Abbiamo avuto l’esame tradizionale in cui si portavano tutte le materie del
triennio, poi quello sperimentale in cui le materie orali erano solo due, poi
quello più recente con tre prove scritte, tutte le materie dell’ultimo anno e i
raccordi interdisciplinari. Adesso abbiamo un esame senza le discipline,
in cui l’orale verte sull’alternanza scuola-lavoro e su generiche questioni di
cittadinanza e Costituzione, di cui, nella migliore delle ipotesi, nelle scuole
si sarà parlato occasionalmente e solo con insegnanti particolarmente
motivati. Molti di noi in quinta elementare sono stati sollecitati in
passato a fare ben di più. Ma forse oggi si vogliono studenti con competenze
basiche, assolutamente conformi ad aspettative di pensiero e di scrittura
omologate e rigorosamente convergenti su obiettivi di regolazione formale.
Studenti-bambini, obbedienti e spediti, abili nel comporre i pensierini ma
acritici e intellettualmente passivi. E così attrezzati, con questo bagaglio
leggero di skills ma totalmente privi di consapevolezza culturale e capacità
metacognitive, andranno all’università o entreranno nel mondo del lavoro.
La parola ‘creatività’ è bandita, il pensiero, l’immaginazione,
l’interpretazione – e l’espressione – originale e divergente devono essere
considerati sbagliati: la griglia di correzione della prova d’italiano fornita
dal Ministero obbliga tutti ad una pedissequa valutazione della forma esatta, a
prescindere da qualunque consistenza del contenuto. Non è importante cosa viene
detto, ma come viene detto. Se la grammatica, cioè la morfologia, ovvero la
forma del pensiero, è corretta, quel pensiero, ben costruito, è automaticamente
accettabile e valutabile positivamente. A quale pericolosa china può preludere,
fosse anche per eterogenesi dei fini, una simile impostazione culturale e
didattica?
A differenza dei più, non ho provato particolare sgomento nel leggere i
banalissimi esempi di tracce di prima prova proposti dal MIUR per i nuovi esami
di Stato 2019[1]. Che anzi mi paiono ben congegnati e
coerenti con le indicazioni fornite dal gruppo di lavoro guidato da Luca
Serianni[2] e dal DM 769/2018, ovvero il ‘Quadro
di riferimento per la redazione e lo svolgimento della prima prova scritta
dell’esame di Stato’ (e relativa griglia di valutazione)[3] che, con il D.lgs 62/2017 che norma
i nuovi esami di Stato, ne costituisce la cornice culturale e legislativa di
riferimento.
Cassata la terza prova scritta multidisciplinare e l’elaborato scritto
anch’esso pluridisciplinare su una tematica scelta dallo studente, restano le
prime due e un colloquio orale general generico, in cui si parlerà
dell’alternanza scuola-lavoro, di ‘cittadinanza e Costituzione’ e si darà
un’occhiata alle correzioni delle prove scritte. Stop. Naturalmente per essere
ammessi all’esame bisognerà avere la sufficienza in tutte le materie, ma non
sempre, se il consiglio di classe motiva adeguatamente. Aumenta il valore del
credito scolastico del triennio, cui da quest’anno si attribuiscono punteggi
maggiori.
A quando l’abolizione del valore legale del titolo di studio, cui questo
totale svuotamento di senso dell’esame di Stato sembra francamente preludere?
Svuotamento di senso testimoniato vieppiù dall’obbligatorietà dei test
Invalsi computer based per tutti dal prossimo anno a
certificare dall’esterno competenze in italiano, matematica e inglese (per
queste ultime sono previste convenzioni con gli enti privati certificatori di
lingua straniera). E, nella sostanza, già ampiamente attestato con lo
svolgimento anticipato dei test d’ingresso all’università.
In confronto, la tanto vituperata maturità sperimentale rimasta in vigore
per trent’anni con le due materie orali e una commissione tutta esterna assume
un inimmaginabile crisma di serietà: almeno quelle erano due materie vere, che
dovevi aver studiato, su cui venivi interrogato da insegnanti in carne ed ossa
di quelle discipline di altre scuole statali; erano materie piene di autori,
questioni, problemi, teorie di cui dovevi parlare, su cui dovevi ragionare, che
eri minimamente tenuto a conoscere. Sollecitavano riflessioni, implicavano
capacità critico-analitiche, procedimenti logici, bagagli culturali
epistemologicamente fondati. E questo a prescindere dagli esiti, ovviamente
differenziati da studente a studente e ovviamente distribuiti lungo un naturale
gradiente nel raggiungimento degli obiettivi formativi, a seconda dei
molteplici elementi che caratterizzano i percorsi scolastici di ciascuno.
