Per chi critica Michelle Alexander, i palestinesi non
meritano diritti civili - Amjad Iraqi
Lo scandalo da parte di personaggi dell’establishment
ebraico in merito all’editoriale di Alexander sul New York Times a sostegno dei
diritti dei palestinesi ricorda le reazioni degli americani bianchi al
movimento per i diritti civili decenni fa.
Il forte editoriale di Michelle
Alexander sul “New York Times” di sabato (“E’ tempo di rompere il silenzio
sulla Palestina”) prima del giorno della commemorazione di Martin Luther King
Jr., è stato presumibilmente una pietra miliare per il movimento per la
Palestina negli USA.
Primo, per chi l’ha
scritto: Alexander, l’autrice del fondamentale libro “The New Jim Crow” [in
riferimento alle leggi segregazioniste nel Sud degli Stati Uniti, ndtr.] è
un’illustre avvocatessa e un’intellettuale stimata per il suo attivismo e la
sua erudizione sul razzismo negli USA, che non può facilmente essere liquidata
come “marginale”.
Secondo, per dove è
stato scritto: in un importantissimo giornale, che ospita più frequentemente
editoriali di sostenitori di Israele come Bari Weiss, Matti Friedman, Bret
Stephens, Shmuel Rosner, persino ministri come Naftali Bennett [attuale
ministro dell’Educazione di Israele e dirigente del partito di estrema destra
dei coloni, ndtr.].
Terzo, per quando è
stato scritto: Alexander è l’ultima importante afro-americana negli ultimi mesi
ad aver espresso a voce – e ad essere presa di mira per questo – la sua
solidarietà con il popolo palestinese, dopo che altri, come Tamika Mallory
[attivista della Marcia delle Donne, ndtr.], Marc Lamont Hill [accademico,
scrittore, attivista e personaggio televisivo, ndtr] e Angela Davis [storica
dirigente del movimento per i diritti degli afro-americani e accademica, ndtr],
hanno affrontato pubblicamente insulti e sconfessioni.
E quarto, perché è
stato scritto: per sfidare il diffuso timore delle conseguenze, da parte di
molti americani progressisti, di criticare pubblicamente Israele e parlare a
favore dei diritti dei palestinesi.
Lo scandalo per l’editoriale di
Alexander è arrivato rapidamente da gruppi e personalità dell’establishment
ebraico. Alcuni di essi vale la pena leggerli per intero, se non altro per
testimoniare l’isteria e la chutzpah [termine hiddish per arroganza, ndtr], di
dire a una donna nera come commemorare uno dei più importanti leader afro-americani
della storia, o come interpretare la sua consapevolezza dell’ingiustizia:
·
L’Anti-Defamation League [Lega contro la Diffamazione, uno dei principali
gruppi della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] (ADL): “Abbiamo un grande
rispetto per Michelle Alexander e per il suo lavoro innovativo sui diritti
civili, ma il suo articolo sul complesso conflitto israelo-palestinese è
pericolosamente errato, ignora avvenimenti fondamentali, la storia e le
responsabilità condivise di entrambe le parti per la sua soluzione.”
·
L’American Jewish Congress [Congresso Ebraico Americano, altro potente
gruppo filo-israeliano, ndtr.] (AJC): “La memoria di Martin Luther King non è
una clava morale da brandire contro ogni causa o Paese che uno disapprova.
L’editoriale di Michelle Alexander è una vergognosa usurpazione. Tutti noi
abbiamo da fare un lungo cammino per raggiungere la cima della collina
[riferimento al famoso discorso di Martin Luther King “Ho un sogno”, ndtr.].
Non c’è bisogno di prendersela con il democratico Israele.”
·
David Harris, presidente dell’AJC: “L’articolo
di Michelle Alexander: in sintesi chiede la fine di Israele/ cita con
approvazione gli estremisti/ invoca l’appoggio di Martin Luther King senza basi
concrete/ ignora: la ricerca della pace da parte di Israele dal ’48; la natura
di Hamas; il terrorismo; i rifugiati ebrei dai Paesi arabi.”
