Incontro-dibattito sul libro L’algoritmo sovrano. Metamorfosi
identità- rie e rischi totalitari nella società artificiale, di Renato
Curcio (Sensibili alle foglie, 2018), presso il Csa Vittoria, Milano, 27
settembre 2018
Questo ultimo libro, L’algoritmo sovrano, riflette sui
cambiamenti delle relazioni di potere che stiamo vivendo, in quella che è una
grande trasformazione antropologica che riguarda non solo la rete, in quanto
dimensione tecnologica, ma anche la formazione del sociale in cui siamo
inseriti. Ci hanno abituati a immaginare le relazioni di potere, almeno nella
loro forma più organizzata, con le analisi di Weber o Foucault, per non fare
citazioni classiche del marxismo; questo significa che in epoca moderna abbiamo
guardato il potere all’interno di un mondo che non c’è più, perché negli ultimi
trent’anni, dal 1990/91, in questo mondo è entrato un nuovo continente:
internet. È questo il primo punto su cui voglio suggerirvi uno sguardo.
Dobbiamo cominciare a guardare internet in questo modo perché è un territorio
che prima non c’era, e all’interno del quale si giocano ormai i destini
dell’economia, della comunicazione, della politica, di fatto tutti i destini
della vita delle persone che vivono nei continenti storici. Le relazioni faccia
a faccia sono diventate paradossalmente secondarie rispetto alle relazioni
alias-alias che caratterizzano la presenza nel continente di internet.
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Internet nasce negli Stati Uniti per concorso di due forze, quella militare
e quella scientifica, studi legati a università americane che avevano iniziato
a immaginare una comunicazione tra computer, quindi la costruzione di una rete.
Quando parliamo di ‘rete’ stiamo entrando progressivamente in un territorio
molto materiale, perché la rete è una cosa materiale, che esiste, dentro la
quale succedono delle cose, ma è un territorio molto diverso dalla rete
delle relazioni: è una rete di connessioni, sono computer,
macchine, che entrano in relazione.
Quando parliamo di internet parliamo quindi di una società
artificiale, non naturale, e questo è un punto importante, perché man mano
che questa rete si è espansa ha portato con sé lo stigma dei suoi iniziatori,
quindi una bandiera, che è quella degli Stati Uniti, alzata con due mani: una è
militare e una è di imprese audaci che già lavoravano con i computer, che però
fino a quel momento erano solo dei calcolatori e da lì iniziano a diventare
delle entità che entrano in una relazione tra di loro, cioè costruiscono rete.
In questo continente che si è sviluppato a una velocità spaventosa, a cui
noi come umani non siamo abituati, siamo entrati progressivamente; per quel che
riguarda l’Occidente, in trent’anni siamo arrivati a contare circa l’80-85%
delle persone coinvolte nella rete, in relazione nel lavoro, nella
comunicazione, nelle attività di qualunque genere, persone che ormai operano
più ore nella rete che al di fuori. In questo nuovo continente siamo entrati
pian piano considerandolo normale, ma anche sedotti dagli aspetti di comodità,
affascinati dalle molte operazioni possibili che questo territorio ci consente
di fare: mandare una mail, fare un gruppo Whatsapp, dire quel che pensiamo su
un social, Facebook ecc., fare circolare delle fotografie. In trent’anni questo
territorio è diventato un continente estremamente esteso e presuntuoso, al
punto da chiamarsi world wide web, darsi dunque una dimensione
mondiale, “noi siamo il mondo di internet”; è assolutamente falso. Non è vero
che internet è il mondo, è un mondo, ed è il
mondo americano; c’è anche un mondo altrettanto potente, quello cinese, dove
navigano circa un miliardo di persone, che non funziona con il codice
americano, ha strutture simili nell’ambito della ricerca, dei social ecc. ma fa
capo a un altro continente e a un’altra bandiera, quella cinese appunto. E c’è
anche un terzo continente, quello russo, ad altissimo livello tecnologico. Se
dovessimo fare delle graduatorie non sapremmo oggi quali di questi mondi è il
più potente. Quando si parla di cyberwar si parla di questo, del fatto che tra
questi continenti, che riguardano ormai la grande maggioranza della popolazione
mondiale, c’è un conflitto ampio ed estremamente profondo perché riguarda il
potere, chi lo eserciterà, chi riuscirà a colonizzare i territori che gli altri
stanno colonizzando. E qui entro nel secondo punto.
