Il 4 aprile 1967, esattamente un anno
prima di essere assassinato, il Rev. Dr. Martin Luther King, prese la parola
nella Riverside Church di Manhattan. Gli Stati Uniti erano da due anni in
guerra in Vietnam, migliaia di persone erano state uccise, compresi circa
10.000 militari Americani. L’establishment politico – da destra a sinistra –
sosteneva la guerra, e in Vietnam c’erano più di 400.000 americani, le loro
vite sulla linea del fronte.
Molti dei più accesi sostenitori di King
lo sollecitavano a restare in silenzio sulla guerra o almeno a esprimere
critiche caute. Sapevano che se lui avesse detto tutta la verità sulla guerra
ingiusta e disastrosa sarebbe stato falsamente etichettato come Familiari
dell’infermiera Razan Al Najjar uccisa a Gaza nel giugno 2018comunista, avrebbe
subito rappresaglie e rifiuti, allontanato sostenitori e costituito una
minaccia per il fragile avanzamento del movimento per i diritti civili.
King rifiutò tutti i consigli benevoli e
disse: “Vengo in questa meravigliosa casa di preghiera perché la mia coscienza
non mi lascia altra scelta”. Citando una dichiarazione del clero e di laici
preoccupati per il Vietnam disse: “Arriva un tempo in cui il silenzio è
tradimento” aggiungendo:” Per noi quel tempo è arrivato riguardo al Vietnam”.
Era una posizione morale, solitaria. E
gli è costata. Ma dette un esempio di che cosa ci è richiesto se vogliamo
onorare i nostri più profondi valori in tempi di crisi, anche quando il
silenzio servirebbe meglio i nostri interessi personali o le comunità e le
cause a cui teniamo maggiormente. Penso a questo quando guardo alle scuse e
alle giustificazioni “razionali” che mi hanno tenuto troppo silenziosa su una
delle più grandi sfide morali del nostro tempo: la crisi in Israele-Palestina.
Non sono stata sola. Fino a poco tempo fa l’intero Congresso è rimasto per lo
più silenzioso su quell’incubo dei diritti umani che abita i territori
occupati. I nostri rappresentanti, da noi eletti, che agiscono in un
ambiente politico dove la lobby politica di Israele ha un potere ben
documentato, hanno minimizzato e sviato le critiche allo Stato di
Israele, anche quando è stato incoraggiato nella sua occupazione del
territorio Palestinese ed ha adottato pratiche che ricordano l’apartheid in Sud
Africa e la segregazione delle leggi Jim Crow* negli Stati Uniti.
Anche molti attivisti e organizzazioni
per i diritti civili sono rimasti in silenzio, non per mancanza di interesse o
simpatia per il popolo Palestinese, ma per timore di perdere
finanziamenti dalle fondazioni e di false accuse di antisemitismo. Sono
preoccupati, come lo sono stata io un tempo, che il loro importante lavoro per
la giustizia sociale venga compromesso o discreditato da campagne diffamatorie.
Analogamente, molti studenti temono di
esprimere sostegno ai diritti palestinesi a causa delle tecniche maccartiste di
organizzazioni segrete come Canary Mission, che iscrive in una lista nera
coloro che osano sostenere pubblicamente il boicottaggio verso Israele,
mettendo così a repentaglio prospettive di lavoro e future carriere.
Leggendo il discorso di King a Riverside
più di 50 anni dopo, mi sono rimasti ben pochi dubbi che il suo insegnamento e
messaggio ci richieda di parlare apertamente e appassionatamente contro la
crisi dei diritti umani in Israele-Palestina, nonostante i rischi e la
complessità di questi temi. King sosteneva, parlando del Vietnam, che perfino
“quando le questioni a portata di mano sembrano provocare perplessità come
spesso accade, nel caso di conflitti terribili, non dobbiamo farci paralizzare
dall’incertezza. “Dobbiamo parlare con tutta l’umiltà adeguata alla nostra
limitata visione, ma dobbiamo parlare”.