·
David Friedman, ambasciatore USA in Israele. “Michelle Alexander ha torto
sul NYT di oggi. Se Martin Luther King oggi fosse vivo penso che sarebbe molto
orgoglioso del suo solido appoggio allo Stato di Israele. Un arabo in Medio
Oriente che sia gay, donna, cristiano o desideri istruzione e miglioramento
personale non potrebbe fare niente di meglio che vivere sotto (la bandiera
israeliana).”
·
Michael Oren, deputato alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] di
Kulanu [partito di centro israeliano, ndtr.] ed ex-ambasciatore israeliano
negli USA: “L’ambasciatore Friedman ha ragione, ma Israele deve intraprendere
passi seri per difendersi. Mettendo sullo stesso piano l’appoggio nei confronti
di Israele con quello alla guerra del Vietnam e l’opposizione a Martin Luther
King Alexander ci delegittimizza pericolosamente. È una minaccia strategica e
Israele deve trattarla come tale.”
Prevedibilmente queste personalità
dell’establishment stanno cercando di potenziare i parametri del discorso
“accettabile” sul conflitto. Per quanto li riguarda, non esiste alcuna
posizione eticamente legittima a sostegno dei diritti dei palestinesi. L’unica
cosa che i palestinesi producono sono razzi e razzismo, chiunque sia associato
alla loro causa è in errore o è antisemita.
È particolarmente ironico che quelli che
accusano Alexander di manipolare l’eredità di King sono anche noti per
sostenere, tra le altre cose, che utilizzare tattiche non violente come il
boicottaggio contro Israele è razzista, discriminatorio, provocatore, e/o
dannoso. King, e il movimento dei diritti civili nel suo complesso, vennero
accusati delle stesse cose durante le loro campagne di disobbedienza civile
negli anni ’50 e ’60.
Come ha raccontato Jeanne Theoharis sul
“Time” [importante periodico USA, ndtr.] di questo mese, il governo USA, l’FBI
e le forze di polizia locali utilizzarono una pesante sorveglianza, la forza
brutale e denunce penali per sabotare King e altri dirigenti neri, vedendo le
loro attività come “pericolose”, “demagogiche” e “sovversive”. Dati di sondaggi
e risposte ai media dell’epoca mostrano ulteriormente che, lungi dall’essere
rispettato, il movimento dei Diritti Civili era di fatto “profondamente
impopolare” tra la maggioranza dei bianchi americani sia nel Sud che nel Nord:
“La maggioranza degli americani
pensava che esso (il movimento) stesse andando troppo lontano e gli attivisti
del movimento stessero diventando troppo estremisti. Alcuni pensavano che i
loro obiettivi fossero sbagliati; altri che gli attivisti stessero prendendo la
strada sbagliata – e la maggioranza dei bianchi americani era soddisfatta dello
status quo così com’era. E quindi, criticavano, controllavano, demonizzavano e
a volte criminalizzavano quelli che sfidavano il modo in cui stavano le cose,
rendendo il dissenso molto oneroso.”
Ciò descrive precisamente le condizioni
del movimento per la Palestina di oggi. Non solo nel discorso pubblico
americano le richieste di diritti per i palestinesi sono spesso viste come
estremiste (soprattutto il diritto al ritorno), ma l’opposizione alle politiche
israeliane deve affrontare una struttura politica e legale aggressiva
finalizzata a reprimerla. Questo include le nuove leggi federali e statali che
hanno lo scopo di criminalizzare il movimento BDS e di confondere le critiche
ad Israele con l’antisemitismo.
Inoltre il fatto di descrivere
frequentemente Israele come una vittima dell’oppressione palestinese, o che
entrambe le parti condividano alla pari le responsabilità è un inganno che
nasconde l’evidente asimmetria del conflitto. Spiegando perché era disonesto
dire ai neri americani di fare di più per superare la diseguaglianza a loro
danno, una volta King disse a un giornalista: “È una beffa crudele dire a un uomo
senza scarpe che deve risollevarsi da solo con le sue forze.” È in mala fede
proprio come dire che i palestinesi hanno da rimboccarsi le maniche mentre sono
sottoposti all’esilio, all’occupazione, al blocco, alla discriminazione e alla
repressione del dissenso.
