Un ministro dell’interno che delinque è
un oltraggio per il proprio Paese. Un segno di vergogna che ci accompagna
ovunque andiamo. Un ministro dell’interno che oltre a delinquere irride la
giustizia del proprio Paese, dichiara di infischiarsene dei giudici e promette
di reiterare il reato, è qualcosa di peggio. È una sfida vivente alla nostra
democrazia e alla Costituzione che la garantisce. Una sfida che deve essere
accettata e vinta, pena la caduta irrimediabile in un limbo della civiltà senza
uscita.
Forse Matteo Salvini fa il gradasso
perché sa che la sua banda lo tutelerà in Parlamento, che con la complicità
della sua maggioranza di governo si salverà dal giudizio del Tribunale dei
ministri. Possibile. Anzi probabile. Ma sappia che prima o poi ci sarà una
Norimberga. Che quei crimini contro l’umanità, consumati o minacciati, non
resteranno ingiudicati e impuniti, quando l’umanità ritornerà in sé, e il
consenso degli accecati non basterà più a far da scudo agli specialisti del
disumano.
Non sono solo i 177 della Diciotti,
sequestrati come fossero un carico di bestiame e segregati contro la loro
volontà e contro ogni principio politico e morale; e nemmeno i 47 della Sea
Watch messi a rischio della vita per un basso calcolo politico e elettorale.
Nel conto ci sono anche i 100 ricacciati indietro dal «moderato» Conte, il
devoto di padre Pio che ha fatto il miserabile miracolo di spedire nelle
piccole Auschwitz libiche chi dichiarava di preferire morire che ritornare in
quell’inferno, e che pure pretende di aver compiuto un atto di beneficenza.
Né possono chiamarsi fuori i galoppini 5
Stelle, quelli che gridavano «Onestà Onestà» e ora nicchiano e tacciono
sull’immunità parlamentare per quello che ha stracciato il diritto positivo e
quello naturale, violando Costituzione e convenzioni internazionali. Per tutto
questo i colpevoli dovranno pagare il proprio prezzo alla giustizia, perché non
c’è ragione politica o Ragion di Stato che tengano: l’argomento di chi sostiene
che tutto ciò rientrava nel campo della discrezionalità di governo è ridicola,
come se si vivesse ancora nell’epoca dell’assolutismo, quando il sovrano era
legibus solutus e non si fosse ancora affermato lo Stato di diritto, dove un
reato – tanto più se penalmente grave come il sequestro di persona o la messa a
rischio della vita di decine di innocenti – resta un reato, anche se commesso
dal titolare del potere.
Il cerchio perverso dell’abuso di potere
va spezzato. Perché se l’ostentazione plateale della brutalità non viene
sanzionata, diventa virale. Contagiosa come una febbre maligna. Quanto accadde
all’origine del fascismo insegna. Se restasse impunita otterrebbe una
legittimazione che apre al consenso.
Per questo si impone, oggi, una
mobilitazione eccezionale, all’altezza della gravità dei tempi. L’appello «Non
siamo pesci» affinché venga immediatamente istituita una Commissione
parlamentare d’inchiesta sulle stragi in mare è un primo passo importante.
Un’occasione – un dovere – per tutti di schierarsi. E oltre l’appello la presa
di parola, in ogni ambito della società si operi, dai media alle professioni,
dall’università ai tribunali, dall’associazionismo alle realtà territoriali e
di lavoro.
(da il manifesto)
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