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Un continente si sviluppa nella misura in cui dei coloni istituiscono al
suo interno delle colonie. Per esempio i greci nell’VIII secolo a.C. decisero
di fondare una serie di colonie nel sud Italia, ad Agrigento, Crotone, Catania
ecc. Costruire una colonia, da un punto di vista tecnico, significa compiere un
atto materiale molto preciso: prendere degli uomini, una barca, metterla in
mare, andare in un posto, stabilirsi, dire: “Qui adesso ci sto io.
Chi vuole può entrare nella mia colonia, se qualcuno si oppone gli taglio
le testa”. Le colonie hanno sempre funzionato così, noi europei abbiamo una
grandissima storia di colonie, da Cristoforo Colombo in poi abbiamo colonizzato
quasi tutti gli altri continenti. Anche l’Italia ha una lunga storia di colonie
atroci, per esempio siamo andati in Eritrea, in Somalia, in Libia, tra la fine
dell’Ottocento e la fine del fascismo, abbiamo portato le camicie nere, i
soldati. Fare una colonia significa quindi impiantarsi materialmente su un
territorio.
Non appena è nato il territorio di internet, e sono stati i militari a
renderlo un territorio possibile per operatori non militari, quindi dal 1990 in
poi con il passaggio tecnico dell’http, il protocollo di internet, una serie di
aziende ha cominciato a impiantare colonie. I primi tempi sono state fondate
con una strategia, perché quel continente inesplorato appena nato bisognava
frequentarlo e sapere come fare, non bastava aprire una propria ‘postazione’
perché senza un sistema di relazione non succedeva nulla; i primissimi anni
sono stati infatti caratterizzati da un duro scontro tra una serie di imprese
che cercavano di impiantare dei motori di ricerca. È quella che è stata
chiamata “la guerra dei motori di ricerca”, un processo che progressivamente ha
fatto fuori i concorrenti finché le aziende più potenti, come Google, si sono
affermate e oggi sono il crocevia attraverso il quale noi entriamo in relazione
con informazioni, documenti, situazioni, indirizzi ecc.
Questi motori di ricerca esplorano una porzione di mondo, e sono in una
posizione strategica, nel senso che tutte le nostre transazioni passano
attraverso una domanda che gli poniamo. Si inventano dunque una strategia di
scambio diseguale molto interessante. Dicono: io mi sono impiantato, posso
raggiungere questo continente o gran parte di esso, più divento forte più
raggiungerò altri indirizzi, sono in grado quindi di fare questo servizio, se
tu lo vuoi mi fai una domanda e io ti rendo possibile questa operazione di
connessione, ma in cambio mi dai i tuoi dati e metadati. I dati sono la domanda
che scrivi in Google, i metadati sono il dispositivo da cui fai la domanda,
l’ora, il luogo, il tempo che stai su quel territorio. A molti è sembrata una
cosa logica, non se ne sono visti i pericoli per molto tempo, e quindi anche le
piattaforme che progressivamente si sono affermate, come Facebook, hanno
iniziato a ragionare nello stesso modo: io ti do uno spazio in una piattaforma
tu in cambio mi dai i tuoi dati, cioè i contenuti che carichi e tutto ciò che
riguarda il tempo, il giorno, l’ora, il dispositivo con cui fai queste
operazioni. È uno scambio diseguale perché quando queste strutture si sono
affermate hanno offerto un servizio gratuito e si sono prese dei dati che noi
abbiamo dato gratuitamente, però se facciamo un bilancio lo scambio non è
affatto gratuito perché noi siamo rimasti dei cittadini in braghe di tela e
queste strutture in pochissimi anni sono diventate le prime company del mondo
per fatturato e capitalizzazione; quindi ciò che gli abbiamo dato è stato il materiale
attraverso cui loro hanno costruito una profonda penetrazione nel mondo
capitalistico, sia dal lato della raccolta del denaro connesso all’utilizzo di
questi dati, sia dal punto di vista della capitalizzazione vera e propria,
gioco di Borsa e di tutto ciò che ne è seguito. Scambio diseguale dunque,
questo è il secondo punto. La colonizzazione quindi è impiantare una colonia
per realizzare uno scambio diseguale attraverso il quale realizzare un profitto
mastodontico, e nello stesso tempo un controllo delle informazioni di tutti
coloro che vivono su quel continente.
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L’ulteriore domanda che ci possiamo porre a questo punto è: qual è
l’interesse di un’impresa a impiantare una colonia all’interno di questo
continente? Ce ne sono due: il primo molto materiale, che abbiamo analizzato
prima – prendo i tuoi dati, li vendo a strutture industriali, di servizi ecc.
che possono avere interesse a fare pubblicità, ricerche di mercato e via di
seguito –; il secondo è invece un’operazione più complessa di questa: incidere
sui processi identitari delle persone che entrano nel mio continente.
