lunedì 16 settembre 2024

Gli israeliani devono chiedersi se sono disposti a vivere in un paese che si nutre di sangue - Gideon Levy

 

Per quanto tempo possiamo vivere con la consapevolezza che la nostra esistenza dipende dal sangue. Quando ci chiederemo se non ci sia davvero alternativa a un Paese di sangue?


Israele si sta trasformando, con una velocità allarmante, in un Paese che vive di sangue. I Crimini quotidiani dell’Occupazione sono già meno rilevanti. Nell’ultimo anno è emersa una nuova realtà di Uccisioni di Massa e Crimini di portata completamente diversa. Siamo in una realtà Genocida; è stato versato il sangue di decine di migliaia di persone.

Questo è il momento in cui tutti gli israeliani dovrebbero chiedersi se sono disposti a vivere in un Paese che si nutre di sangue. Non si dica che non c’è scelta, ovviamente c’è, ma prima dobbiamo chiederci se siamo disposti a vivere in questo modo.

Noi, gli israeliani, siamo disposti a vivere nell’unico Paese al mondo la cui esistenza è fondata sul sangue? L’unica visione diffusa in Israele ora è quella di vivere da una guerra all’altra, da uno spargimento di sangue all’altro, da un Massacro all’altro, con intervalli il più possibile distanziati.

Non c’è nessun’altra visione sul tavolo. Le persone fiduciose promettono lunghi intervalli, mentre la destra promette una realtà intrisa di sangue permanente: Guerra, Uccisioni di Massa, sistematica violazione del Diritto Internazionale, uno Stato reietto, che si ripete in un ciclo infinito.

I palestinesi continueranno a essere Massacrati e gli israeliani continueranno a chiudere gli occhi? Difficile da credere. Verrà un tempo in cui molti israeliani apriranno gli occhi e riconosceranno che il loro Paese vive di sangue. Senza spargimento di sangue, ci viene detto, non esistiamo, e facciamo pace con questa orribile realtà.

Non solo crediamo che un Paese del genere possa esistere per sempre, siamo convinti che senza il tributo di sangue, non esisterebbe. Ogni tre anni, un Massacro a Gaza, ogni quattro anni, in Libano. Nel mezzo, c’è la Cisgiordania e, occasionalmente, una sortita di sangue verso obiettivi aggiuntivi. Non esiste nessun altro Paese come questo al mondo.

Il sangue non può essere il carburante del Paese. Proprio come nessuno immaginerebbe di guidare un’auto alimentata a sangue, non importa quanto economica, è difficile immaginare 10 milioni di residenti disposti a vivere in un Paese che si alimenta con il sangue. La guerra a Gaza è un punto di svolta. È così che continueremo?


I media cercano di convincerci che questa sia una necessità. Attraverso campagne che demonizzano e disumanizzano i palestinesi, un coro unito e mostruoso di commentatori ci sta vendendo con successo l’idea che possiamo vivere per l’eternità di sangue. “Falceremo l’erba” a Gaza ogni due anni, giustiziaremo generazioni dopo generazioni di giovani oppositori del Regime, imprigioneremo decine di migliaia di persone nei Campi di Concentramento, espelleremo, abbatteremo, esproprieremo e, naturalmente, uccideremo, ed è così che vivremo: nel Paese del sangue.

Abbiamo già Massacrato il popolo palestinese. Abbiamo iniziato con l’Uccisione di Massa a Gaza, e ora ci siamo concentrati sulla Cisgiordania. Anche lì verrà versato sangue a fiumi, se nessuno fermerà il Massacro. L’uccisione è sia fisica che emotiva. Ora non rimane più nulla di Gaza.

I detenuti, gli orfani, i traumatizzati, i senzatetto, non torneranno mai più a essere ciò che erano. I morti di certo non torneranno. Ci vorranno generazioni perché Gaza si riprenda, se mai ci riuscirà. Questo è Genocidio, anche se non soddisfa la definizione legale. Un Paese non può vivere di una simile ideologia, certamente non quando intende continuare a esistere.

Supponiamo che il mondo continui a permetterlo. La domanda è se noi, gli israeliani, siamo disposti a permetterlo. Per quanto tempo possiamo vivere con la consapevolezza che la nostra esistenza dipende dal sangue. Quando ci chiederemo se non ci sia davvero alternativa a un Paese di sangue? Dopotutto, non c’è nessun altro Paese come questo.

Israele non ha mai seriamente provato un altro modo. È stato programmato e diretto a comportarsi come un Paese che vive di sangue, ancora di più dopo il 7 ottobre. Come se quel giorno terribile, dopo il quale tutto è lecito, avesse suggellato il suo destino di Paese di sangue.

Il fatto è che non è stato sollevato alcuna altro argomento per la discussione. Ma un Paese di sangue non è un’opzione, proprio come un’auto alimentata a sangue non è un’opzione. Quando ce ne renderemo conto, inizieremo a cercare le alternative, anche solo per mancanza di altre opzioni. Sono lì e aspettano un giro di prova. Possono sorprenderci, ma nella realtà attuale è impossibile anche solo suggerirle.


Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo ultimo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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domenica 15 settembre 2024

ONU: La devastazione economica nei Territori palestinesi è sbalorditiva e senza precedenti - Eliana Riva

La portata della devastazione economica nei Territori occupati palestinesi è “sbalorditiva”. Il declino senza precedenti supera lungamente tutte le precedenti operazioni militari su Gaza: sia quella del 2018 che del 2012, sia l’attacco del 2014 che quello del 2021. Solo per citare gli ultimi.

La Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) ha rilasciato giovedì 12 settembre un rapporto sullo stato dell’economia a Gaza e in Cisgiordania. Lo scenario è catastrofico. “L’economia palestinese è in caduta libera” ha dichiarato in conferenza stampa il vicesegretario dell’UNCTAD, Pedro Manuel Moreno. 201.000 posti di lavoro sono stati persi a Gaza e 306.000 in Cisgiordania dal 7 ottobre 2023 alla fine di gennaio 2024. Due terzi dei lavoratori della Striscia sono rimasti senza un impiego. Nella West Bank il tasso di disoccupazione è passato dal 12,9 pre-7 ottobre al 32%.

All’inizio di gennaio 2024 gli attacchi israeliani avevano distrutto tra l’80 e il 96% delle risorse agricole della Striscia di Gaza. I bombardamenti hanno colpito anche il settore privato, danneggiando e devastando l’82% delle imprese. L’Onu ha rivelato che “A metà del 2024 l’economia di Gaza si era ridotta a meno di un sesto del suo livello 2022”. Il Prodotto interno lordo della Striscia è crollato dell’81% nell’ultimo trimestre del 2023.

Intanto, in Cisgiordania “un’ondata di violenza, demolizione di beni palestinesi, confische ed espansione di insediamenti” ha danneggiato enormemente l’economia. Il rapporto ONU evidenzia che “L’impatto combinato dell’operazione militare a Gaza e le sue ripercussioni in Cisgiordania hanno prodotto uno shock senza precedenti che ha sopraffatto l’economia palestinese in tutto il territorio occupato”.