Così, se vogliamo onorare il messaggio
di King, e non semplicemente l’uomo, dobbiamo condannare le azioni israeliane:
incessanti violazioni del diritto internazionale, continua occupazione della
Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza, demolizioni di case, confische di terra.
Dobbiamo gridare contro il trattamento dei palestinesi ai check points, le
usuali perquisizioni delle loro case e restrizione della loro possibilità di
movimento, e il pesante limite all’accesso ad abitazioni dignitose, scuole,
alimentazione, ospedali e acqua, a cui molti di loro devono far fronte.
Non dobbiamo tollerare il rifiuto di
Israele persino di discutere il diritto dei profughi al ritorno nelle loro
case, come prescritto dalle Risoluzioni ONU, e dovremmo mettere in discussione
i fondi del Governo USA a sostegno di molte iniziative ostili e migliaia di
vittime civili a Gaza come anche i 38 miliardi di dollari che gli Stati Uniti
hanno impegnato nell’ aiuto militare ad Israele.
E infine, con tutto il coraggio e la
determinazione che riusciamo a raccogliere, dobbiamo parlare apertamente contro
il sistema di discriminazione legale che esiste all’interno di Israele, un
intero sistema di più di 50 leggi, secondo Adalah, il Centro legale per i
diritti della minoranza araba, – leggi come la recente nation-state law,
che dichiara esplicitamente che solo gli Ebrei Israeliani hanno il diritto
all’autodeterminazione in Israele, ignorando i diritti della minoranza araba
che costituisce il 21% della popolazione.
Naturalmente ci saranno quelli che dicono
che non possiamo sapere con sicurezza che cosa King avrebbe fatto o pensato
riguardo a Israele-Palestina oggi. E’ giusto. Le prove riguardo al punto di
vista di King su Israele sono complicate e contraddittorie.
Sebbene allora il Comitato di Coordinamento
nonviolento degli Studenti denunciasse le azioni di Israele contro i
palestinesi, King si trovò in conflitto. Come molti dirigenti neri di quel
tempo riconobbe che gli Ebrei Europei come popolo perseguitato oppresso e
senza patria, lottavano per costruire una loro propria nazione. E volle
mostrare solidarietà alla Comunità Ebraica che era stata alleata di grande
importanza nel movimento per i diritti civili.
Negli ultimi anni, nel 1967, King
cancellò una missione in Israele dopo l’occupazione israeliana della
Cisgiordania. Nel corso di un colloquio con i suoi consiglieri sulla visita,
disse:” Penso solo che, se andassi, il mondo Arabo e ovviamente Asia e Africa
in questo caso, lo interpreterebbero come approvazione a tutto quello che
Israele ha fatto, e io ho interrogativi e dubbi in proposito”.
Continuò a sostenere il diritto di
Israele ad esistere ma disse anche alla televisione nazionale che sarebbe stato
necessario che Israele restituisse parte dei territori conquistati per ottenere
pace e sicurezza vere ed evitare di esacerbare il conflitto. Non ci fu modo in
cui King potesse pubblicamente conciliare il suo impegno per la non violenza e
la giustizia per tutti i popoli, ovunque, con quanto era successo dopo la
guerra del 1967.
Oggi possiamo solo ipotizzare come King
si sarebbe schierato. Tuttavia mi trovo d’accordo con lo storico Robin D.G.
Kelley che è arrivato alla conclusione che se King avesse avuto la possibilità
di analizzare l’attuale situazione nello stesso modo in cui studiò quella del Vietnam
“la sua inequivocabile opposizione alla violenza, al colonialismo, al razzismo,
e al militarismo avrebbe fatto di lui un efficace critico delle attuali
politiche di Israele.