Se entri nel mio continente e mi dai le tue informazioni, io ho una opzione
di potere su di te: non solo ti porto via il tempo e i dati, ma inizio a
conoscerti. Faccio un esempio che apparentemente non c’entra ma fa capire il
meccanismo. Nel 2020 in Nuova Zelanda un robot chiamato Sam si presenterà alle
elezioni politiche. È un robot dotato di un dispositivo di intelligenza
artificiale, prodotto dall’università di Wellington insieme a due aziende
private. Questo robot dice: “Io mi presento alle elezioni politiche ma non ho
alcun programma, questa è la mia forza. Vengo da voi e vi dico: sarò il
politico che vi rappresenta, non ho nessuna idea. Il gioco funziona così:
fatemi una domanda, cosa vi interesserebbe?” Una persona risponde portare
l’acqua nel rione tale, e Sam incamera questa informazione; poi un’altra e
un’altra ancora e le elabora, le divide in categorie e stabilisce delle
priorità e delle maggiori incidenze di alcune richieste su altre, e restituisce
un programma politico che è sicuramente vincente perché sarà il punto di vista
della maggioranza su ciascun problema che le persone hanno posto. Quindi alle
elezioni avrà una fortissima possibilità di vincere. Questo esempio ci
interessa anche per un altro punto di questa mia analisi, che vedremo, ma
intanto voglio farvi riflettere sul fatto qui non siamo davanti a una realtà
che si propone di vendere delle informazioni, neanche di utilizzarle a fini
pubblicitari, ma di vincere delle elezioni; vale a dire fare un gioco di potere
partendo da un dispositivo di intelligenza artificiale.
Questo punto ci pone un problema tecnico immediato che è un problema di
linguaggio, espressioni che vengono utilizzate quando si parla di queste cose;
per esempio, ‘identità digitale’. Se cerco il significato di questa definizione
ne trovo venti, trenta, e ne ricavo una grande confusione di idee perché non
riesco a capire se si intende Renato Curcio, cioè una persona, oppure il mio
dispositivo, lo smartphone che ho in tasca. È un aspetto fondamentale perché,
come dicevo all’inizio, su internet sono le macchine a comunicare, e non
comunicano con me ma con il mio dispositivo. È importante avere ben chiaro che
quando io vado su internet siamo un due ad andarci, io e il dispositivo che
utilizzo. Quindi ci sono due identità, ed è importante distinguerle. Esistono
dei sistemi di controllo, che vedremo, che prima che alle persone sono
interessati ai loro dispositivi, ed è molto importante perché è un tipo di tecnologia,
poi c’è il problema dell’identità di Renato Curcio.
Facciamo gli esempi di Facebook. Se apro un profilo sulla piattaforma,
sul libro delle facce, posso mettere la mia fotografia, quella del
mio cane, di qualcun altro, di una signora che non conosco ma così mi garba,
nessuno mi dirà niente. Facebook identifica il mio dispositivo e mi dà l’autorizzazione ad
aprire un profilo, in quanto ha l’IP da cui partono i messaggi, e quello gli
interessa; che poi io mi chiami Renato o Filippo o addirittura al femminile,
per Facebook è irrilevante. Anzi, è rilevantissimo, ma da un punto di vista di
studi di psicologia sociale: io so che il proprietario di quel dispositivo è
Filippo, e so che si presenta al femminile e comincia a intrattenere delle
relazioni con il mondo. Questo è uno straordinario scenario per chi vuole fare
un lavoro sulle molteplicità identitarie delle persone e soprattutto sui
giochetti identitari che le persone fanno tra di loro, su Facebook o su
qualunque altro social network. Se registro e storicizzo quei dati, mi danno
l’insieme di due tagli di lettura: uno possiamo chiamarlo il taglio della
‘dissonanza identitaria’, l’altro lo ‘storico delle dissonanze’ di una certa
persona. È una questione fondamentale perché le dissonanze identitarie sono la
caratteristica della nostra vita, noi viviamo di dissonanze identitarie, Bauman
parlava del “guardaroba identitario”: in ufficio vesto un’identità, con gli
amici un’altra, nel privato ancora un’altra e sui media non ne parliamo.