A Gerusalemme Est i trasporti, il turismo e il commercio sono stati pesantemente danneggiati e l’80% delle imprese nella Città Vecchia ha ridimensionato o chiuso le proprie attività. In tutta la Cisgiordania il 96% delle imprese hanno diminuito le proprie attività, soprattutto a causa delle restrizioni negli spostamenti. Già prima dell’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre i posti di blocco, gli ordini di chiusura, i checkpoint limitavano fortemente il commercio. Dall’inizio della guerra i posti di blocco si sono moltiplicati, da 567 sono divenuti 700 a febbraio 2024. L’ampliamento delle colonie e la conseguente occupazione delle proprietà palestinesi ha diminuito le capacità imprenditoriali, l’ondata di arresti ha sottratto manodopera, soprattutto maschile, ad attività spesso di tipo familiare, i raid dell’esercito hanno causato enormi danni economici nei più grandi campi profughi. In Cisgiordania sono stati uccisi, dal 7 ottobre 2023, 662 palestinesi secondo il Ministero della Salute. Circa 30 gli Israeliani uccisi da attacchi palestinesi fuori da Gaza secondo le fonti israeliane.

“La stabilità fiscale del governo palestinese è sottoposta a un’immensa pressione, mettendo a repentaglio la sua capacità di funzionare efficacemente e fornire servizi essenziali”. Insieme alla diminuzione degli aiuti internazionali, secondo il report dell’organismo delle Nazioni Unite, le detrazioni e le trattenute da parte israeliana sui fondi dell’Autorità Palestinese sono il problema maggiore. L’ONU afferma che tali “trattenute”, ossia una sorta di dazio, una percentuale che il governo di Tel Aviv sceglie di tenere per sé dai soldi destinati al governo palestinese, sono aumentate dal 7 ottobre. Il Ministro israeliano delle finanze, Bezalel Smotrich, ha dichiarato a giugno di aver trasferito circa 130 milioni di NIS (35 milioni di dollari) di fondi fiscali dell’Autorità palestinese alle vittime degli attacchi di Hamas del 7 ottobre, accusando l’ANP di sostenere il terrorismo. Accusa che i vertici dell’Autorità hanno rigettato. Ad agosto, sempre Smotrich ha fatto sapere di aver sequestrato circa 100 milioni di NIS (26 milioni di dollari) destinati a Ramallah. Tra il 2019 ad aprile 2024 Israele ha sottratto dai fondi destinati al governo palestinese 1,4 miliardi di dollari, con un aumento significativo dopo il 7 ottobre: “Queste sfide fiscali hanno ostacolato la capacità del governo di pagare i dipendenti, i debiti di servizio e mantenere i servizi pubblici fondamentali come l’assistenza sanitaria e l’istruzione. La situazione ha anche portato a un indebitamento crescente, a ritardi dei pagamenti ai fornitori privati e a una riduzione dei trasferimenti sociali ai poveri. I dipendenti pubblici hanno ricevuto solo stipendi parziali da novembre 2021”.

L’UNCTAD ha chiesto alla comunità internazionale di intervenire immediatamente per fermare la caduta libera dell’economia e affrontare la crisi umanitaria, attraverso la realizzazione di un piano di recupero globale per i Territori palestinesi occupati e l’aumento degli aiuti. Fondamentale, per le Nazioni Unite, riconsegnare al governo palestinese i fondi trattenuti da Israele e, come già più volte richiesto dal segretario generale, interrompere il blocco su Gaza.

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La disintegrazione - Franco Berardi

 

Il mondo bianco si sta disintegrando e barcolla, come Polifemo accecato da Ulisse, lungo il bordo della guerra nucleare

 

La disintegrazione di Israele

It Is Not Hamas That Is Collapsing, but Israel è il titolo di un articolo pubblicato dal quotidiano Haaretz il 9 settembre.

https://www.haaretz.com/opinion/2024-09-03/ty-article-opinion/.premium/it-is-not-hamas-that-is-collapsing-but-israel/00000191-b3bf-dffe-abf9-bfffd0a50000

 

L’autore Yitzhak Brik, generale dell’esercito israeliano, spiega per quali ragioni la guerra scatenata contro la popolazione di Gaza, pur avendo provocato la distruzione di tutto quel che esisteva in quel territorio, pur avendo ucciso decine di migliaia di persone, si sta risolvendo in una sconfitta strategica per Israele. Se l’IDF dovrà continuare questa guerra, o addirittura estendere il fronte, secondo Brik, si rischia un vero e proprio collasso. Le condizioni psico-fisiche dei militari impegnati da un anno nelle azioni di sterminio, e la scarsità di riserve disponibili, porterebbero secondo Brik al crollo e alla sconfitta.

L’esaurimento fisico e psichico degli aguzzini israeliani richiama alla mia mente quel che Jonathan Little racconta nel suo romanzo Le benevole: lo stato di marasma mentale, di nausea, l’orrore di sé in cui versano le SS che per mesi e anni hanno ucciso torturato massacrato… e infine non sono più in grado di riconoscere il proprio volto nello specchio.

L’orrore che gli sterminatori dell’IDF provocano in ogni persona dotata di sentimenti umani non può non agire come fattore di intima disgregazione in coloro che con ogni evidenza mirano a competere con gli assassini hitleriani.

Nel suo articolo il generale Brik si limita a esaminare la situazione militare, ma molti segnali indicano che l’intera società israeliana è giunta al limite della disintegrazione.

La trappola atroce che Hamas ha teso è scattata alla perfezione: il dilemma degli ostaggi provoca una lacerazione non si rimarginerà.

L’odio nei confronti di Netanyahu è destinato a provocare effetti politici esplosivi quando prima o poi si tireranno le somme e si chiederà conto della cinica conduzione del massacro.

Inoltre l’economia israeliana è da tempo al collasso, e non si tratta di una congiuntura provvisoria, perché chi ha un livello professionale spendibile fuori da quel paese maledetto se ne va.

I medici se ne vanno. Gli imprenditori se ne vanno.

Nessun intellettuale degno di questo nome può rimanere in un paese che gareggia con la Germania di Hitler in ferocia e fanatismo. Rimangono i fanatici, gli squilibrati assetati di sangue, i miserabili che sono arrivati in Israele solo per impadronirsi di terra altrui.

E soprattutto quello che doveva essere il luogo più sicuro sulla terra per gli ebrei, è diventato il luogo più pericoloso: un luogo circondato dall’odio di un miliardo e ottocento milioni di islamici, un luogo in cui ogni automobile che passa per strada potrebbe svoltare improvvisamente per ammazzare quelli che stanno aspettando alla fermata dell’autobus.

Un tempo ci si poneva il problema della legittimità di Israele a esistere come stato, considerata la violenza con cui quello stato si è imposto, e la violazione sistematica di tutte le risoluzioni ONU. Credo che la questione non si porrà più: Israele non sopravviverà.

La sua disintegrazione è già in corso e nulla potrà fermarla.

Il problema che si porrà domani è un altro: come contenere la furia omicida di seicentomila coloni fanatici armati che si sono stanziati abusivamente in Cisgiordania?

Come evitare che la tragedia israeliana provochi un colpo di mano nucleare, una risposta isterica al proliferare di violenze in quel territorio circondato dall’odio?

 

La disintegrazione degli Stati Uniti

Israele è il simbolo dell’arroganza dell’occidente che voleva farsi perdonare le sue colpe: dopo aver isolato e respinto gli ebrei che fuggivano Hitler, dopo averne sterminati sei milioni nei campi di concentramento, gli europei hanno invitato gli ebrei sopravvissuti ad andarsene a morire o a uccidere da un’altra parte. In cambio hanno promesso a Israele un appoggio indefettibile contro gli arabi e i persiani che, umiliati dalla superiorità del mostro sionista super-armato,  circondano minacciosamente Israele aspettando il momento della vendetta.

