Il nuovo esame di stato varato dal governo del
cambiamento si inserisce pienamente nelle logiche di trasformazione della
scuola pubblica italiana in una mostruosa creatura a tre teste: copia opaca
dei talent show e dei quiz televisivi preserali, luogo di
costruzione di mansueta manodopera flessibile e precaria, parcheggio a basso
costo per controllare il disagio sociale e in cui stimolare in modo acritico e
compulsivo il consumo di tecnologia.
Dalla
riforma dell’autonomia di Berlinguer alla buona scuola di Renzi, passando per
Moratti, Gelmini e Profumo, ogni cambiamento è stato finalizzato al lento, ma
inesorabile, superamento della scuola del Novecento, considerata con i suoi
capisaldi costituzionali, un vero e proprio ostacolo nei confronti di una modernità fondata sulla competizione
e sull’individualismo. Meno materie, meno laboratori, meno investimenti,
meno ore scolastiche, meno sapere teorico, meno compresenze, meno storia, meno
arte, meno italiano: il tutto presentato nella prospettiva salvifica e
appagante di più futuro, più opportunità, più dinamismo, più lavoro, più benessere,
più successo privato.
Per
realizzare una scuola al servizio di tale asettica modernità, devota alla
ideologia della post-ideologia, ovvero a quel sistema di idee che
auto-rappresentandosi come oggettivo assume come valori assoluti il presente come unica realtà
possibile e il mercato e la tecnologia come mezzi neutrali di progresso,
attraverso cui le persone possono realizzare se stesse e la propria idea di
felicità, era indispensabile svuotare la scuola di tutti quei contenuti e di
tutte quelle pratiche che la rendevano legata ad una pedagogia e ad una
organizzazione dell’istruzione fondate, almeno formalmente, sui principi di una
società democratica, fatta solidarietà,
libertà e uguaglianza. In un
mondo in cui la mercificazione della vita e la ricerca spasmodica ed egoistica
del profitto sono i nuovi tiranni a cui gli uomini devono volontariamente
assoggettarsi, serviva una scuola azienda, che allenasse ad obbedire e non a
pensare in autonomia.
La new school, pertanto, deve essere luccicante, vuota e
innocua come un prodotto televisivo per famiglie, deve far fare tante cose
senza però condurre a riflettere sul perché farle, deve essere
intellettualmente ipocalorica, ma grassa e zuccherosa di eventi social da
condividere, deve premiare gli yes students ma
sanzionare e isolare gli allievi autenticamente anticonformisti, deve esaltare
gli esecutori degli ordini e al contempo soffocare
sul nascere ogni forma di pensiero critico e divergente.
Per fare della scuola un luogo asettico, in cui
educare al consumo e all’obbedienza, si è deciso di operare una vera e propria
mistificazione della didattica per competenze, trasformandola nell’unica e
legittima religione da praticare e venerare e contrapponendola alla vetusta e
inadeguata didattica per contenuti, i quali stanno via via sparendo o entrando in
clandestinità, come se fossero culti per eretici impenitenti o residui di
guerriglia per romantici rivoluzionari. La faida tra conoscenze e competenze se
è tramutata in uno scontro senza quartiere tra presunti progressisti e
conservatori della didattica, tra innovatori e difensori dello status quo, che
ha finito per accecare i docenti,
i quali sembrano aver smarrito l’umanistica lezione della crescita educativa
come equilibrio tra studio teorico e pratico, tra discipline umanistiche,
scientifiche e laboratoriali. Nella scuola-fabbrica di replicanti i
contenuti sono destinati ad evaporare per lasciare spazio ad utilitaristiche
esercitazioni standardizzate, finalizzate ad allenare le competenze: per
comprendere un testo, fare un riassunto, esporre, fare una relazione, risolvere
un problema i contenuti non sono fondamentali e si riducono a semplici e
relativi mezzi. Ad esempio, per esercitare la lingua spagnola si può lavorare
su articoli di moda e di calcio oppure su brani tratti dal Don Chisciotte di
Cervantes. I contenuti sono funzionali al potenziamento di competenze e sono
equiparabili, all’interno di un circuito workout, agli
attrezzi da usare per rassodare i glutei o scolpire gli addominali:
l’importante è il risultato finale. Perché imparare ad argomentare a partire da
Platone o Kant quando puoi esercitarti con le discussioni innescate dai
principali blog influencer o dai cuochi
di Masterchef? Perché imparare a riassumere leggendo inchieste sulle tragedie
dei migranti morti in mare quando puoi farlo leggendo articoli su mete
turistiche o sui matrimoni tra casate reali?
