martedì 29 gennaio 2019

Università, la guerra civile del Nord contro il Sud - Francesco Sylos Labini




Come negli ultimi 20 anni, anche la legge di Bilancio premia gli atenei virtuosi e punisce gli altri. Questo determina un travaso di docenti dal Mezzogiorno verso le Regioni settentrionali. Con danni irreversibili

La ricetta adottata nel sistema universitario e della ricerca negli ultimi venti anni si fonda sull’idea che le risorse siano poche e non debbano essere sprecate. Dunque che i virtuosi siano premiati e chi virtuoso non è sia punito ricevendo meno finanziamenti. Ma una politica ispirata a questo principio, che ritroviamo applicata anche nell’ultima Legge di Bilancio, aumenta le disuguaglianze tra il Nord e il Sud del Paese, deprimendo la crescita culturale e le prospettive di gran parte delle nuove generazioni.
Il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti ha annunciato che le assunzioni tornano a crescere nelle Università così che gli atenei “virtuosi” potranno andare oltre il normale turn over. Tuttavia le misure del governo non comportano una crescita dell’organico, piuttosto un travaso di docenti da un ateneo all’altro. C’è una ripartizione delle risorse che segue la direttrice Sud-Nord: è come se l’equivalente di 280 ricercatori dovesse abbandonare gli atenei meridionali per essere trasferiti nelle più ricche università settentrionali. Vogliamo premiare i virtuosi, si dirà: ma cosa significa “virtuoso”? Il governo Monti stabilì che i pensionamenti in un ateneo A possano essere rimpiazzati da assunzioni in un ateneo B, se B ha un bilancio più solido (più virtuoso) di A. Così ora le università milanesi incamerano l’equivalente di 168 ricercatori in aggiunta al rimpiazzo dei propri pensionamenti: organico sottratto agli atenei del Centro-Sud. Un ateneo per diventare più virtuoso deve semplicemente aumentare le tasse universitarie, senza curarsi del tetto massimo previsto dalla legge e sulla cui violazione nessuno vigila.
L’aggettivo “virtuoso” serve dunque per giustificare una politica ispirata dall’effetto san Matteo, il processo per cui le risorse sono ripartite fra i diversi attori in proporzione a quanto già hanno: “I ricchi si arricchiscono sempre più, i poveri s’impoveriscono sempre più”. Secondo gli ideatori, questa maniera di distribuire le risorse avvantaggerebbe, per un effetto di sgocciolamento dall’alto verso il basso, l’intera società. Nel caso dell’istruzione superiore, molti governi considerano obiettivo principale della loro politica, che giustifica l’accentramento delle risorse, quello di avere università nel top delle classifiche mondiali degli atenei. Bisognerebbe invece considerare che tra le dieci regioni europee con i valori più bassi di laureati (fascia di età tra 30/34 anni, dati 2014) ci sono la Sardegna, la Sicilia, la Campania e la Basilicata e che gli studenti iscritti nel mezzogiorno sono crollati rispetto a quello del nord Italia (-18,7% contro un -3,9% nel centro Nord tra il 2006 e il 2015).
Il problema è che se in una situazione di sottosviluppo si usano degli indicatori come l’ammontare delle tasse universitarie per distribuire le risorse si fa una scelta politica in linea con l’effetto San Matteo. Per questa ragione nell’ultimo decennio l’università italiana è stata ridimensionata in modo selettivo: più al Sud che al Nord e poiché si partiva già da una situazione sottodimensionata, l’impatto al Sud compromette le prospettive di interi territori.
Anche questo governo sta perseguendo la politica di accentrare nel Nord Italia le risorse finanziarie e intellettuali per sorreggere uno sviluppo che trova sempre più difficoltà a innovare. In realtà la formazione universitaria è considerata, dal mondo produttivo e dalla politica, servire a ben poco nel mercato del lavoro del nostro Paese. Abbiamo il più basso tasso di laureati nella fascia d’età tra 24 e 35 anni eppure i laureati non trovano un lavoro al livello del loro grado di istruzione. C’è un’ignobile e persistente campagna di stampa secondo cui i giovani laureati non trovano lavoro perché sono “mammoni” e non vogliono andare lontano da casa o fare lavori faticosi, ma questo avviene perché non c’è sufficiente richiesta di persone con alto tasso di istruzione dato che le imprese che producono beni di alta tecnologia sono poche e piccole e sono scomparsi i traini delle grande imprese statali.
È così in atto un’emigrazione intellettuale di decine di migliaia di laureati all’anno da quasi un decennio, che in prospettiva causerà danni sistemici all’infrastruttura intellettuale del Paese. Per contrastare questo fatto nella Legge di Bilancio 2019 è prevista un’agevolazione che consiste in uno sgravio contributivo fino a 8.000 euro, per un massimo di 12 mesi, e per le imprese che assumeranno “giovani eccellenze” cioè giovani laureati con 110 e lode o dottori di ricerca: tuttavia anche una misura del genere non potrà che consolidare e amplificare le disuguaglianze già presenti, invece che contrastarle.
Nessuno sperava che questo governo avrebbe aumentato la spesa in ricerca sviluppo al 3% com’era stato fantasticato dal trattato di Lisbona del 2000, o recuperato quel 30% di produzione industriale persa dalla fine degli anni 90 ad oggi, ma era possibile fare qualcosa per dare ossigeno al sistema universitario nazionale e soprattutto alle sue componenti più deboli, i precari e gli studenti specialmente quelli del meridione. Per rilanciare l’università e la ricerca c’è bisogno di una rivoluzione culturale che metta al centro dell’azione politica uno sviluppo economico che punti all’innovazione piuttosto che al taglio del costo del lavoro. E ci vorrebbe anche il miracolo che tutte le diverse parti del mondo universitario maturassero questa consapevolezza.


Nessun commento:

Posta un commento