Ma la disintegrazione di Israele va letta nel quadro della disintegrazione dell’intero mondo che ama definirsi libero dimenticando che si fonda sullo schiavismo.

Guardiamo agli Stati Uniti.

L’Undici settembre 2024, commemorando le vittime del più grande attentato della storia, il genocida Joe Biden ha detto:

«In questo giorno, 23 anni fa i terroristi credevano di poter spezzare la nostra volontà e metterci in ginocchio. Si sbagliavano. Avranno sempre torto. Nelle ore più buie, abbiamo trovato la luce. E di fronte alla paura, ci siamo uniti per difendere il nostro Paese e per aiutarci a vicenda».

Ci siamo uniti, dice il presidente. Sta mentendo, come dimostra la foto che ritrae Harris e Biden, poi il sindaco Bloomberg, e accanto Trump e Vance.

Scappa da ridere a vedere le loro facce di ipocriti con la mano sul cuore. Biden è unito a Trump, e Vance è unito a Harris? In che senso sarebbero uniti questi gaglioffi che ogni giorno si insultano in attesa di sapere chi vincerà la contesa finale, destinata ad accelerare la disintegrazione? Certamente sono uniti nell’armare il genocidio sionista. Certamente sono uniti nel deportare esseri umani etichettati come illegal aliens.

Ma la loro unità si ferma qui. Per quanto riguarda il potere sono nemici mortali.

Se in novembre vince Donald Trump il gioco è fatto: inizia la più grande deportazione della storia, ma anche la distruzione finale dell’alleanza atlantica.

Ma se le cose vanno diversamente? Se vince Kamala Harris?

I seguaci di Trump non fanno mistero: se vincono i dem vuol dire che ci hanno rubato la vittoria, e non ci arrenderemo.

Una signora con l’elegante cappellino MAGA sulla testa, intervistata da CNN durante una manifestazione pro Trump lo ha detto senza mezzi termini. Nel caso in cui vincano loro “there will be civil war.”

Cosa vuol dire guerra civile in quel paese in cui ogni cittadino possiede almeno un’arma da fuoco, molti ne posseggono quattro, dieci, venticinque?

Non credo che ci sarà una guerra civile come usava nei tempi della guerra di Spagna, con moltitudini armate che si scontrano lungo un fronte più o meno definito. No, non è così che si svolge la guerra civile dell’epoca post-politica e della demenza iper-mediatica.

Avremo una moltiplicazione di sparatorie razziste, avremo un moltiplicarsi delle stragi, avremo semplicemente quello che c’è già, ma sempre più diffuso, aspro, violento.

Kamala Harris, per parte sua, ha detto il giorno undici settembre:

«Oggi è un giorno di solenne commemorazione. Mentre piangiamo le anime che abbiamo perso in un atroce attacco terroristico l’11 settembre 2001 – ha scritto Harris – mentre commemoriamo questo giorno dovremmo tutti riflettere su ciò che ci unisce: L’orgoglio e il privilegio di essere americani».

La signora ha detto le cose come stanno. Quel che unisce gli americani (che sono divisi e pronti a venire alle mani per impadronirsi del potere e del malloppo) è il privilegio.

Il popolo americano consuma quattro volte più elettricità del consumo medio mondiale. E vuole continuare a consumare smodatamente perché solo l’ingozzamento di plastica e merda dà un senso alle loro vite miserabili.

L’attacco dell’11 settembre fu un capolavoro strategico. Il gigante militare più potente di tutti i tempi non poteva essere sconfitto da nessuno. Occorreva metterlo contro se stesso, occorreva attaccarlo con tale forza da farlo impazzire, da spingerlo ad azioni suicide come l’aggressione contro l’Iraq e come la guerra nelle montagne dell’Afghanistan che si è conclusa con la fuga disordinata da Kabul, il ritorno dei talebani e l’umiliazione della super potenza.

Osama Bin Laden ha vinto la sua guerra avviando un processo di disintegrazione culturale, psichica e militare del colosso che continua a svolgersi sotto i nostri occhi.

Ma non possiamo aspettarci una pacifica disintegrazione della potenza americana. Come Polifemo accecato da Ulisse mena fendenti a chi gli si avvicina, così il colosso è destinato a reagire, e il teatro dello scontro finale sarà l’Europa se vincono i democratici. Sarà il Pacifico se vincono i repubblicani.

Ma in un caso come nell’altro il colosso barcolla lungo la linea di scivolamento in un baratro nucleare.

 

La disintegrazione dell’Unione Europea

Per finire c’è l’Unione europea, che in fatto di disintegrazione è ormai molto avanti, certamente oltre il punto di non ritorno.

Mario Draghi l’ha detto con la franchezza di chi non ha niente da perdere se non il suo posto di fronte alla storia: se non siamo capaci di avviare un piano di investimenti e di condivisione del debito, possiamo prepararci alla disintegrazione dell’Unione.

Il giorno dopo tutti si sono spellati le mani negli applausi, ma tutti hanno detto che quelli di Draghi sono sogni irrealizzabili.

Prima di tutto l’ha detto la Germania che non intende parlare di condivisione del debito mentre comincia a pagare il prezzo di una guerra che era rivolta prima di tutto proprio contro di lei.

Quella che Biden e Hillary Clinton sono riusciti a provocare era una guerra contro la Germania, e la Germania l’ha persa subito.

Mentre la recessione si fa probabile, con la guerra alle porte, i fascisti prendono in mano il governo di un paese europeo dopo l’altro, e nullificano il risultato delle elezioni in cui la coalizione Ursula credeva di avere vinto e invece non ha vinto niente.

Pur avendo la maggioranza nell’inutile parlamento europeo, deve infatti fare i conti con l’avanzata delle destre che pur non avendo la maggioranza a Strasburgo tendono ad averla in tutti i paesi del continente.

In Francia e in Germania ci sono due governi che non hanno la maggioranza. Il colpo di stato di Macron può portare a una ripresa del conflitto sociale con caratteri sempre più violenti. Oppure può evolvere con un colpo di mano finale da parte dei lepenisti.

In Germania si è aperto lo scontro tra due visioni geopolitiche inconciliabili: la visione atlantica, per obbedienza ai padroni americani che hanno già spinto il governo Scholz alla rottura dei legami economici con la Russia e quindi al disastro economico. Oppure la visione continentale che implica un equilibrio con la Russia, ma la rottura politicamente impossibile con la NATO.

Il solo fattore di integrazione che rimane agli europei (come agli americani, del resto) è la paura della marea umana che li assedia alle frontiere, e l’adozione di misure sempre più disumane contro i migranti.

La fortezza si chiude verso il mondo non bianco, ma l’incedere della guerra inter-bianca e la disintegrazione politica e culturale sta portando il mondo bianco verso la guerra nucleare.

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venerdì 13 settembre 2024

I coloni hanno distrutto un villaggio palestinese in Cisgiordania, Israele ne proibisce la ricostruzione - Gideon Levy

  

Articolo pubblicato originariamente su Haaretz. Traduzione a cura di Beniamino Rocchetto


Una comunità palestinese ha abbandonato il suo villaggio natale nelle colline meridionali di Hebron all’inizio della guerra per paura degli attacchi dei coloni. Una sentenza di un tribunale israeliano ha permesso loro di tornare, ma i coloni hanno già distrutto la maggior parte delle loro case. Ora il governo militare non permetterà loro di ricostruire.

