in giro!” […]
Siamo poi andati in un kibbutz di frontiera, tutto pieno di soldati e soldate
(dire soldatesse è sbagliato, altrimenti dovremmo dire pure cognatesse anziché
cognate), i quali militari più che altro scavano bunker e coltivano qualche
raro pomodoro. La Ester ci fece vedere la piantine appena nate. E il mio amico
Arnaldo le chiese: “Scusi, Ester, che grado ha il comandante di questi soldati
che coltivano pomodori?”
Questo per
dire, con una lunga e arguta citazione, che da troppo tempo le cose in
Palestina vanno male. Da troppo
tempo la Palestina ha perso pure il nome e si parla ormai di Terra Santa
soltanto nei dépliant dei pellegrinaggi.
Traggo, da
un passato più vicino al nostro presente, una citazione di Edgard Morin. È del 1997.
Israele ha
ritrovato un paese che era diventato straniero per duemila anni e, facendolo
suo, ha fatto sì che il Palestinese che lì viveva da secoli diventasse
straniero. Israele ha accolto centinaia di migliaia di rifugiati che fuggivano
dall’Europa e una parte della diaspora ebraica. Ha provocato l’esilio di
centinaia di migliaia di Palestinesi, che da allora sono stati ammassati nei
campi profughi o dispersi nel mondo. Chi avrebbe mai pensato, alla fine della
Seconda Guerra Mondiale, che, dopo secoli di umiliazioni e rifiuti, dopo
l’affare Dreyfus, il ghetto di Varsavia, Auschwitz, i discendenti e gli eredi
di queste terribili esperienze avrebbero sottoposto i palestinesi occupati a
umiliazioni e privazioni? Come possiamo comprendere la transizione dall’ebreo
perseguitato all’israeliano persecutore?
Se le cose
vanno male per un periodo piuttosto lungo, si può dire, con una certa
sicurezza, che andranno sempre peggio. E nelle more, tra una fragile tregua e
l’altra, se non si organizzano saldi presidi contro il disastro, a qualcuno,
più fanatico di altri, potrà venire in mente l’organizzazione della soluzione
finale, quella che affermerà in modo definitivo le ragioni di una parte. È già
successo, ed ecco che accade di nuovo.
D’altronde,
cosa ci si poteva aspettare se la nascita dello Stato ebraico tra il 1947 e il
1948 che viene denominata dagli israeliani “guerra di indipendenza” provocò per
i Palestinesi la Nakba – cioè la Catastrofe? Quale risarcimento prevederà la
comunità internazionale per i Palestinesi a fronte di una terribile ingiustizia
che attraversa gran parte del Novecento per dilagare nel primo quarto del
nostro secolo? Non basterà certo la vieta formula “due popoli, due Stati”,
impraticata e impraticabile.
Ha ragione
Daniel Baremboim, che dal 1999 conduce la West-Eastern Divan Orchestra, in cui
suonano musicisti provenienti da tutto il Medio Oriente e che ha fondato,
insieme con Edward Said la Barenboim-Said Akademie, che prosegue l’intento
della West-Eastern Divan Orchestra di definire un terreno comune in cui
israeliani e palestinesi possano riconoscersi reciprocamente e lavorare fianco
a fianco. Baremboim sostiene che l’umanesimo sia l’unica (e l’ultima)
“resistenza che abbiamo contro le pratiche disumane e le ingiustizie che
sfigurano la storia umana”.
Quanto tale
affermazione sia dissonante dal cinismo crudele dei nostri tempi è evidente:
eppure, sino a che non si riconoscerà l’essere umano anche nel nemico le cose
non cambieranno. La regola vale per tutti, tranne che per i tiranni, quelli che
fanno ciò che a loro pare decretandone senza appello la giustezza; essi sono
colpevoli di vivere in uno stato di eccezione e quindi non meritano la nostra
pietà.
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