Abbiamo avuto l’esame tradizionale in cui si portavano tutte le materie del
triennio, poi quello sperimentale in cui le materie orali erano solo due, poi
quello più recente con tre prove scritte, tutte le materie dell’ultimo anno e i
raccordi interdisciplinari. Adesso abbiamo un esame senza le discipline, in cui
l’orale verte sull’alternanza scuola-lavoro e su generiche questioni di
cittadinanza e Costituzione, di cui, nella migliore delle ipotesi, nelle scuole
si sarà parlato occasionalmente e solo con insegnanti particolarmente motivati.
Molti di noi, ne sono convinta, in quinta elementare sono stati sollecitati
in passato a fare ben di più. Ma forse oggi si vogliono studenti con competenze
basiche, assolutamente conformi ad aspettative di pensiero e di scrittura
omologate e rigorosamente convergenti su obiettivi di regolazione formale. La
parola ‘creatività’ è bandita, il pensiero, l’immaginazione, l’interpretazione
– e l’espressione – originale e divergente devono essere considerati sbagliati:
la griglia di correzione della prova d’italiano fornita dal Ministero obbliga
tutti ad una pedissequa valutazione della forma esatta, a prescindere da
qualunque consistenza del contenuto. Non è importante cosa viene detto, ma come
viene detto. Se la grammatica, cioè la morfologia ovvero la forma del pensiero,
è corretta, quel pensiero, ben costruito, è automaticamente accettabile e
valutabile positivamente. A quale pericolosa china può preludere, fosse anche
per eterogenesi dei fini, una simile impostazione culturale e didattica?
Ma lo sanno al Miur e in Parlamento che le materie storiche, all’interno
delle quali andrebbero contestualizzate le tematiche di cittadinanza e
Costituzione, sono state draconianamente ridotte dalla riforma Gelmini in tutto
il quinquennio delle scuole superiori di ogni ordine e grado? E che dunque, non
solo non si può fare degnamente nessun percorso strutturato di cittadinanza e
Costituzione ma neanche studiare la storia del Novecento? Ma lo sanno al Miur e
in Parlamento che l’alternanza scuola-lavoro, introdotta obbligatoriamente
dalla riforma Renzi, è stata una pagliacciata per la maggior parte degli
studenti italiani, costretti a lavorare o a far finta di lavorare qua e là per
ottemperare a quell’obbligo demenziale, con un monte orario che raggiungeva
addirittura le 400 ore nei tecnici e nei professionali? Di che cosa parleranno
gli studenti dell’alberghiero all’orale dell’esame di Stato, di quando
cucinavano o servivano gratis ai tavoli del convegno politico di turno? O gli
studenti dell’agrario, costretti a stare sui trattori o nelle stalle
dell’azienda agricola spesso annessa all’istituto, inseguiti dai loro docenti
per fare un po’ di matematica o di italiano? O tutti quegli studenti che hanno
fatto i camerieri da McDonald’s o che hanno fatto fotocopie o tabulato dati
senza imparare niente in questo o quell’ufficio? Quale somma ingiustizia si
consumerà nei prossimi esami di Stato, quando i commissari delle scuole di
serie A raccoglieranno compiaciuti i resoconti di rarefatte esperienze, vere o
presunte, universitarie, archivistiche, museali, mentre quelli delle scuole di
serie B, ovvero la stragrande maggioranza, sentiranno gli studenti raccontare
come, tra mille difficoltà, abbiano dovuto accettare di tutto, a cominciare
dalla lesione del loro sacrosanto diritto allo studio? (Ma non la voglio fare
più drammatica di quello che è, avendo alle viste una regionalizzazione
dell’istruzione che, con la riformulazione locale dei programmi e dell’organizzazione
scolastica, ci farà rimpiangere queste questioni nazionali come il miraggio di
un orizzonte perduto).
