giovedì 24 gennaio 2019

L’OSCURO ORIZZONTE DELLA REPRESSIONE DI SISI – Enrico Campofreda




Cos’hanno in comune Gika, Shady, Stokoza, Taher? La più brutta delle cose: la galera. E che galera, le carceri speciali che gli procura il presidente Sisi e quella repressione con cui opprime la grande nazione araba. Il suo pensiero fisso è rivolto alla gioventù d’Egitto. Fa di tutto per intimorirla, perseguitarla, angosciarla,  rovinarle presente e futuro. Lo fa in maniera sistematica da cinque anni, forte del consenso d’una parte del Paese che si piega ai militari perché li ha in famiglia, ci lavora grazie ai mille gangli che le Forze Armate hanno nell’economia egiziana. Oppure perché si schiera con chi possiede le leve della forza. Il resto dei cittadini – l’altra metà della nazione, laica o islamica che sia – hanno sotto gli occhi l’operato del golpismo autorizzato del generale Sisi e si stanno ricredendo. Però ora hanno difficoltà a dissentire. Non gli è permesso, anzi se solo provano a evidenziare una disobbedienza al sistema corrono rischi altissimi e protratti nel tempo.
Ahmed Gika, che ora ha ventidue anni, venne fermato per la prima volta cinque anni fa da un gruppo di poliziotti in un controllo routinario. Gli sequestrarono il poco denaro che aveva in tasca e il cellulare, spulciando fra i suoi contatti. Gli agenti volevano sapere dove vivesse. Da quel momento lo tennero sotto controllo e quando incappò in una nuova retata venne picchiato e condotto in una stazione di polizia. Fu trattenuto lì per alcune settimane, quindi trasferito in un campo di detenzione dopo un interrogatorio effettuato da tre procuratori che lo accusarono di aver manifestato. Venne a sapere che per tornare in libertà avrebbe dovuto pagare una multa di 100.000 lire egiziane (circa 5.000 euro). Ma Ahmed, che studia informatica all’università, proviene da una famiglia proletaria, il padre lavora nei campi, la madre è una casalinga, in casa non c’è una cifra simile con cui riscattarlo. Resta, dunque, recluso fino all’esaurimento della pena. Nel 2017 se ne sta seduto in un caffè assieme a tre amici.
Rispunta un manipolo di agenti della Sicurezza nazionale che li insulta, li picchia e li trasferisce nell’ennesima stazione di polizia. Senza conoscere le accuse i quattro vengono interrogati da un magistrato che gli infligge quattro mesi di detenzione. Quattro ciascuno. Quest’altalena fra fermi, uscita su cauzione impossibile da pagare, detenzione e rischi di finire in un giro repressivo peggiore assilla Gika da mesi e non gli permette di proseguire gli amati studi con cui proverebbe a emanciparsi da un lavoro manuale come quello paterno. Però nell’Egitto di Sisi si finisce dentro anche se si è benestanti. Il caso del blogger Shady Abu Zeid, la cui famiglia appartiene alla buona borghesia cairota, va a confermarlo. Quel che dice e scrive Shady non è gradito ai controllori di regime, così il giovane s’è ritrovato imukhabarat alle calcagna ed è stato arrestato. La repressione segue percorsi interclassisti, se non sei ossequioso verso il modello militare rischi comunque. Così anche l’artista Ahmed Stakoza ha conosciuto le stazioni di polizia, dove non si staziona con le mani in mano.
Queste spesso sono legate dietro la schiena. Se ci si agita, oltre a subìre una “battitura tranquillante”, si finisce appesi a testa in giù, mani e piedi legati, nella posizione definita del pollo, assai in uso nelle galere sul Nilo. Il regime, che ha a cuore la sorte della gioventù ribelle, si rivolge anche ai professionisti, è il caso del medico Taher Mokhtar, trattenuto, maltrattato, arrestato come le ‘teste calde’. Niente niente questi professionisti avessero in mente di seguire le orme degli attivisti, e giornalisti, e avvocati dei diritti che anni addietro manifestavano in ricordo della Thawra del 25 gennaio 2011.  Potrebbero tuttora finire come Shaima al-Sabbagh, colpita a morte e deceduta fra le braccia del consorte, mentre con un gruppetto di socialisti pensava di deporre fiori a Tahrir per celebrarne i martiri. Era il 2015 e il clima molto è peggiorato da quei giorni di per sé mortali e insanguinati. L’anno seguente, nel buio del Cairo rivisitato dal generale Sisi, spariva Giulio Regeni che da mesi cercava di capire cosa stava diventando quel Paese. Una storia già scritta nel sangue dal 14 agosto 2013, diventata mese via l’altro sempre più oscura. Oggi, accanto agli scomparsi d’Egitto, marcisce una gioventù malversata e oppressa cui occorre dar voce e aiuto.

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