Come ha notato Alexander, all’epoca King
era un sostenitore esplicito di Israele e del sionismo. Tuttavia divenne sempre
più difficile per lui conciliare quella posizione con i valori universali che
propugnava. Oggi è persino ancora più chiaro che il fatto di credere nella
giustizia, nell’uguaglianza e nel risarcimento per i popoli oppressi –
richieste che sono al cuore della causa palestinese – sia all’antitesi
dell’obiettivo di Israele di conservare la superiorità ebraica e della sua
visione della non violenza palestinese come equivalente alla violenza.
È questa consapevolezza che ha portato
oggi molti attivisti afro-americani – che hanno seguito, si sono basati sulla e
trasformato l’eredità di King – a includere i diritti dei palestinesi nella
loro lotta per la giustizia globale. Come ha scritto Alexander, le pratiche
israeliane sono diventate inevitabilmente “un richiamo all’apartheid in Sud
Africa e alla segregazione “Jim Crow” negli Stati Uniti,” e come tali
richiedono che i progressisti siano coerenti con i valori che affermano di
sostenere. Il fatto che una persona come Alexander abbia aggiunto la sua voce a
questo crescente movimento potrebbe ulteriormente allargare la porta perché
altri facciano lo stesso.
Benché sia impossibile sapere quello che
King avrebbe creduto oggi, si può immaginare che sarebbe rimasto sconcertato da
quanto siano simili le reazioni alla causa palestinese a quelle degli americani
bianchi alla sua causa. Nonostante quanto sostengono i critici di Alexander, il
vero tradimento dell’eredità di King è pensare che i palestinesi debbano
rimanere sottomessi alle pretese suprematiste di Israele, come se non
meritassero gli stessi diritti per i quali King lottò affinché li ottenesse il
suo stesso popolo.
(traduzione di Amedeo Rossi)
Israele ha
appena “perso Cronkite” – la lotta per i diritti dei palestinesi al “New York
Times” - Robert Herbst
Nel lontano gennaio 1968, dopo una serie
di attacchi dei nordvietnamiti e dei vietcong noti come “l’offensiva del Tet”,
Walter Cronkite, presentatore nel notiziario CBS della sera e il giornalista
più autorevole d’America, ritornò da un viaggio in Vietnam per riportare quello
che vi stava succedendo. Alla fine del suo reportage del 27 febbraio, Cronkite,
che raramente osava esprimere la propria opinione in diretta, espresse il suo
verdetto:
“Ora pare più sicuro che mai che la
sanguinosa esperienza del Vietnam sta per finire in una situazione di stallo… È
sempre più chiaro a questo reporter che l’unico modo razionale per uscirne sarà
negoziare, non come vincitori, ma come gente onesta che ha mantenuto fede
all’impegno di difendere la democrazia ed ha fatto il meglio che ha potuto.”
Si dice (con qualche polemica) che, dopo
aver sentito questa dichiarazione, il presidente Lyndon B. Johnson abbia detto
a un suo collaboratore: “Se abbiamo perso Cronkite, abbiamo perso il ceto medio
americano.” Ma non c’è discussione sul fatto che il giudizio di Cronkite
secondo cui la guerra del Vietnam era in una situazione di stallo impossibile
da vincere sia stato un momento di svolta: ebbe un fortissimo impatto sulla
discussione riguardo alla guerra e al corso della nostra politica. Diede un
enorme impulso alla campagna contro la guerra di Gene McCarthy [candidato del
partito democratico alle primarie per le presidenziali, ndtr.]; Bobby Kennedy
scese in campo poche settimane dopo con un programma contro la guerra; il 31
marzo 1968, in un indimenticabile discorso alla Nazione, il presidente Johnson
rinunciò a candidarsi di nuovo a presidente.