La distinzione tra l’identificazione del dispositivo e i processi
identitari è quindi molto importante, ed è una situazione che potremmo definire
di doppia sovranità. Nel continente virtuale ci troviamo infatti di fronte a
due interessi, che corrispondono alle due forze che l’hanno creato, e abbiamo
visto che una è quella militare, interessata innanzitutto ai dispositivi, molto
meno alle identità: le istituzioni di sorveglianza vogliono sapere dov’è un
certo dispositivo. Per questa ragione gli Stati Uniti hanno vietato per legge
che i militari americani, di qualunque ordine e grado, utilizzino uno
smartphone Huawei, dichiarando che non possono avere in tasca un dispositivo
cinese che li localizza, perché significa dire alla Cina dove sono dislocati i
militari statunitensi. Con ciò ammettendo che i dispositivi hanno dei sensori
che comunicano e possono dire a un’altra macchina dove sono. Questo è vero
anche per Samsung, Apple, per qualunque smartphone: le case produttrici possono
tranquillamente identificarli nello spazio e nel tempo.
Quindi il volto di internet legato alla mano militare comincia a
presentarsi come un volto inquietante, perché legato all’idea di sorveglianza
totale, poiché fin dall’inizio ha come intenzione pratica, assolutamente
oggettiva, quella di far circolare dispositivi che le persone utilizzano per la
comunicazione, il lavoro, l’acquisto ecc., che sono identificati nello spazio e
nel tempo.
Questo sistema di sorveglianza totale si muove su più piani. Uno è quello
della categorizzazione delle persone che frequentano il continente. L’uso
commerciale è facilmente comprensibile: se ho tutti i dati delle persone dai 16
ai 18 anni di sesso femminile nell’area romana che si interessano di musica,
posso avere una rapida algoritmica elaborazione dei gusti di quella popolazione
femminile ed è un’informazione che può essere di straordinario interesse per le
industrie che producono musica. Posso raggruppare i dati per classi di età,
gruppi regionali, aree cittadine, qualunque cosa, anche per tipologia politica,
come il comunistometro o anarchistometro, un
rilevatore dei libri che compriamo su internet che qualcuno ha definito così,
divertendosi: è chiaro che se per due anni continuo a comprare i libri di
Proudhon avrò un certo tipo di orientamento e se compro i libro di Hitler ne
avrò un altro, non sono rilevazioni difficili da fare. Ne è interessato Amazon
o anche Netflix. Chi ha quest’ultimo, sa che prima di potervi accedere ha
dovuto rispondere a una domanda semplice e banale: quali sono le categorie di
film e di serie televisive che ti interessano di più? Netflix in pratica fa
l’operazione di Sam: non so niente di te ma da questo momento comincio a
studiarti. Tu dici che ti piace Philip Dick, oppure Manzoni, Netflix ti
categorizza con un certo tipo di orientamento e poi lo verifica: se il giorno
dopo compri l’opposto ti classificherà come uno spettatore vago e indistinto,
ma se poi continui a cercare le stesse serie televisive saprà quali hai visto e
quali no, quelle che ha in catalogo e come offrirtele, e aumenterà le probabilità
di venderti un prodotto.
Abbiamo dunque due percorsi, quello dell’identità dei dispositivi e quello
dell’identità delle persone, che puntano a cose diverse ma si incontrano
entrambi con due problemi piuttosto sconvolgenti.
Il primo è che se andiamo a vedere i dispositivi, ci accorgiamo che esiste
un’infinità di macchine che sono state taroccate, un’infinità di smartphone che
non si fanno identificare, di computer che ti rimandano da server a server ma
non sai dove, che ci sono addirittura dei computer zombi che
non solo non sono da nessuna parte ma sono nel tuo computer, e tu non lo sai.
Un hacker può impiantare nel tuo computer un computer fantasma, collegare
questo zombi con tanti altri e fare un’operazione di hackeraggio, rendendo
impossibile risalire al computer da cui è partita. Questi oggetti operativi ma
non identificabili sono quelli utilizzati nelle campagne di fishing, ma non
solo, perché interessano molto anche la politica.
Se andiamo invece a vedere l’identità abbiamo un altro problema. Dentro
Facebook, per esempio, ci sono 200 milioni di profili inesistenti, falsi,
costruiti solo per fare operazioni, così come il 20% di quelli su Twitter. E
questa è ancora una microparte, perché poi abbiamo i casi come Telecom/Tim e le
sim card legate a identità false, o le persone che si fanno passare per altre,
come lo scrittore inglese Roger Jon Ellory, che sotto altra identità scriveva
entusiastiche recensioni dei suoi libri su Amazon, o Tommasa Giovannoni
Ottaviani, la moglie di Renato Brunetta, che sotto falso nome, Beatrice Di
Maio, aveva aperto un profilo Twitter da cui lanciava a raffica tweet contro
l’allora Presidente del Consiglio Renzi e contro il Presidente della Repubblica
Mattarella; oppure anche il caso di Amina Arraf, la blogger che dalla Siria
dava notizie in tempo reale, tenuta in gran conto per un po’ dall’informazione
internazionale, finché non si è scoperto che era in realtà Tom MacMaster, un
dottorando di Edimburgo, che scriveva dalla Scozia. Queste storie sono
interessanti per riflettere sul fatto che quando ci muoviamo sul lato delle
identità incontriamo territori sconosciuti. Su internet esistono siti che
forniscono un’identità falsa completa: nome, cognome, professione, telefono,
mail, via, nonni, curriculum ecc. Per non parlare dei morti ancora operativi
con i loro profili, Pannella, per dirne uno.