In effetti, il punto di vista di King
può essersi evoluto insieme a molti altri pensatori di forte spiritualità, come
il Rabbino Brian Walt, che ha pubblicamente parlato delle ragioni per l’
abbandono della sua fede in ciò che vedeva come Sionismo politico. Recentemente
mi ha spiegato che per lui il Sionismo liberale voleva dire credere nella
creazione di uno Stato ebraico che sarebbe stato un porto sicuro e un centro
culturale per il popolo ebraico nel mondo, che ne aveva disperatamente bisogno,
“uno stato che avrebbe espresso e onorato gli ideali più alti della tradizione
ebraica”. Disse che era cresciuto in Sud Africa in una famiglia che condivideva
quelle opinioni e si identificava come Sionista liberale, fino al momento in
cui la sua esperienza nei territori occupati l’ha cambiato per sempre.
Nel corso di oltre 20 visite in Cisgiordania
e Gaza, ha potuto vedere orribili abusi dei diritti umani, come la distruzione
con i bulldozers di case palestinesi mentre la gente piangeva – i giocattoli
dei bambini sparsi su un sito demolito – e confisca di terra palestinese per
fare spazio a nuovi illegali insediamenti finanziati dal Governo israeliano. Fu
obbligato a fare i conti con la realtà: queste demolizioni, insediamenti e atti
violenti di dispossessione non erano opera di furfanti, ma atti pienamente
sostenuti e consentiti dall’esercito israeliano. Il punto di svolta per lui fu
assistere al la discriminazione legalizzata nei confronti dei palestinesi –
comprese le strade solo per ebrei – che, disse, in certo senso era peggiore di
quello a cui aveva assistito da ragazzino in Sud Africa.
Non molto tempo fa era piuttosto raro
sentire questi punti di vista. Adesso non è più così.
Jewish Voice for Peace, ad esempio, ha l’obiettivo di
educare il pubblico americano su “l’espulsione forzata di circa 700.000
palestinesi che cominciò con l’istaurazione di Israele e continua fino ad oggi.
“Sempre più persone di tutte le fedi e retroterra culturali hanno parlato
apertamente con maggior impegno e coraggio. Organizzazioni americane come ad
esempio If Not Now sostengono i giovani ebrei americani
nella loro lotta per rompere il silenzio mortale che ancora regna tra troppa
gente sull’occupazione, e centinaia di gruppi laici e religiosi si sono uniti
alla U.S. Campaign for Palestinian Rights.
Considerando questi sviluppi, sembra che
stia arrivando alla fine il tempo in cui critiche del Sionismo e delle
azioni dello Stato di Israele possano essere tacciate di antisemitismo. Sembra
che venga sempre più compreso che la critica alle pratiche e politiche del
Governo israeliano non è, in sé, antisemita.
Certo questo non vuol dire che
l’antisemitismo non sia reale. Il Neo Nazismo sta riemergendo in Germania
all’interno di un crescente movimento antiimmigrazione. Episodi di
antisemitismo negli Stati Uniti nel 2017 sono cresciuti del 57%, e molti di noi
ancora piangono quello che è considerato come l’attacco più mortale agli
ebrFamiliari dell’infermiera Razan Al Najjar uccisa a Gaza nel giugno 2018ei
nella storia americana. In questo clima dobbiamo ricordare che mentre la
critica ad Israele non è in sé antisemita, può finire per arrivarci.
Fortunatamente, persone come il Rev. Dr.
William J. Barber II sono un esempio, quando dichiarano fedeltà alla lotta
contro l’antisemitismo,e nello stesso tempo mostrano incrollabile solidarietà
con il popolo Palestinese che lotta per sopravvivere sotto l’occupazione
israeliana.
In un discorso avvincente lo scorso anno
ha dichiarato che non possiamo parlare di giustizia senza considerare
l’espulsione dei popoli nativi, il razzismo sistematico del colonialismo e
l’ingiustizia della repressione governativa. Nella stessa occasione ha
detto:”Voglio dire nel modo più chiaro possibile che l’umanità e la dignità di
ogni essere umano o popolo non può in alcun modo sminuire l’umanità e dignità
di un’altra persona o popolo. Essere convinti che l’immagine di Dio è in ogni
persona vuol dire asserire che il bambino palestinese è prezioso come il
bambino ebreo”.