Dunque, perché mai la prima prova, quella di italiano, uguale per tutti,
avrebbe dovuto restare immune da questo generale processo di svuotamento di
senso? Dopo anni di esami di Stato in cui ad articolate analisi del testo e del
contesto si accompagnavano proposte di stesura di articoli di giornale, poi
divenuti saggi brevi, insieme a temi di storia o di attualità, potenzialmente
impegnativi, nella forma o nel contenuto, per chi non si fosse adeguatamente
esercitato o per chi non conoscesse la storia, la letteratura, l’arte,
l’economia, la politica o la scienza nella loro evoluzione moderna e
contemporanea, adesso ci si prospetta un esame semplificato, guidato, limitato,
sintetico, rapido (per il quale le sei ore canoniche di svolgimento appaiono
davvero troppe: perché non ridurre anche queste?).
Non che mancassero le criticità, naturalmente, su cui negli ultimi anni i
burocrati del ministero erano già intervenuti anticipando processi di
semplificazione: testi più accessibili, meno documenti su cui esercitare l’arte
dell’assemblaggio, domande più facili. Ma stavolta la spinta alla rarefazione
sembra aver subito un’accelerazione improvvisa e con l’acqua sporca è stato
gettato via pure il bambino: abolito il saggio breve, abolito il tema di
storia, abolito il tema di attualità, restano un paio di analisi del testo
letterario, il riassunto e commento di un editoriale ‘di penna’ e un testo
espositivo-argomentativo su un brano dato. La prima tipologia prevede, in
primis, operazioni di riscrittura che, è facile prevedere, saranno di
parafrasi nel caso di un testo poetico e di riassunto nel caso di un testo in
prosa, intendendo la riscrittura come funzionale alla verifica della
comprensione del testo. La seconda parte della prova prevede un commento
personale, da svolgersi in forma discorsiva (cioè aperta, non strutturata) ma
comunque seguendo una progressione tematica che implichi e testimoni uno
svolgimento organizzato, in cui l’inserimento in contesto storico preciso è
opzionale perché sono sufficienti ma non necessarie “sintetiche indicazioni sul
testo e sull’autore”. La seconda tipologia di prova prevede la lettura di un
editoriale, la sua comprensione attraverso un processo di decostruzione del
testo quasi di tipo narratologico a partire dal riconoscimento delle sequenze
(continuando a perpetrare i danni che questo approccio ai testi ha prodotto in
decenni di didattica scolastica) e un commento argomentativo conclusivo, con
limitazioni relative alla lunghezza e all’articolazione del contenuto ma anche
relative alle strategie argomentative da utilizzare, intese semplicemente come
uso appropriato dei connettivi. La terza tipologia consiste nell’esposizione e
commento di un brano (una citazione d’autore? uno stralcio d’articolo? un
aforisma?) su argomenti di attualità vicini alla dimensione esperienziale degli
studenti (intesa, immaginiamo, in termini assai generici, se si vuole
individuare una dimensione esperienziale comune a milioni di adolescenti
diversi per carattere, esperienze, contesti). Anche questa prova non è libera
perché si chiederà al candidato di seguire una determinata scansione interna e
finanche di suddividere la sua riflessione in paragrafi muniti di un titolo (di
cui, francamente, proprio non si riesce a capire la valenza).
Il tutto corredato da una generica griglia di valutazione ministeriale che
consente di rilevare competenza linguistica e capacità espressiva, poiché “questa
prova presuppone due attività: la capacità di comprendere i testi proposti, a
partire dalla consegna richiesta e dalle eventuali note informative, e la
produzione di un elaborato scritto. La valutazione dovrebbe tener conto,
anzitutto, della comprensione della consegna e dei testi proposti. Quanto alla
produzione dell’elaborato scritto, saranno oggetto di valutazione gli aspetti
formali ed espressivi e la capacità di sviluppare un discorso critico”.
Ma, qualcuno dirà, e i contenuti? Ecco la risposta della commissione Serianni: “Nel
caso di un elaborato vincolato a un testo la valutazione del contenuto riguarda
principalmente la pertinenza dell’analisi e del commento con il testo di
partenza, la selezione e la gerarchizzazione degli argomenti, la presenza nel
commento di elementi che attestino le conoscenze del candidato e un certo grado
di rielaborazione critica personale. Nel caso di un elaborato svincolato da un
testo la valutazione del contenuto riguarda principalmente l’aderenza alla
tematica proposta nella traccia, i riferimenti culturali e l’adeguata
strutturazione degli argomenti (temi, sottotemi e loro pianificazione)”.