Ricapitolando: sul piano dei dispositivi gli Stati sanno dove sono le
macchine, le macchine non sono tutte identificabili; sul piano delle identità
le aziende interessate ad avere dati sono poco interessate a sapere fino a che
punto e a che gioco stai giocando, perché avendo uno storico possono
facilmente profilare anche i falsi profili e vedere con si stemi di esclusioni
quelli che servono per fare pubblicità e soldi e quelli che servono per fare
numero – un aspetto importante perché più utenti ha una piattaforma, più
raccoglie pubblicità.
***
Ora proviamo a fare un passo un po’ più inquietante, e consentitemi di fare
un’operazione di tipo metodologico che Marx consigliava e che è stata poi
sviluppata da Henri Lefebvre, e si chiama ‘metodo regressivo progressivo’: per
guardare un certo problema può essere utile fare tre passi indietro e un
piccolo esercizio di specchio.
Se scendiamo nel momento totalitario per eccellenza del Novecento, quindi
nazismo e anche fascismo – e qui utilizzo una nozione di totalitarismo in modo
tecnico, non mi addento nella polemica tra storici se il fascismo sia stato
totalitario o meno – e utilizzo l’analisi profonda che ne hanno fatto
soprattutto Hannah Arendt e Bauman, vedo che tre punti fondamentali dei sistemi
totalitari li ritroviamo nel continente di internet.
Primo: quando andiamo a vedere la base sociale ci troviamo di fronte a
persone singolarizzate. I sistemi totalitari rompono i sistemi organizzativi e
di legami, rompono l’idea stessa di classe. Non ci può essere una classe perché
c’è una dimensione plebiscitaria, in piazza Venezia a un comizio del duce non
ho una differenza tra operai e padroni, prefetti, poliziotti e chiunque altro:
indipendentemente dai loro interessi singolari, sono uniti in una solitudine
totale, siamo in una folla di persone solitarie non unite da legami reali di
interessi comuni. Questo è un aspetto che ritroviamo sia nel nazismo che nel
fascismo.
Secondo: la negazione delle differenze di classe. È un punto importante
perché Casaleggio, o anche Salvini, affermano che non c’è più né destra né
sinistra. È una tesi di Mussolini. Arendt l’ha scritta e documentata nei tre
volumi sul totalitarismo, nel secondo. Oggi ritroviamo questa polverizzazione
dei concetti e delle relazioni. Populismo è una parola priva di senso, perché
non c’è nessun popolo in una situazione di insieme quando gli interessi sono i
più diversi: il proprietario della piattaforma Foodora e il fattorino di
Foodora potranno stare accanto in una manifestazione ma non hanno un interesse
comune sul piano politico, perché quest’ultimo prevede la rappresentanza degli
interessi di qualcuno, e in un contesto capitalistico gli interessi del
fattorino e gli interessi di chi ha piattaforma non corrispondono.
Terzo: quello che Arendt chiama la “fuga nella finzione”, ed è un
corollario del punto precedente. È chiaro che se i tuoi interessi non
sono comuni, devo creare una finzione dentro la quale questi interessi
diventano comuni. La post-verità di oggi per esempio, una verità che è
intenzionale, non reale, costruita perché funzionale a uno scopo. Oggi la
creazione di finzioni è un’attività lavorativa, ci sono agenzie che lo fanno,
per esempio la Casaleggio Associati è una struttura nata parecchi anni fa per
fare marketing politico ed economico, e il marketing è la costruzione di una
finzione che ti induca a comprare quella bambola, o una pubblicità che ti
invogli a seguire una proposta di acquisto o una proposta politica.
Questi tre momenti si uniscono a un quarto, che è quello su cui voglio
portare la vostra attenzione. Accennavo prima che il controllo sociale sta
diventando molto predittivo e preventivo: perché devo aspettare che una persona
rubi una mela se attraverso il monitoraggio dei profili posso individuare delle
categorie di rischio che sono quelle che più probabilmente ruberanno una mela?