Hanno abbandonato il loro villaggio natio nelle colline a Sud di Hebron all’inizio della guerra, per paura dei coloni. Una sentenza del tribunale ha consentito il loro ritorno, ma nel frattempo i coloni hanno distrutto la maggior parte delle loro case. Ora il governo militare non permetterà loro di ricostruirle.

Una scuola distrutta. Ecco come appaiono le scuole dell’UNRWA nella Striscia di Gaza, gestite dall’Agenzia di Soccorso delle Nazioni Unite, dopo essere state bombardate dagli aerei dell’Aviazione Militare Israeliana; ecco come apparivano gli edifici nel kibbutz Be’eri e nel kibbutz Nir Oz dopo l’assalto del 7 ottobre.

Distruzione totale. Ma ciò che è stato fatto a questa scuola, ora in rovina, non può essere giustificato con affermazioni secondo cui i terroristi si erano nascosti al suo interno o che veniva usata per immagazzinare munizioni. E la barbarie non è opera né delle Forze di Difesa Israeliane né di Hamas.

La scuola di Zanuta, un villaggio nelle colline a Sud di Hebron, è stata devastata dai coloni, probabilmente provenienti dal vicino avamposto di Havat Meitarim. È stata distrutta dopo che i bambini che la frequentavano erano fuggiti per salvarsi la vita dalle loro case con i genitori dopo l’inizio della guerra a Gaza. Prima di allora, erano stati regolarmente terrorizzati dai coloni che si scatenavano ripetutamente nel villaggio. I coloni sono poi entrati nel villaggio vuoto e hanno demolito la scuola e quasi tutte le case.

È uno spettacolo straziante. La scuola era relativamente nuova, risalente al 2014, e persino attraverso le rovine, lo sforzo fatto per abbellirla è riconoscibile nelle piastrelle del pavimento, nei muri stilizzati, nelle attrezzature sparse. Ora sembra che sia stata bombardata. I soffitti sono rotti, i muri sono in frantumi, una fontanella è stata strappata via, i bagni sono stati distrutti.

Questa piccola scuola, con solo cinque aule, è stata devastata da autori di malvagia feccia umana. Hanno provocato distruzione fine a se stessa. Le lettere dell’alfabeto arabo sono visibili sui resti di una bacheca in una delle aule, un trenino di carta è appeso al muro di un’aula semidistrutta, ogni carrozza rappresenta uno dei giorni della settimana: la carrozza del martedì è stata strappata dal muro. “Hanno rubato il martedì”, dice Nasser Nawaj’ah, un ricercatore sul campo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

I suggestivi alberi decorativi nel cortile, incastonati nel terreno desertico disseminato di rocce, sono stati tagliati a pezzi dai pogromisti squilibrati, lasciandoli appassiti e morenti. In un colpo solo, l’intero prodigioso sforzo degli abitanti del villaggio di fondare una piccola scuola nel deserto si è trasformato in un cumulo di rovine. Vestiti per bambini, utensili da scrittura e libri sono sparsi tra le macerie. Due pastori stanno sonnecchiando all’ombra creata dai detriti del loro villaggio.

Ci vuole una grande dose di malvagità per devastare una scuola costruita con tanta fatica dai residenti. Ci vuole una dose ancora più grande di illegalità per rendere possibile una situazione in cui civili armati possono saccheggiare un villaggio e nessuno li ferma, o addirittura li consegna alla giustizia in seguito. Potrebbe accadere solo qui, nelle colline a Sud di Hebron, una zona di Apartheid e Anarchia, dove la forza fa la legge e dove l’Amministrazione Civile del governo militare, insieme all’IDF e alla polizia israeliana, non sono altro che subordinati ai coloni violenti.

L’avamposto di Havat Meitarim, la zona industriale di Meitarim e l’edificio del Consiglio Regionale di Hebron Sud gestito dai coloni si trovano tutti sulla collina opposta; a Nord c’è la città di Dahariya. Zanuta è ora un insieme di capanne in rovina, non un tetto è rimasto al suo posto, staccati dai tetti che avrebbero dovuto sostenere. I resti di case in pietra vecchie di centinaia di anni intervallate da strutture più recenti, recinti per animali mezzi distrutti e decine di pneumatici sono sparsi tutt’intorno.

I cani da pastore annusano tra le rovine, cercando anche loro un po’ d’ombra dal sole del deserto; gli abitanti del villaggio si riposano sotto un gruppo di alberi che non sono stati sradicati. Domenica di questa settimana, il personale dell’Amministrazione Civile, che in genere è composto anche da coloni, si è presentato di nuovo e ha confiscato la rete dei recinti per animali.

Faiz Haderath, 45 anni, padre di sei figli, capo del Consiglio del villaggio di Zanuta, nato in una grotta qui, e pastore come gli altri, è anche lui sdraiato sotto un albero, l’unica via di fuga dal sole cocente. Lo scorso fine settimana, Haderath ha perso una delle sue capre, che, dice, è stata calpestata da un cavallo montato da un colono che può identificare per nome. Haderath invoca la parola “uccisione” per descrivere la morte della capra.

L’intera popolazione di Zanuta, 36 famiglie, che vivono su entrambi i lati dell’autostrada 60, è fuggita lo scorso 17 novembre, circa cinque settimane dopo lo scoppio della guerra. Erano giunti alla conclusione che il pericolo rappresentato dagli attacchi alla vita dei bambini, e delle pecore, era troppo acuto, lasciando loro altra scelta che abbandonare le proprie case. Il terrore era così schiacciante che nessuno è rimasto, nemmeno per sorvegliare le sue proprietà. Nawaj’ah, il ricercatore sul campo, nota che la violenza dei coloni ha portato all’abbandono di sei villaggi nelle colline a Sud di Hebron durante la guerra.

I disastri di Zanuta sono iniziati nel 2021, con la fondazione dell’avamposto di Havat Meitarim, che gli abitanti del villaggio chiamavano Havat Yinon Levi, la fattoria di Yinon Levi, dal nome del suo fondatore, contro il quale l’amministrazione statunitense ha emesso sanzioni a febbraio a causa della sua violenza. Nella prima fase, i residenti dell’avamposto hanno preso il controllo della maggior parte dei pascoli e delle sorgenti del villaggio. Il capo del Consiglio Haderath parla di aggressioni contro i pastori, sradicamento di alberi, cani aizzati contro le greggi, pecore investite da veicoli fuoristrada e calpestate dai cavalli e altro ancora. Eppure, in qualche modo, hanno imparato a convivere con la situazione.

Ma poi è arrivata la guerra e la brutalità si è intensificata in frequenza e forza. I coloni hanno iniziato ad arrivare con i fucili, solitamente accompagnati da soldati in uniforme, da squadre di emergenza o unità di difesa territoriale, lanciando pietre di giorno e di notte contro le capanne, seminando distruzione, instillando paura. Ci sono stati almeno dieci attacchi particolarmente gravi, dice Haderath, e questi hanno portato alla decisione finale di andarsene. L’obiettivo dei coloni è stato raggiunto, almeno temporaneamente.