La forma, la forma. Con un’insistenza esasperata. Anche il contenuto deve
essere valutato prevalentemente, se non esclusivamente, sotto il profilo
formale. Tutto il discorso si articola intorno al paradigma delle competenze,
trovando sbocco nella scheda degli indicatori per la valutazione degli
elaborati, in cui anche l’ampiezza delle conoscenze dei riferimenti
culturali, nonché l’espressione di giudizi critici e valutazioni personali
(rigorosamente agli ultimi due posti dell’elenco) rientra nella fattispecie
delle competenze, perché non ci si riferisce alla ricchezza, alla profondità,
all’originalità, alla qualità del contenuto ma sempre, esclusivamente alla sua
forma: alla sua pertinenza espositiva, alla sua aderenza alla traccia, alla sua
adeguatezza argomentativa. La rielaborazione critica personale, che è la cosa
più importante da osservare al termine dell’intero percorso di studi, alle
soglie dell’università o dell’inserimento nel mondo del lavoro, viene
marginalizzata: accontentiamoci di ‘un certo grado’. A che serve
l’interpretazione? A che servono le inferenze? A che serve l’astrazione? A che
serve l’immaginazione? A che serve il pensiero simbolico?
Ma c’è infine un ultimo aspetto della questione che mi pare totalmente
assente dalla riflessione sulla scuola e sulle sue riforme, tuttavia degno di
attenzione: la persistenza della contraddizione giuridica, culturale e politica
tra la legge che regola gli esami di Stato e quella che ne regolamenta le
prove: la prima specifica che “l’esame di Stato conclusivo dei percorsi
di istruzione secondaria di secondo grado verifica i livelli di apprendimento
conseguiti da ciascun candidato in relazione alle conoscenze, abilità e
competenze proprie di ogni indirizzo di studi,con riferimento alle Indicazioni
nazionali per i licei e alle Linee guida per gli istituti tecnici e gli
istituti professionali, anche in funzione orientativa per il proseguimento
degli studi di ordine superiore ovvero per l’inserimento nel mondo del lavoro”;
la seconda prevede un’unica prima prova uguale per tutti.
Delle due l’una: o si producono prove di verifica diverse, che verifichino
conoscenze, abilità e competenze proprie di ogni indirizzo di studi, o al
contrario, come auspico, si procede ad una revisione dei curricoli, che
cancelli la distinzione, nell’insegnamento dell’italiano, tra licei, tecnici e
professionali, che garantisca a tutti lo stesso monte ore, che articoli per
tutti lo stesso profilo educativo, che non distingua tra chi può limitatamente
aspirare a una padronanza basica della lingua e dunque della cultura in
funzione di un’attività di servizio, e chi possa invece ottenere “strumenti
culturali e metodologici per una comprensione approfondita della realtà” di
cui il possesso della lingua è precondizione di partenza.
Perché nel caso della prima prova di italiano, materia comune a tutti gli
indirizzi scolastici e dunque prima prova per tutti gli studenti, questa
contraddizione crea un’ingiustizia profonda a monte: l’accesso ad un
insegnamento dell’italiano “ricco” per gli studenti liceali e “povero” per
quelli dei tecnici e ancor più dei professionali, e produce due tipi di
conseguenze negative a valle: o l’impossibilità, data a priori, per un’ampia
platea di studenti (sicuramente moltissimi tra quelli dei tecnici e dei
professionali) di effettuare adeguatamente le prove d’esame, come è accaduto in
passato, oppure, in alternativa, come appare oggi, di fronte a queste ipotesi di
prove insignificanti che fanno davvero piangere, una facilitazione e
banalizzazione estrema, che corrisponde e rinforza un’immagine infantile,
acritica e intellettualmente passiva dello studente chiamato a svolgerle. Uno
studente-bambino, totalmente privo di consapevolezza culturale e capacità
metacognitive, forse competente ma di sicuro insipiente.
[1] http://www.miur.gov.it/-/esame-di-stato-2018-2019-secondaria-di-ii-grado-on-line-i-primi-esempi-di-tracce-per-la-prova-di-italiano-della-nuova-maturita-per-accompagnare-gli-st
[2] http://www.miur.gov.it/documents/20182/0/documento+di+lavoro.pdf/051e56ce-1e57-471d-8c9f-9175e43b8c0c
[3] http://www.miur.gov.it/documents/20182/0/QDR+prima+PROVA+26+novembre.pdf/caceeda3-0cce-434f-a1d6-c8aa4e30f71d
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