Oggi non c’è un “giornalista più
autorevole d’America”. Il giornalismo è frammentato, in quanto ci siamo
ritirati nei nostri rispettivi orticelli politici sia nelle notizie stampate
che via cavo (e anche in internet). Ma se c’è qualcosa di simile all’arbitro
più influente dell’opinione politica americana, questo è il “New York Times”. È
letto quotidianamente dalla classe politica e liberal, progressisti e centristi
dentro e fuori la “Beltway” [area di Washington in cui si concentrano gli
uffici del potere, ndtr.]. Rimane il primo come diffusione complessiva tra
quanti fanno opinione negli USA. Secondo l’ex-reporter del “Times” Neil Lewis,
che nel 2012 ha scritto un articolo informativo per la Columbia Journalist
Review [rivista per giornalisti della Columbia University, ndtr.] sul modo in
cui il giornale ha informato su Israele, esso ha svolto anche la funzione di
“giornale locale dell’ebraismo americano per più di un secolo.”
Ironicamente, dopo aver comprato il
giornale ed essersi spostato dal Tennessee a New York, il fondatore Adolph Ochs
era deciso a che il Times non apparisse mai come un “giornale ebraico” o un
particolare sostenitore della causa ebraica. Durante la Seconda Guerra Mondiale
la sottovalutazione dell’Olocausto da parte del giornale fu duramente criticata
dalla comunità ebraica. Arthur Hays Sulzberger, genero di Och ed editore dal
1935 al 1961, non era sionista, convinto, insieme al suo nonno acquisito, il
rabbino Isaac Mayer Wise, un fondatore dell’ebraismo riformato, che gli ebrei
fossero seguaci di una religione, non un popolo o una nazione.
Neil Lewis descrive come la narrazione
su Israele da parte del “Times” sia cambiata nel corso degli anni, sotto
l’influenza della propaganda israeliana, o hasbara, uno sforzo con
cui i palestinesi non potevano competere. “Teddy Kollek, sindaco di Gerusalemme
dal 1965 al 1993, conosceva per nome ogni direttore del “Times”.” E i direttori
del “Times” che visitavano Israele erano in genere “trattati come ospiti
reali.” Lewis descrive anche come i direttori del “Times” reagirono
negativamente a vari esempi di informazione critica su Israele negli anni ’80 e
fino alla fine degli anni ’90 da parte dei corrispondenti del giornale da
Gerusalemme. L’ex-direttore esecutivo Max Frankel ha ammesso la parzialità
quando era direttore degli editorialisti. Nelle sue memorie (come vengono
citate nel libro “The Israel Lobby”) [La Israel Lobby e la politica estera
israeliana, Mondadori, 2007, ndtr.], egli ha scritto:
“Ero molto più fedele a Israele di
quanto osassi affermare…Forte della mia conoscenza di Israele e delle mie
amicizie là, io stesso ho scritto la maggior parte dei nostri articoli di
commento sul Medio oriente. Come più lettori arabi che ebrei hanno
riconosciuto, li ho scritti da una prospettiva filo-israeliana.”
Lamentele in merito alla copertura
informativa di parte su eventi riguardanti Israele-Palestina sono state un
elemento chiave su questo sito per anni. L’ex capo redattore dell’ufficio di
Gerusalemme Jodi Rudoren frequentava Abe Foxman [influente membro della lobby
filoisraeliana negli USA, ndtr.] e mostrò indifferenza culturale verso i
palestinesi. Almeno quattro reporter del giornale hanno avuto figli
nell’esercito israeliano. In quanto lettore del giornale negli ultimi 60 anni,
so che la voce dei palestinesi che descrivono la propria lotta per i diritti
umani e la dignità raramente è comparsa in queste pagine, mentre commenti
filo-israeliani considerati attendibili sono arrivati per anni dagli
editorialisti del “Zionist Times” David Brooks e Tom Friedman, e più
recentemente da Bret Stephens, Bari Weiss, Shmuel Rosner e Matti Friedman.
All’inizio dello scorso anno, il primo
gennaio 2018, tuttavia, il trentottenne A.G. Sulzberger ha sostituito suo padre
come direttore (dopo un periodo di un anno come vice direttore). Da quando ha
assunto l’incarico pare che siano in corso cambiamenti nel giornale sul fronte
israelo-palestinese. Lo scorso anno l’editorialista da poco assunta Michelle
Goldberg ha definito le uccisioni lungo la barriera di Gaza come un “massacro”
e ha difeso l’antisionismo come una posizione legittima per ebrei e non ebrei,
distinguendola dall’antisemitismo.