Questa è un’idea positivista, nata negli anni Trenta durante il fascismo, ed è
molto importante sia perché il positivismo paradossalmente veniva dal mondo
socialista, e ha influenzato il pensiero moderno fino a oggi, sia perché è il
fondamento del pensiero scientifico della rete. Oggi l’università di Google, la
Singula rity University, più di 100 sedi in moltissimi Paesi e aperta anche a
Roma e a Milano, insegna esattamente questo: tu hai a che fare con dei numeri,
una logica quantitativa, non con altri tipi di problemi; la rete è fatta di
numeri e di algoritmi e funziona solo se stai dentro quel sistema, che è chiuso
e positivo e devi quindi leggere con il criterio delle leggi delle scienze
positive – la matematica, la fisica ecc. È importante questo nesso con il
positivismo perché inventa l’idea di delitto possibile, che si sviluppa nel
Novecento e dà origine in Italia alla nascita della polizia scientifica, ed è
su questa base che viene inventato il cartellino Ottolenghi, il cartellino
segnaletico. Ottolenghi era un positivista e l’approccio era questo: poniamo
che se uno ha rubato una mela un giorno, è verosimile che la possa rubare
ancora; quindi intanto gli prendiamo due cose, le impronte digitali, che
mettiamo su un cartellino, e la fotografia; la prossima volta che qualcuno
ruberà una mela, per prima cosa andremo a vedere quelli della categoria
‘rubatori di mele’, poi se non lo troviamo lì faremo delle indagini. Questa
idea all’epoca aveva a che fare con la carta e con la fotografia, eravamo nel
Novecento, oggi ha a che fare con la biometria. Vale a dire: visto che so che
con la tua identità fai i giochi che vuoi, e te lo lascio fare perché mi può
servire sul piano psicologico per fare delle profilazioni, per identificarti
faccio delle operazioni più serie: ti prendo le impronte biometriche, le metto
su un chip e le fisso su una carta elettronica, dopodiché ti attribuisco
un numero unico, perché io lavoro con i numeri, e ti identifico nel mondo con
un codice unico: quel codice, quel pattern facciale, quelle impronte digitali e
quella scansione dell’iride. Non è fantascienza, sono sistemi politici reali
che partono dall’India e arrivano all’Italia. Quattro esempi molto precisi.
Primo. L’India è un Paese di 1,3 miliardi di persone e ha un Ministero
dell’Informatica tra i più avanzati del mondo, perché ci sono alcune università
di informatica e matematica pura che sono tra le migliori a livello globale.
Nel 2009 il ministro inventa una carta elettronica per la soluzione di un
grande problema, il sistema delle sovvenzioni alle persone più povere. Si
tratta di costruire un sistema che consenta di non dare due volte lo stesso
contributo alla stessa persona, che caso mai si fa passare per un’altra. Viene
creata una carta elettronica che comprende tre caratteristiche biometriche: le
impronte, il pattern facciale e la scansione dell’iride. Viene detto agli
indiani che la carta è volontaria, non c’è nessun obbligo, tuttavia chi ce l’ha
sarà favorito, passerà per primo perché la sua richiesta di sovvenzioni può
essere gestita con molta tranquillità. Averla viene quindi posto come vantaggio
e si lascia ai cittadini la scelta. Oggi la Aadhaar Card è obbligatoria e non
serve più per i contributi ma per pagare le tasse, acquistare una sim
telefonica, prenotare un treno, per qualunque tipo di operazione.
Secondo. Nel 2014 la Cina, dopo aver studiato a lungo i pregi e i limiti di
una struttura di questo genere, perfeziona il dispositivo e fa una carta che si
chiama ‘carta di credito sociale’ e la propone volontariamente ai cittadini.
Contiene gli stessi tre riferimenti biometrici, pattern facciale, impronte
digitali e iride, e la presenta nel quadro di un gioco nazionale a premi, un
gioco importante per la cittadinanza, un gioco democratico, che consiste nel
fatto che chi si doterà di questa carta acquisirà un punteggio per le sue
attività. Per esempio: paghi le bollette della luce regolarmente? Tutti i mesi
ricevi 10 punti. Hai un curriculum scolastico perfettamente in regola? 10
punti. Hai perso un anno? 9 punti. Non hai pagato una bolletta? 8 punti. Un
computer fa poi la somma in tempo reale e la popolazione cinese viene
gerarchizzata in base a un punteggio chiamato ‘punteggio di affidabilità’.