Il loro autoesilio è durato quasi dieci mesi, mentre si sparpagliavano nella zona, trovando rifugi provvisori, per loro e per i loro animali, vicino a Dahariya, la città del distretto. “Pensavamo che le cose sarebbero state più tranquille”, dice il capo del Consiglio. Ma i coloni li hanno perseguitati anche nelle loro nuove dimore. C’è un avamposto di coloni vicino a ogni rifugio temporaneo che gli abitanti del villaggio hanno trovato: Havat Mor, Tene Omarim, Havat Yehuda, e i loro residenti hanno continuato a rendere la vita dei palestinesi un inferno nella loro diaspora temporanea. Anche coloro che si sono rintanati accanto al posto di blocco di Meitar hanno sopportato implacabili molestie da parte dei soldati, a tutte le ore.

Di tanto in tanto guardavano il loro villaggio abbandonato dalla strada. Ma non osavano avvicinarsi. A un certo punto i coloni hanno cercato di recintare il villaggio per bloccare l’accesso alle case e alla proprietà, ma gli abitanti del villaggio hanno ottenuto un ordine del tribunale per rimuovere il nuovo ostacolo. A poco a poco, però, hanno visto il loro villaggio essere distrutto.

È iniziato a dicembre, quando circa metà delle strutture, circa una trentina, sono state vandalizzate. La fase finale si è effettivamente svolta solo nelle ultime settimane, dopo che l’Alta Corte di Giustizia ha accettato in parte l’istanza degli abitanti del villaggio e ha stabilito che lo Stato deve consentirgli di tornare alle proprie case e proteggere loro e le loro proprietà. Ciò è avvenuto alla fine di luglio.

Lo Stato ha richiesto un rinvio nell’attuazione dell’ordine e nelle settimane tra allora e l’inizio del ritorno, la demolizione è stata completata quasi completamente. Haderath stima che circa il 90% delle strutture del villaggio siano state distrutte. Quelle poche settimane di agosto hanno visto anche la distruzione dei pali dell’illuminazione a energia solare nel villaggio, che non ha energia elettrica, e la distruzione degli ultimi 40 ulivi.

Tuttavia, gli abitanti del villaggio sono rimasti sconvolti dall’entità della devastazione quando sono tornati due settimane e mezzo fa, il 21 agosto. Nel frattempo, solo gli uomini sono tornati, con le pecore; non hanno ancora osato riportare indietro le donne e i bambini, così come parte del bestiame. “Non c’è modo che donne e bambini tornino per ora, solo uomini e pecore”, afferma Haderath. Questa settimana non era chiaro se i bambini andranno a scuola a Dahariya o saranno trasportati in autobus alle rovine della loro scuola nel villaggio.

E i coloni non hanno mollato, come dimostra l’uccisione della capra. Vengono al villaggio ogni giorno per intimidire, molestare, maledire e minacciare. Lunedì di questa settimana abbiamo visto il loro drone volare sopra il villaggio; all’inizio ho pensato fosse un rapace. I droni spaventano pecore e capre, gli animali si mettono a correre per cercare di scappare. In passato, gli abitanti del villaggio hanno sporto denuncia alla polizia, ma non lo hanno fatto da quando sono tornati, avendo perso la speranza che le autorità intervenissero.

Tuttavia, la scorsa settimana l’avvocato dei residenti, il dottor Quamar Mishirqi-Assad, della ONG Haqel: In Difesa dei Diritti Umani, ha inviato una lettera urgente all’IDF e alla polizia israeliana, affermando che nonostante la sentenza dell’Alta Corte di Giustizia secondo cui lo Stato deve garantire la sicurezza degli abitanti del villaggio e impedire l’ingresso dei coloni, questi ultimi persistono nelle loro provocazioni quotidiane. Elencando una serie di reati, Mishirqi-Assad chiede che una forza di polizia venga assegnata al villaggio alla luce delle minacce esplicite fatte ai pastori che se fossero tornati e fossero rimasti, sarebbero stati uccisi. Non è stata ricevuta alcuna risposta alla lettera, ed è improbabile che ce ne sarà una.

Ma le traversie degli abitanti del villaggio non finiscono qui. Dal loro ritorno, l’Amministrazione Civile gli ha rifiutato il permesso di ricostruire le proprie case. Tornare, sì, ma alle rovine. Anche stendere un telo di tessuto sui detriti, per sostituire un tetto e fornire protezione dal sole, è proibito. I coloni vengono ogni giorno e fotografano ogni cambiamento che gli abitanti del villaggio osano fare; subito dopo arriva il personale dell’Amministrazione Civile per confiscare e demolire.

Questo è stato il destino, ad esempio, della recinzione eretta da Mohammed Thal, un pastore di capre: è stata strappata e confiscata dalle autorità militari israeliane circa un’ora dopo la visita dei coloni a fine agosto. Un gran numero di soldati è stato portato lì per occuparsi della recinzione. “Cos’è questa forza? Per prendere sei pali di ferro e una rete? Più di trenta soldati per sei pali e una rete?” Gli abitanti del villaggio sono troppo spaventati persino per raccogliere oggetti che giacciono a terra: i rispettabili coloni che fanno rispettare la legge si presenteranno, scatteranno foto, li informeranno e poi i loro compagni coloni dell’Amministrazione Civile arriveranno e distruggeranno. È così che succede nelle colline a Sud di Hebron.

Il Portavoce dell’Amministrazione Civile ha rilasciato la seguente dichiarazione ad Haaretz questa settimana: “Come dichiarato dalle autorità locali, l’area in questione non è una zona militare interdetta e il ritorno dei suoi residenti non è proibito. In seguito alle udienze del tribunale e alla sua sentenza, i palestinesi sono tornati a Hirbet Zanuta. Durante il loro ritorno, soldati dell’IDF e in particolare funzionari dell’Amministrazione Civile sono stati dispiegati per garantire la sicurezza e l’ordine pubblico nella zona. Va notato che i palestinesi hanno eretto una serie di strutture edilizie illegali e, per quanto riguarda queste, sono state prese misure di esecuzione, in conformità con la legge”.

“Sottolineiamo che, dal loro ritorno sul sito, non abbiamo ricevuto alcuna denuncia riguardante israeliani che hanno causato danni lì e, quindi, tale reclamo non è noto.

L’IDF agisce per rendere possibile una vita sicura per tutti i residenti della zona”.

“La Corte ha sancito che i residenti devono tornare a casa. Come è possibile che la Corte ordini il loro ritorno e l’Amministrazione Civile dica che non possono ricostruire? Lo Stato non ha protetto le case e ora non ne consente la ricostruzione. Lo Stato sta effettivamente dicendo: tornate al villaggio e morite sotto il sole”, ha detto Nawaj’ah, il ricercatore sul campo di B’Tselem.

Abbiamo parlato con Thal, il pastore di capre, il cui gregge conta 300 animali, tra capre e pecore. “Il latte di capra è migliore del latte di pecora, e anche il formaggio è migliore. Ma le capre sono più problematiche”. A cui il capo del Consiglio Haderath ha aggiunto: “Le capre sono come i coloni. Le pecore non combinano guai, lo fanno le capre. Ma io ho ricevuto le capre da mio padre, che le ha ricevute da mio nonno, quindi non posso occuparmi di pecore, solo di capre”.

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Nasce la ‘Confederazione del Sahel’ che cancella l’Africa francese

 

Si consolida l’alleanza tra le giunte militari al potere in Mali, Niger e Burkina Faso, che decidono di ‘federarsi’ creando un blocco alternativo alla Comunità economica dei Paesi dell’Africa sub-sahariana (Cedeao o Ecowas), organismo regionale accusato di essere uno strumento delle ex potenze coloniali occidentali, in particolare della Francia. Basta ‘Franco CFA’, cercasi nome alla nuova moneta. Tensioni tra Burkina Faso e Costa d’Avorio per presunte basi segrete francesi.