Il nuovo esame di stato istituto dalla maggioranza
giallo-verde si inserisce a pieno titolo nella prospettiva, già berlusconiana e
renziana, dell’istruzione come frenetico supermercato delle competenze utili al
mercato e come innocuo quiz delle conoscenze. Vediamo nel dettaglio alcune delle principali e
desolanti novità.
La prima prova è stata depurata dall’ormai inutile tema di
storia ed è stata semplificata nella parte dell’analisi del testo letterario;
tanto a cosa servono tali discipline in un percorso scolastico finalizzato, non
alla crescita e riflessione umana, ma alla costruzione di un lavoratore
efficacemente precario.
Le seconde prove scritte sono state trasformate in
verifiche miste (matematica-fisica, latino-greco, ad esempio), secondo la
logica del pago uno e prendo due, in quanto è meglio sommergere gli studenti di
innumerevoli e frazionati esercizi distanti dal programma svolto dai docenti,
anziché proporre testi o problemi da comprendere, approfondire, rielaborare e
risolvere.
La terza prova, che, nonostante molti limiti, valorizzava comunque
le conoscenze degli allievi a partire dagli argomenti trattati da ogni singolo
consiglio di classe, è stata mandata in soffitta, presentando il tutto come una
liberazione per gli studenti, non più ostaggi di uno studio troppo
contenutistico.
Infine, il pezzo forte del nuovo esame di stato, il
vero fiore all’occhiello del ministro Bussetti: il colloquio. La prova orale inizierà con
l’esposizione da parte dello studente del percorso di Alternanza Scuola Lavoro,
momento in cui il candidato si guarderà bene dal criticare tale esperienza,
dopo anni di educazione all’obbedienza e all’accettazione di tutto ciò che gli
è stato imposto dall’alto. Il colloquio proseguirà poi con la scelta del
candidato di una busta (la A, la B o la C?), in cui ci saranno i documenti e
gli argomenti di partenza dell’interrogazione. A
questo punto, i docenti-intrattenitori modello Amadeus faranno le domande agli
studenti-concorrenti della nuova maturità modello L’Eredità.
Troppo svilente per essere vero, ma troppo improvvisato all’italiana per essere
falso. Tale esame non lascio spazio alle inclinazioni e agli approfondimenti
personali. Tutti gli studenti svaniscono in un grigiore mortifero. L’esame
finale dovrebbe valorizzare un percorso di crescita individuale e collettivo,
sia su un piano culturale sia su un piano umano, invece siamo di fronte ad una
serie di prove calate dall’alto paragonabili alla notte, di hegeliana memoria,
in cui tutte le vacche sono nere. A tutto ciò si deve aggiungere che la prova
Invalsi, diventata obbligatoria per accedere all’esame, sebbene per ora non
contribuisca alla valutazione finale, sarà inserita nel fascicolo finale dello
studente. Non serve essere delle argute Cassandre per prevedere che, nel giro
di pochi anni, le valutazioni invalsi sostituiranno il diploma nello stabilire
il valore di un percorso formativo e dunque l’accesso agli studi universitari.
Ancora una volta il mondo della scuola è umiliato
nella sua intelligenza, da troppo
tempo sopita e anche un po’ indolente. Nel nuovo esame di stato, figlio di una
scuola azienda-intrattenimento, i contenuti si equivalgono e dunque si
annullano; gli insegnati si trasformano in
somministratori di test e in allenatori di tecniche; gli studenti diventano ancor più passivi
spettatori e consumatori di un percorso formativo in cui dovrebbero essere, invece,
gli assoluti protagonisti attivi e critici.
Ancora una
volta, però, non vi è altra soluzione che fare appello alla ribellione dei
soggetti che subiscono tali politiche miopi.
Serve un sussulto per dire che la scuola non è un luogo in cui si allevano polli, non è una
caserma dove far crescere soldatini, non è un supermercato dove forgiare il
consumatore, non è una azienda in cui formare e anestetizzare i lavoratori
precari, non è un show televisivo o una piattaforma social in cui produrre
immagini di uomini e di donne. La
scuola deve essere una comunità circolare, aperta e inclusiva, in cui
insegnanti e studenti, ognuno con le proprie specifiche responsabilità,
crescono insieme come persone e cittadini. Solo così l’istruzione sarà
un percorso di emancipazione e non una via di bieco servilismo o di
reiterazione dei privilegi e delle disuguaglianze esistenti. La scuola in
democrazia serve per migliorare e abbellire la società, non a renderla più
ingiusta e brutta.
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