La genialità della proposta cinese sta nel fatto che il
sistema a premi è quello dei videogiochi, di Facebook, i mi piace,
e funziona perché è ciò con cui le ultime generazioni crescono. È un aspetto
interessante perché è un dispositivo che fa giocare una partita in cui ti senti
più cittadino di un altro se ottemperi a tutte le regole che gli algoritmi
hanno stabilito. Ma le regole le ha fissate chi governa, e questo significa che
sto costruendo un sistema di obbedienza al quale tu corrispondi oppure no; se
non corrispondi a ciò che io, come Stato, reputo sia il bene, ti tolgo dei
punti. E te li tolgo se frequenti tra i tuoi amici degli ex carcerati,
frequentali pure ma perdi due punti; oppure te ne do se sei un ottimo lavoratore,
ossia non ti rifiuti di fare ore in più se ti vengono richieste. Teniamo
presente che questo sistema dei punti oggi esiste dentro la Fca, l’ex Fiat: a
Melfi ci sono i cartelloni su cui in tempo reale i lavoratori vedono quanti
punti di produttività hanno con i ritmi che stano seguendo.
Terzo. Da un paio d’anni in Svezia tutti hanno una carta elettronica
biometrica, il Ministero del Futuro l’ha inventata dicendo ai cittadini: perché
siete così sciocchi da tenervi la carta d’identità, la carta di credito, il
passaporto, tanti documenti dentro un portafoglio quando potete averne uno
solo, un codice unico con i dati biometrici e un microchip con tutte le
operazioni che vi riguardano? Pochi mesi fa il Ministero del Futuro se n’è
inventata un’altra. Ha detto: la carta elettronica si può perdere. Ha quindi
fatto una proposta per 3.000 volontari che si sottoponessero a un esperimento,
trasferire la carta digitale sottopelle – in Svezia non è una novità, da tempo
si possono anche prenotare i treni con un microchip sottopelle e in fabbriche e
università ci sono lavoratori e docenti che ce l’hanno. Ebbene, il Ministero ha
dovuto chiudere l’e sperimento dopo pochissimo tempo perché si sono presentate
molte più persone.
Ora veniamo all’Italia, dove dal 2014 esiste la carta d’identità
elettronica. Le cose vanno talmente a rilento che non sono state neanche
discusse. Se andate all’ufficio anagrafe portando una fotografia formato
tessera fatta a una macchinetta qualsiasi non va bene, bisogna farla con quella
del municipio, perché deve avere delle caratteristiche specifiche, di fatto il
pattern facciale; vi chiedono poi di mettere i polpastrelli del dito indice di
entrambe le mani in uno scanner, e sono le impronte digitali; vi assegnano
infine un numero, che non è il numero della carta d’i dentità, come una volta.
Il Ministero dell’Interno invia poi un documento a casa con due parti di
codice, per attivarla, e c’è scritto che il micro chip ad altissima tecnologia
contenuto nella carta d’identità elettronica consentirà di fare tutte le
operazioni con l’amministrazione dello Stato. In conclusione c’è un codice PIN
e un codice PUC, un codice unico e le impronte biometriche. Siamo esattamente
nell’arco di Cina e India.
Questo sistema è importante perché farà saltare tutti i sistemi di
falsificazione identitaria, trasferendo in tasca con uno smartphone, o prima o
poi sottopelle, l’identificazione non l’identità, il processo di
verificazione.
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Definisco questo percorso ‘tendenzialmente totalitario’. ‘Tendenzialmente’
perché a differenza degli scienziati e dei docenti che insegnano l’intelligenza
artificiale, che sono assolutamente convinti che entro gli anni Venti/Trenta
del 2000 i sistemi AI riusciranno a gestire per intero la società artificiale,
e quindi la AI sarà così potente da rendere l’intelligenza umana assolutamente
subalterna, e il sistema macchinico prenderà il sopravvento sull’umano così
come lo conosciamo dall’homo sapiens a oggi, io non sono invece affatto
convinto che l’homo sapiens sia arrivato alla fine della sua storia. Per due
ragioni.
La prima è legata a un’osservazione generica della storia di questa specie.
Negli ultimi 7-8000 anni, che sono quelli che storicamente possiamo valutare
con più attendibilità, la nostra specie ha fatto molti passi, sicuramente nel
campo tecnologico ma anche psico-sociale e di sistemi, ma non è ancora
riuscita, per esempio, a risolvere il problema della convivenza; siamo una
specie che non sa convivere, facciamo guerre di tutti i tipi, ci ammazziamo
l’un l’altro, siamo dentro sistemi conflittuali ancora fortemente primitivi,
ancora pensiamo che se uno viene da un altro Paese del mondo gli chiudiamo le
porte in faccia. Quindi penso che questa specie deve fare ancora tanti passi
evolutivi che sono la condizione stessa della sua crescita e realizzazione, e
credo che voler delegare a una intelligenza macchinica il destino e la vita
della nostra specie sia la più atroce delle prospettive totalitarie.