L’Alleanza del Sahel diventa Confederazione

Dopo l’avvio di una stretta collaborazione militare che ha portato all’espulsione della maggior parte delle truppe occidentali presenti nel Sahel e all’avvio di una strategia comune contro l’insorgenza jihadista, i tre paesi ora accelerano anche sulla cooperazione sul fronte economico, sanitario, dell’istruzione e delle infrastrutture, sottolinea ‘Pagine Esteri’. «Nei giorni scorsi, i tre paesi hanno annunciato la creazione della ’Confederazione degli Stati del Sahel’, evoluzione della precedente ‘Alleanza del Sahel’ formalizzata a settembre», precisa Marco Santopadre.

Mali, Niger e Burkina Faso a tutta economia

Riuniti a Niamey, capitale del Niger, i capi dei tre governi nati da diversi e successivi golpe anti coloniali, hanno formalizzato la creazione di una ‘Banca di investimento comune’ e di un ‘Fondo di stabilizzazione’, già annunciati a novembre. Assimi Goita, Ibrahim Traoré (Burkina Faso) e Abdourahamane Tiani (Niger) hanno poi deciso di creare una «Forza Unificata del Sahel», per rafforzare la lotta contro i ribelli islamisti. A guidare la neonata Confederazione sarà il ‘presidente ‘di transizione’ del Mali, colonnello Assimi Goita, nominato presidente di turno dell’organizzazione con un mandato di un anno.

Verso l’addio al ‘Franco CFA’

I tre paesi continuano lavorare sugli aspetti tecnici per arrivare ad abbandonare il ‘Franco CFA’ (nel 1945, CFA era l’acronimo di ‘Colonie Francesi d’Africa’; successivamente, divenne acronimo di ‘Comunità Finanziaria Africana’), con l’intenzione di adottare una moneta comune ai tre paesi. Infine, i capi delle tre giunte militari hanno incaricato i ministri competenti di elaborare urgentemente tutte le procedure tecnico diplomatiche per l’uscita dei tre Paesi dei Sahel dalla Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale), l’accordo economico stipulato da dodici Stati dell’Africa occidentale nel 1975, e tuttora in vigore, ma destinato a scadere il prossimo anno.

Cancellare anche il nome del ‘Franco’

La creazione della “Confederazione del Sahel” ha ovviamente allarmato l’organismo regionale, che ha tenuto un vertice straordinario ad Abuja (Nigeria) il 7 luglio. Con la fuoriuscita di Mali, Niger e Burkina Faso, infatti, la Cedeao perderebbe più del 12% del Pil e il 16% della popolazione, oltre che tre paesi ricchi di risorse minerarie e strategici sul piano geopolitico. Mentre i cinque Paesi che restano della ‘Cedeao’ hanno progettato di adottare una moneta comune a partire dal 2025; la moneta dovrebbe chiamarsi Eco. L’unione monetaria verrà detta ‘Zona monetaria dell’Africa occidentale’ (ZMAO). E anche questa nascita, prevista a partire dal 2025.

Rischi e minacce

In caso di ritiro dei tre della ‘Confederazione del Sahel’, ha detto il presidente della Cedeao, l’organismo regionale in vita ormai da mezzo secolo, Omar tre paesi del Sahel potrebbero perdere finanziamenti per più di 500 milioni di dollari. Per Touray, rischio di disintegrazione della Cedeao che interromperebbe la libertà di movimento per i suoi 400 milioni di abitanti e peggiorerebbe la sua sicurezza. Il rischio di una disintegrazione paventato anche dal presidente del Senegal Bassirou Faye, che sostiene la necessità di liberare l’organismo «dagli stereotipi che la dipingono come un’organizzazione ‘soggetta alle influenze di poteri esterni’». Sentori di colonialismo, con Faye che ha anche criticato le sanzioni imposte dalla Cedeao ai tre paesi ‘ribelli’ dopo i rispettivi colpi di stato.

Basi segrete francesi in Costa d’Avorio

Intanto la giunta militare al potere in Burkina Faso ha alzato i toni nei confronti di Costa d’Avorio e Benin, accusati di essere strumenti dell’ingerenza di Parigi nella regione. «Non abbiamo nulla contro il popolo ivoriano. Ma abbiamo qualcosa contro chi governa la Costa d’Avorio. Esiste un centro operativo ad Abidjan per destabilizzare il nostro Paese» ha dichiarato il leader della giunta militare, che accusa il Benin di ospitare due installazioni militari francesi segrete, a suo dire utilizzate per addestrare terroristi contro il Burkina Faso. La Costa d’Avorio è ancora saldamente nell’orbita politica, economica e militare di Parigi. Il Benin ha un conflitto aperto anche con il Niger dopo che questo ha bloccato il trasporto di petrolio da un oleodotto cinese verso il porto di Cotonou.

Burkina e risorse minerarie

Traoré, il capo della giunta del Burkina ha annunciato di voler rimanere al potere nei prossimi cinque anni, partendo da subito con la nazionalizzazione delle risorse minerarie – soprattutto di oro – e il blocco dei permessi di estrazione finora concessi a multinazionali straniere. A novembre la giunta militare burkinabé ha avviato la costruzione di una raffineria d’oro, mentre a gennaio ha inaugurato il primo impianto per la lavorazione dei residui minerari (principalmente carbone fino, scorie, concentrati acidi e ceneri), per avere maggior controllo sul loro trattamento e smettere di esportarli. La fabbrica è di proprietà di una società privata locale, la Golden Hand, di cui lo stato controlla il 40%.

Le ricchezze sono mie e le sfrutto io, e gli amici

D’ora in poi gli unici attori stranieri che saranno autorizzati a sfruttare il settore minerario del paese, ha detto Traoré, saranno «i sinceri partner che accettano di sostenerci nella lotta contro l’insorgenza jihadista, spesso legata ad Al Qaeda o a Daesh». Un implicito richiamo alle relazioni commerciali avviate con Mosca in cambio di un sostegno militare che però finora non ha sortito gli effetti sperati.

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giovedì 12 settembre 2024

Come BlackRock controlla il mondo – Andrea Wailzer

BlackRock è una delle organizzazioni più potenti al mondo e il suo ruolo nefasto nell’economia e nella politica globali sta diventando sempre più evidente.

Il gigante degli investimenti sta spingendo la politica risvegliata sotto forma di punteggi di credito sociale aziendale (ESG), che include il pericoloso “net zero” e l’agenda LGBT. BlackRock è anche responsabile della manipolazione dei sistemi finanziari e ha il controllo su una parte significativa della ricchezza mondiale.

Per reagire, dobbiamo sapere con cosa abbiamo a che fare. In questo articolo, facciamo un tuffo nella storia, nelle attuali pratiche commerciali e nei piani del colosso globalista noto come BlackRock.

La storia di BlackRock e del suo fondatore

All’inizio del 2022, BlackRock Inc. aveva circa $ 10 trilioni di asset in gestione, rendendolo il più grande asset manager al mondo. Blackrock detiene un numero significativo di azioni nella maggior parte delle più grandi società del mondo, tra cui Amazon, Apple, Microsoft, Google, Tesla, Coca-Cola, Moderna, Johnson & Johnson, Exxon Mobil, Visa, Chevron, JPMorgan Chase, Walmart, e molti altri.