E oggi l’editorialista neo-assunta
Michelle Alexander ha chiesto di “rompere il silenzio” sulla Palestina:
“Dobbiamo condannare le azioni di
Israele, le incessanti violazioni delle leggi internazionali, la continua
occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme est e di Gaza, le demolizioni
delle case e le confische delle terre. Dobbiamo alzare la voce contro il
trattamento dei palestinesi ai checkpoint, le periodiche perquisizioni nelle
loro case, le restrizioni alla loro libertà di movimento e l’accesso gravemente
limitato a una casa decente, alla scuola, al cibo, agli ospedali e all’acqua
che molti di loro devono subire.
Non dobbiamo tollerare il rifiuto di
Israele persino a discutere del diritto dei rifugiati palestinesi a tornare
alle proprie case, come previsto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite e
dobbiamo mettere in questione i fondi del governo che hanno sostenuto
molteplici conflitti e migliaia di vittime civili a Gaza, così come i 38
miliardi di dollari che il governo USA ha assicurato all’ appoggio militare di
Israele.
E infine dobbiamo parlare a voce alta,
con tutto il coraggio e la convinzione che possiamo trovare, contro il sistema
di discriminazione legale che esiste all’interno di Israele, un sistema
composto di…più di 50 leggi che discriminano i palestinesi…ignorando i diritti
della minoranza araba che rappresenta il 21% della popolazione.”
Questa avvocatessa per i diritti umani e
autrice di “The New Jim Crow” [“Il nuovo Jim Crow”, in riferimento alle leggi
discriminatorie nel Sud degli Stati Uniti, ndtr.] è molto rispettata da
progressisti e centristi del partito democratico, ed anche nella comunità
ebraica come in quelle di colore. Rompendo il suo silenzio su Israele/Palestina
ha reso pubblico un rapporto accuratamente strutturato e con fonti attendibili
che mette in primo piano il dramma dei palestinesi “che lottano per
sopravvivere sotto l’occupazione israeliana.” La confessione dell’immoralità
del suo precedente silenzio – a causa delle preoccupazioni che “calunnie”
filo-israeliane avrebbero danneggiato o screditato il suo lavoro per la
giustizia sociale a favore della sua e di altre comunità emarginate – risuonerà
nei cuori di quelli che, come me, hanno anche loro rotto il silenzio, e su
molti altri che sanno quanto questa oppressione sia sistematica, costante e
pervasiva – e come gli americani l’agevolino – ma non hanno ancora avuto il
coraggio di parlarne. La sconfessione da parte di Alexander di quello che ha
motivato il suo silenzio si spera influenzerà altri a farlo anche loro,
nonostante il fatto che sono già stati sguainati i coltelli contro di lei da
parte dei soliti sospetti.
L’appello di Alexander ad appoggiare la
lotta palestinese e la sua evocazione del coraggioso appello di Martin Luther
King per la fine della guerra del Vietnam – un anno prima di Cronkite – è una
svolta per il “Times”, come lei implicitamente nota:
“Non molto tempo fa era veramente raro
sentire questo punto di vista. Non è più così.”
Dando all’articolo di Alexander rilievo
nella prima pagina della “Sunday Review” [sezione degli editoriali del NYT,
ndtr.] può darsi che il “Times” di A.G. Sulzberger stia annunciando ufficialmente
che il testimone è passato a una nuova generazione di americani, ebrei e
non-ebrei, libera di discutere questo punto di vista senza timore o favore,
nonostante l’influenza di quanti lo definirebbero antisemitismo o in qualche
altro modo illegittimo. Se così fosse, questo potrebbe essere un momento di
svolta non solo per il “Times”, ma per tutti quelli di noi che sono coinvolti
nella lotta per i diritti e la dignità dei palestinesi.
Robert Herbst è un avvocato per i diritti civili. È stato coordinatore
della sezione di “Jewish Voice for Peace” [“Voci Ebraiche per la Pace”, gruppo
ebraico Usa contro l’occupazione, ndtr.] di Westchester [contea dell’area
metropolitana di New York, ndtr.] dal 2014 al 2017.
da Mondoweiss (traduzione di Amedeo Rossi)
Nessun commento:
Posta un commento