Seconda cosa, ho ancora fiducia che le persone, gli umani, sappiano fare un
ragionamento molto semplice intorno all’uso della tecnologia, vale a dire che
non si tratta di essere contro, io non sono contro la tecnologia, sono felice
che l’umanità abbia inventato la scrittura, la ruota, l’elettricità, la
macchina e qualsiasi altra cosa, quello che non mi rende felice è ciò che non
ha fatto felice milioni di persone, ossia che questo oggi avvenga all’interno
di un sistema capitalistico, che è un modo di produzione assolutamente barbaro,
arcaico, superato dalle sensibilità comuni.
Ci dobbiamo quindi sbarazzare di queste prospettive partendo dal territorio
degli umani, ricomponendo un sistema di legami che ci facciano capire che
dobbiamo affrontare insieme i problemi del nostro svilup po senza chiudere le
porte in faccia a nessuno, e anzi dotandoci delle tecnologie idonee a sfruttare
nel modo migliore le risorse del mondo per stare bene tutti. Quindi il punto è
una prospettiva diversa, non un uso diverso degli strumenti, e non è una
polemica banale sull’intelligenza artificiale, è una polemica che riguarda la
specie, non la tecnologia. Questo è il senso del mio ragionamento, ed è anche
il senso per cui ritengo che continuare a sviluppare questo tipo di ricerca e
di riflessione sia un’esigenza sociale profonda.
***
Chiudo lanciando un allarme che è politico e riguarda la metamorfosi del
sistema italiano. Siamo all’interno di un processo di trasformazione del
sistema politico da sistema politico novecentesco a un sistema digitale, e
questa trasformazione ha una caratteristica: il soggetto politico delle
campagne elettorali non sono più i politici, non sono più gli umani, ma sono
delle agenzie. In Italia ci sono due agenzie potenti. Una è la Casaleggio
Associati, ed è l’agenzia del Movimento 5 stelle, l’altra è Sistemi Intranet,
ed è l’agenzia di Salvini, molto meno nota ma altrettanto potente. Sono agenzie
per le quali lavorano moltissimi tecnici e studiosi dei sistemi digitali,
quella di Salvini è gestita da Luca Morisi, un digital philosopher,
e quella di Casaleggio prima da Gianroberto Casaleggio e ora dal figlio.
Casaleggio padre era uno dei massimi conoscitori e tecnici delle reti internet,
e precedentemente di quelle aziendali – è stato dentro Olivetti. Ha lavorato
con l’Italia dei valori di Di Pietro, per costruire il primo sistema
informatico sperimentale che però non ha funzionato molto bene, e ha inventato
un sistema più complesso, il sistema 5 stelle, che è quello in cui ci troviamo.
Non mi interessa entrare nel merito delle politiche dei due partiti, ma dei
dispositivi.
Queste strutture, che lavorano sia sul piano dell’identificazione dei
dispositivi sia su quello della manipolazione dell’identità, sono agenzie che
operano a un unico scopo: profilare le identità politiche del corpo elettorale
per realizzare dei sistemi di intervento personalizzato, di micro-target, per
la manipolazione delle scelte. È qualcosa che abbiamo già visto all’opera negli
Stati Uniti con la campagna presidenziale di Obama ma soprattutto in quella di
Trump, e che abbiamo visto sotto forma di un grande scandalo, quello della
Cambridge Analytica, che aveva a che fare con Steve Bannon, uno dei massimi
esponenti del suprematismo bianco della destra radicale americana e dei grandi
capitalisti che hanno portato al potere Trump. A Bruxelles Bannon ha aperto una
sede, The Movement, che ha lo scopo di connettere e collegare le
agenzie che in Europa lavorano per partiti consimili, e la prospettiva sono le
elezioni europee del 2019. Siamo quindi dentro una grandissima campagna
elettorale che riguarderà tutti i Paesi della Ue. Queste operazioni non le fa
Salvini e non le fa Di Maio, non le fanno i singoli politici ma delle
agenzie, che sono legate a università che hanno dei nomi molto forti; Link
Campus, per esempio, da cui proviene l’attuale ministro della Difesa,
Elisabetta Trenta. Sono università che lavorano con i Paesi e i servizi di
tutto il mondo, con i contractor e con i militari.
Stiamo insomma andando in una certa direzione. Io vi propongo di non
guardarla soltanto nella sua quotidianità, battute e controbattute dell’uno
contro l’altro, ma nelle sue strutture profonde, vale a dire in chi organizza
questa operazione sul web, sul continente virtuale, per catturare attenzione e
voti e manipolare le scelte dei sistemi elettorali.
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