La società è stata fondata 35 anni fa, nel 1988, dal banchiere di investimenti e attuale CEO Larry Fink come organizzazione affiliata di Blackstone Inc. Originariamente si chiamava Blackstone Financial Management ed è cresciuta rapidamente nei primi quattro anni della sua esistenza, raggiungendo un portafoglio di $ 17 miliardi entro il 1992, ha riferito il giornalista James Corbett .

Poiché BlackRock era diventata un’azienda molto rispettabile, Fink e Stephen Schwarzman, l’amministratore delegato di Blackstone, decisero di separare BlackRock da Blackstone e trasformarla in una propria impresa.

BlackRock è diventato pubblico nel 1999 per $ 14 per azione; a questo punto l’azienda gestiva attività per 165 miliardi di dollari. All’inizio degli anni 2000, l’azienda ha ampliato la propria attività per includere l’analisi e la gestione del rischio. Ha acquistato la società di gestione degli investimenti State Street Research & Management nel 2004, si è fusa con la società di gestione degli investimenti Merrill Lynch nel 2006 e ha acquisito la principale unità di gestione patrimoniale del Gruppo Quellos nel 2007, portando il valore patrimoniale totale di BlackRock in gestione a oltre $ 1 trilione.

Mentre il successo finanziario di BlackRock può sembrare impressionante fino a questo punto, ciò che ha davvero trasformato l’azienda nel dominatore finanziario globale che è oggi è stata la crisi finanziaria del 2007 e del 2008. Il giornalista Heike Buchter, che ha scritto un libro su BlackRock, ha dichiarato nel 2015 , “Prima della crisi finanziaria non conoscevo nemmeno il nome. Ma negli anni successivi al crollo di Lehman [Brothers] [nel 2008], BlackRock è apparso ovunque. Ovunque!”

Molte banche, tra cui Lehman Brothers, così come il governo degli Stati Uniti e la Federal Reserve si sono rivolti a Fink e BlackRock per chiedere aiuto per risolvere i complicati strumenti finanziari che avevano portato alla crisi e per assistere con i salvataggi del 2008. Fink è stato considerato da queste istituzioni un esperto degli strumenti finanziari che hanno portato alla crisi dei mutui subprime perché ha contribuito a creare l’industria dei mutui tossici. Negli anni ’80, quando Fink lavorava ancora per la banca d’affari First Boston, costruì “il suo primo Collateralized Mortgage Obligation (CMO) e quasi da solo” creò “il mercato dei mutui subprime che sarebbe fallito in modo così spettacolare nel 2008”. Corbet ha scritto: “Quando finalmente la polvere si è posata su Wall Street dopo il crollo di Lehman Brothers, c’erano pochi dubbi su chi fosse seduto in cima al mucchio di polvere: BlackRock”.

Sotto la guida di Fink, BlackRock ha usato il suo potere finanziario e la sua influenza per entrare nella politica nazionale e internazionale. L’autore e giornalista economico F. William Endgahl la mette così :

"Il fondatore e CEO di BlackRock, Larry Fink, è chiaramente interessato ad acquistare influenza a livello globale. Ha nominato l’ex deputato tedesco della CDU Friederich Merz capo di BlackRock Germania quando sembrava che potesse succedere al cancelliere Merkel, e l’ex cancelliere dello scacchiere britannico George Osborne come “consulente politico”. Fink ha nominato l’ex capo dello staff di Hillary Clinton Cheryl Mills nel consiglio di amministrazione di BlackRock quando sembrava certo che Hillary sarebbe stata presto alla Casa Bianca.

Ha nominato ex banchieri centrali nel suo consiglio e ha continuato ad assicurarsi contratti redditizi con le loro ex istituzioni. Stanley Fisher, ex capo della Banca d’Israele e successivamente vicepresidente della Federal Reserve, è ora Senior Adviser di BlackRock. Philipp Hildebrand, ex presidente della Banca nazionale svizzera, è vicepresidente di BlackRock, dove supervisiona il BlackRock Investment Institute. Jean Boivin, l’ex vice governatore della Bank of Canada, è il responsabile globale della ricerca presso l’istituto di investimento di BlackRock."

Puoi vedere chiaramente l’intreccio tra BlackRock ei più alti livelli della politica e degli affari e l’immensa influenza globale che la società di investimenti di Fink possiede. La corporazione divenne così potente che il professor William Birdthistle la definì il “quarto ramo del governo”.

BlackRock in combutta con l’amministrazione Biden

Nel 2019, quando Joe Biden pensò di candidarsi alla presidenza contro Donald Trump, l’ex vicepresidente si incontrò con Fink per chiedere il sostegno di BlackRock. Secondo quanto riferito, il CEO ha detto a Biden che “sono qui per aiutare”.

Biden, apparentemente pronto a compensare BlackRock per il suo aiuto, ha nominato Brian Deese direttore del National Economic Council subito dopo essere diventato presidente. Prima di allora, Deese è stato Head of Sustainable Investing di BlackRock dal 2017 al 2020. Ha anche ricoperto diverse posizioni chiave nell’amministrazione Obama, tra cui consigliere senior del presidente.

Un altro ex dipendente di BlackRock nell’attuale amministrazione Biden è il vice segretario al Tesoro Adewale Adeyemo , che è stato consigliere senior di Fink dal 2017 al 2019. Il politico di origine nigeriana ha anche stretti legami con l’ex presidente Barack Obama; è stato scelto per essere il primo presidente della Fondazione Obama nel 2019.

Inoltre, l’ex capo stratega degli investimenti globali di BlackRock, Michael Pyle , è ora il consigliere economico senior del vicepresidente Kamala Harris. Pyle è stato anche consigliere senior del sottosegretario al Tesoro per gli affari internazionali nell’amministrazione Obama.

Si può dire che la politica economica dell’amministrazione Biden sia essenzialmente gestita da BlackRock.

Il ruolo chiave di BlackRock nel Great Reset e nella “pandemia” di COVID

Corbett sostiene che la “pandemia” di COVID-19 non riguardava principalmente un virus, ma rappresentava piuttosto un’opportunità per le élite globali, in particolare BlackRock, di rimodellare l’economia globale e il sistema finanziario.

Il 22 agosto 2019, Fink ha ufficialmente unito le forze con il World Economic Forum (WEF) globalista di Klaus Schwab quando è diventato membro del Consiglio di fondazione del WEF. Lo stesso giorno è iniziata una riunione di banchieri centrali, economisti e politici per discutere di politica economica – l’annuale Jackson Hole Economic Symposium – dove BlackRock ha dato il via alla sua rivoluzione finanziaria.

Una settimana prima dell’evento, BlackRock ha pubblicato un documento che avrebbe fissato i parametri della discussione al simposio di Jackson Hole, nel Wyoming.

“Dopo anni di allentamento quantitativo (QE) e ZIRP (politica del tasso di interesse zero) e persino dell’impensabile NIRP (politica del tasso di interesse negativo), i banchieri stavano finendo lo spazio per operare”, ha spiegato Corbett .

Quindi, le élite finanziarie avevano bisogno di qualcosa di nuovo e BlackRock ha fornito loro una risposta: “Going direct”.