Guidati da questo tipo di chiarezza
morale, gruppi religiosi stanno agendo. Nel 2016 il consiglio della Chiesa
Metodista Unita ha escluso dal suo multimiliardario fondo pensioni le banche
israeliane i cui crediti per la costruzione di insediamenti violano il diritto
internazionale. Analogamente, l’anno precedente la Chiesa Unita di Cristo ha
votato una risoluzione per il boicottaggio e il disinvestimento dalle aziende
che traggono profitto dall’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi.
Anche nel Congresso, un cambiamento è
all’orizzonte. Per la prima volta due suoi componenti, i rappresentanti
Ilhan Omar, Democratica del Minnesota, e Rashida Tlaib, Democratica del
Michigan, hanno espresso sostegno pubblico al Movimento BDS. Nel 2017, la
Rappresentante Betty McCollum, Democratica del Minnesota, ha presentato
una risoluzione per garantire che nessun aiuto militare degli Stati Uniti vada
al sistema militare carcerario israeliano dei giovani. Israele persegue regolarmente
nel Tribunale Militare giovani detenuti nei territori occupati.
Con tutto ciò non voglio dire che il
vento sia completamente cambiato o che siano cessate le rappresaglie contro chi
esprime forte sostegno ai diritti Palestinesi. Al contrario, proprio come King
fu pesantemente e largamente criticato per il suo discorso di condanna della
guerra in Vietnam – 168 grandi quotidiani incluso The Times lo
denunciarono il giorno seguente – chi parla pubblicamente a sostegno della
liberazione del popolo palestinese ancora rischia condanna e contraccolpi.
Bahia Amawi, logopedista americana di
origini palestinesi, è stata recentemente licenziata per aver rifiutato di
firmare un contratto contenente un impegno anti-boicottaggio, dichiarando di
non farlo, e che non parteciperà a boicottare lo Stato di Israele. A novembre,
Marc Lamont Hill è stato licenziato dalla CNN per un discorso a sostegno dei
diritti palestinesi, grossolanamente mal interpretato come se esprimesse
sostegno alla violenza. Canary Mission continua a porre serie minacce agli
studenti attivisti.
E proprio circa una settimana fa, il
Birmingham Civil Rights Institute in Alabama, pare sotto pressione per lo più
di parti della Comunità essereEbraica e altri, ha revocato un riconoscimento
conferito ad Angela Davis, icona dei diritti civili, che aveva espresso
critiche al trattamento di Israele nei confronti dei palestinesi e sostegno al
BDS.
Ma l’attacco è fallito. In 48 ore
accademici e attivisti si sono mobilitati in risposta. Il sindaco di Birmingham,
Randall Woodfin, e il Birmingham School Board con il City Council, hanno
espresso indignazione per questa decisione dell’Istituto. Il Consiglio ha
passato all’unanimità una risoluzione per Angela Davis e si sta organizzando un
evento alternativo per celebrare il suo impegno di decenni per la liberazione
di tutti.
Non posso affermare con certezza che
King applaudirebbe Birmingham per la sua solerte difesa della solidarietà di
Angela Davis per i Palestinesi. Ma lo faccio. In questo anno nuovo voglio parlare
con maggior coraggio e determinazione sulle ingiustizie al di là dei nostri
confini, e quelle che sono finanziate dal nostro Governo e voglio schierarmi in
solidarietà con le lotte per la democrazia e la libertà. La mia coscienza non
mi lascia altra scelta.
*Michelle Alexander è diventata
editorialista del New York Times nel 2018. E’ avvocata per i diritti civili,
esperta giurista e autore del libro: “The New Jim Crow: Mass
Incarceration in the Age of Colorblindness.”
**Le leggi Jim Crow furono
delle leggi locali e dei singoli stati degli Stati Uniti d’America emanate tra
il 1876 e il 1965. Servirono a creare e mantenere la segregazione razziale in
tutti i servizi pubblici, istituendo uno status definito di “separati ma
uguali” per i neri americani e per i membri di altri gruppi razziali diversi
dai bianchi.
*editorialista del New York Times
traduzione dall’inglese a cura della
redazione
Nessun commento:
Posta un commento