Per comprendere il concetto, bisogna innanzitutto sapere che il sistema monetario è diviso in due circuiti: il circuito al dettaglio e il circuito all’ingrosso. Il circuito della vendita al dettaglio è il luogo in cui viene speso il “denaro bancario”, cioè il denaro che le persone normali e le imprese spendono per effettuare transazioni nell’economia. Poi c’è la “moneta di riserva” (circuito all’ingrosso) che sono i depositi che le banche tengono presso le banche centrali, come la Federal Reserve (Fed) o la Banca Centrale Europea (BCE).

Per una spiegazione più dettagliata dei due circuiti monetari, puoi leggere il mio articolo su Central Bank Digital Currencies .

La proposta di BlackRock di “andare direttamente” significava aggirare il sistema monetario diviso e lasciare che le banche centrali pompassero direttamente denaro in vari enti pubblici e privati.

“È necessaria una risposta senza precedenti quando la politica monetaria è esaurita e la politica fiscale da sola non è sufficiente”, affermava il documento di BlackRock dell’agosto 2019. “Questa risposta probabilmente implicherà ‘andare direttamente’: andare direttamente significa che la banca centrale trova modi per mettere il denaro della banca centrale direttamente nelle mani di chi spende nel settore pubblico e privato”.

Nel settembre 2019, mesi prima dell’inizio della cosiddetta “pandemia”, il denaro della Federal Reserve ha iniziato a essere pompato direttamente nel circuito monetario al dettaglio.

Una volta che i salvataggi federali sono iniziati con i primi blocchi nel marzo 2020, il sistema del “going direct” era già stato messo in atto e la Fed poteva investire direttamente denaro in organizzazioni pubbliche e private.

“Quello che ci è stato detto era una ‘pandemia’ era in realtà, a livello finanziario, solo una scusa per un pompaggio assolutamente senza precedenti di trilioni di dollari dalla Fed direttamente nell’economia”, ha scritto Corbett .

Nel marzo 2020, analogamente alla crisi finanziaria del 2007-2008, la Fed si è rivolta a BlackRock per gestire i suoi programmi di salvataggio .

Ciò ha consentito a BlackRock di accedere al denaro del governo, ovvero dei contribuenti, e di distribuirlo alle società in cui BlackRock aveva investito e ha consentito a BlackRock di salvare uno dei suoi asset più importanti: iShares, la raccolta di fondi negoziati in borsa (ETF) , che a gennaio 2023 aveva un patrimonio gestito di 2,23 trilioni di dollari .

Ciò significa che BlackRock è stato autorizzato dalla Fed a utilizzare i soldi dei contribuenti per salvare i propri beni. Russ e Pam Martens lo mettono così nel loro articolo sul blog :

Nessun contratto di offerta e l’acquisto dei tuoi prodotti, cosa potrebbe esserci di sbagliato in questo? Per rendere le cose ancora più eclatanti, il disegno di legge di stimolo noto come CARES Act ha stanziato 454 miliardi di dollari di denaro dei contribuenti per assorbire le perdite nei programmi di salvataggio istituiti dalla Fed. Un totale di 75 miliardi di dollari è stato stanziato per ridurre le perdite nei programmi di acquisto di obbligazioni societarie gestiti da BlackRock. Dal momento che BlackRock è autorizzato ad acquistare i propri ETF, ciò significa che i contribuenti mangeranno perdite che potrebbero altrimenti accumularsi per la società e gli investitori del miliardario Larry Fink.

Oltre alla Fed, anche la Bank of Canada e la banca centrale svedese hanno consultato BlackRock per aiutare a gestire il loro programma di acquisto di obbligazioni societarie.

Con il colpo di stato “diretto” del 2020, “BlackRock ha davvero conquistato il pianeta”, ha scritto Corbett .

“Ora dettava gli interventi della banca centrale e poi agiva in ogni ruolo immaginabile e in diretta violazione delle regole sul conflitto di interessi, agendo come consulente e advisor, come manager, come acquirente, come venditore e come investitore sia con la Fed che con la stesse banche, società, fondi pensione e altre entità che stava salvando.

L’onnipotente sistema IT di BlackRock

Una parte significativa del valore di tutte le azioni e le obbligazioni del mondo è gestita attraverso il “sistema di elaborazione centrale per la gestione degli investimenti” di BlackRock.

Questo sistema, chiamato Aladdin (abbreviazione di “asset, liability, debt and derivative investment network”), non è utilizzato solo da BlackRock stessa.

BlackRock Solutions , una delle filiali di BlackRock, concede in licenza Aladdin a oltre 150 istituzioni, tra cui il secondo gestore patrimoniale più grande al mondo, Vanguard, e un altro gigante del settore: State Street Global Advisors. Il sistema è utilizzato anche da molte delle più grandi compagnie assicurative del mondo e da aziende Big Tech come Alphabet (Google), Apple e Microsoft, nonché da numerosi fondi pensione.

Ogni giorno , Aladdin esegue le cosiddette “simulazioni Monte Carlo” – algoritmi informatici progettati per modellare la probabilità di possibili risultati in sistemi che contengono variabili casuali – su tutti gli strumenti finanziari sotto la sua gestione.

Nel 2017, Aladdin gestiva asset per un valore di 20 trilioni di dollari, secondo quanto riportato dal Financial Times . BlackRock ha smesso di riportare questa cifra da allora, ed è probabilmente molto più alta oggi.

In passato, il sistema informatico veniva utilizzato solo per calcolare il rischio mentre le decisioni erano ancora prese dall’uomo. Tuttavia, nel 2017, Fink “si è unito alle macchine” quando BlackRock ha iniziato a utilizzare un sistema informatico automatizzato chiamato “Monarch” che ha assunto il controllo del processo decisionale per molte delle sue risorse.

In breve, il sistema Aladdin di BlackRock gestisce beni per un valore di oltre 20 trilioni di dollari, il che significa che una parte considerevole della ricchezza mondiale dipende dai calcoli di un singolo sistema informatico. Inoltre, le decisioni di acquisto e vendita di azioni sono sempre più prese da algoritmi e intelligenza artificiale invece che da esseri umani.

Errori negli algoritmi, intenzionali o meno, potrebbero quindi provocare un disastro per l’economia mondiale.

La domanda scottante che rimane è cosa intende fare BlackRock con tutto l’immenso potere e l’influenza che ha acquisito.

Come BlackRock controlla il mondo

“I comportamenti dovranno cambiare e questa è una cosa che chiediamo alle aziende. Devi forzare i comportamenti e noi di BlackRock stiamo forzando i comportamenti”.

Questa citazione di Larry Fink del 2017 riassume ciò che BlackRock sta facendo con il suo potere e la sua influenza: forzare i comportamenti e modellare la società a sua immagine.

La “lettera agli amministratori delegati” annuale di Fink, sebbene ufficialmente non sia una direttiva, è stata descritta come un “invito all’azione” che cambia il comportamento aziendale di molte delle più grandi aziende del mondo. Ciò è stato persino confermato da un documento sottoposto a revisione paritaria che ha concluso che “le nostre prove suggeriscono che le società in portafoglio rispondono agli sforzi di impegno pubblico di BlackRock”.

Fink ha usato la sua influenza sul mondo aziendale per promuovere la sveglia agenda ambientale, sociale e di governance (ESG). L’ESG è essenzialmente una sorta di sistema di credito sociale per le aziende per assicurarsi di allinearsi alle politiche distruttive di emissioni di carbonio “net zero” e vari altri punti dell’agenda globalista.

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