lunedì 30 giugno 2025

Disuguaglianze, in Italia dieci miliardari detengono una ricchezza superiore a quella posseduta da 30 milioni di persone - Giulio Cavalli

 

Il governo rifiuta la tassa globale sui super-ricchi. Così l’Italia rinuncia a miliardi che servirebbero a sanità, scuola e giustizia sociale

 

Nell’arco di dieci anni, l’1% più ricco della popolazione globale ha aumentato la propria ricchezza di 33.900 miliardi di dollari – più di venti volte il necessario per eliminare la povertà estrema nel mondo. I soli miliardari hanno guadagnato 6.500 miliardi, pari al 14,6% dell’intero Pil globale. Un’accumulazione senza precedenti che coincide con la crescita della miseria per miliardi di persone. Oggi, oltre 3,7 miliardi di individui sopravvivono con meno di 8,30 dollari al giorno.

La disuguaglianza non è un effetto collaterale. È un prodotto sistemico, alimentato da un’architettura fiscale pensata per favorire i più ricchi. In alcuni Paesi, come il Regno Unito, l’aliquota effettiva pagata dai miliardari si aggira attorno allo 0,3% della loro ricchezza, meno di quanto versa in proporzione un infermiere.

Il grande rifiuto italiano

Di fronte a questo scenario, Brasile, Spagna, Germania e Sudafrica hanno promosso al G20 una proposta concreta: una tassa minima globale del 2% sui patrimoni superiori a un miliardo di dollari, in grado di generare 250 miliardi di dollari ogni anno. L’Italia ha scelto di sfilarsi. Il governo Meloni ha rifiutato di aderire alla coalizione, mantenendo invece un regime fiscale agevolato per attrarre ricchi stranieri – come la tassa fissa da 200.000 euro annui introdotta nel 2017 e confermata nel 2024.

Le ragioni addotte dal ministro Giancarlo Giorgetti mescolano sovranità nazionale e tecnicismi dilatori: prima si deve attuare la tassazione delle multinazionali (attualmente bloccata), poi – forse – si potrà discutere dei miliardari. Una strategia attendista che ha l’effetto pratico di mantenere lo status quo.

Il paradosso fiscale italiano

Il sistema tributario italiano, secondo i dati della Banca d’Italia e delle università di Pisa e Milano-Bicocca, è progressivo solo in apparenza. Chi guadagna oltre 500.000 euro l’anno paga in proporzione meno tasse di un quadro aziendale da 60.000 euro. Il motivo è semplice: il lavoro viene tassato fino al 43%, mentre i redditi da capitale – cioè quelli di cui vivono i ricchi – scontano una cedolare secca del 26% o meno. Risultato: i dieci miliardari italiani più ricchi – con un patrimonio stimato a 155 miliardi di euro – possiedono più della metà della ricchezza detenuta da 30 milioni di cittadini.

Il costo dell’ingiustizia

Non tassare i miliardari ha un costo altissimo. Se l’Italia adottasse l’aliquota minima del 2%, il gettito stimato sarebbe di 8 miliardi di euro annui. Salendo al 3%, si arriverebbe a 15 miliardi. Fondi che potrebbero essere destinati a sanità, istruzione e transizione ecologica. Invece, il nostro Paese resta inchiodato a un welfare sottofinanziato e a un’istruzione che amplifica – anziché correggere – le disuguaglianze.

Secondo il Censis, oltre il 50% degli italiani ritiene che lo Stato garantisca solo i servizi essenziali. E più della metà dei genitori è convinta che i propri figli avranno una vita economicamente peggiore. Un dato che certifica il blocco dell’ascensore sociale e la rottura del patto democratico tra cittadini e istituzioni.

Tassare è democrazia

La proposta di Oxfam e Zucman non è solo una misura fiscale. È un’azione politica per restituire legittimità e potere agli Stati, ridurre la disuguaglianza e ricostruire una coesione sociale in frantumi. Ma, come ha dichiarato Francesco Petrelli di Oxfam Italia, «senza il coraggio di alleanze strategiche per una tassazione più equa, il rischio è un futuro in cui la povertà sarà una condizione permanente».

Nel 2025, solo il 16% degli obiettivi globali di sviluppo sostenibile è sulla buona strada. E mentre l’1% globale si prepara al traguardo del primo trilionario, gli Stati tagliano gli aiuti internazionali: solo nel G7, i fondi per lo sviluppo saranno ridotti del 28% entro il 2026.

Di fronte a un sistema in cui i ricchi crescono e gli Stati arretrano, la tassazione progressiva non è un’opzione ideologica, ma una necessità strutturale. Rifiutarla, come fa oggi l’Italia, significa scegliere di non vedere il legame diretto tra disparità fiscale e disuguaglianza sociale. E significa abdicare, ancora una volta, al compito fondamentale della politica: redistribuire il potere, e non solo la ricchezza.

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L’inchiesta di Haaretz sulle stragi di palestinesi durante la distribuzione del cibo a Gaza

 

Soldati israeliani hanno raccontato in forma anonima di avere ricevuto precisi ordini di sparare sui civili

 

Un’inchiesta del quotidiano israeliano Haaretz ha raccontato come le stragi di civili palestinesi ai punti di distribuzione di cibo nella Striscia di Gaza, compiute nelle ultime settimane, siano state il risultato di precisi ordini dati dai comandanti israeliani ai loro soldati. Gli spari dovevano servire a disperdere le folle e hanno ucciso decine di persone. Sono accuse molto gravi, raccontate ad Haaretz dagli stessi soldati in forma anonima.

Le stragi sono state compiute vicino ai centri della Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), l’organizzazione voluta da Israele per controllare la distribuzione del cibo nella Striscia e usare la fame come ulteriore arma contro i palestinesi. La Ghf ha iniziato a operare da maggio con quattro centri, tre nel sud e uno nel centro, aperti per una sola ora al giorno, la mattina. Per questo, da quando hanno iniziato a essere operativi, attorno ai centri si sono create grandi folle, con migliaia di civili in coda fin dalla notte per cercare di ricevere del cibo, in una situazione sempre più drammatica.

Haaretz ha scritto che in diverse occasioni i soldati israeliani hanno sparato sui civili prima dell’apertura dei centri, per disperdere le folle, e poi dopo la chiusura, con la stessa motivazione.

Un soldato ha descritto le aree intorno ai centri come «zone della morte» («killing fields», in inglese). «Quando ero stanziato lì, venivano uccise ogni giorno da una a cinque persone. Erano trattate come forze ostili, non c’erano misure di controllo della folla o gas lacrimogeni, solo spari con qualsiasi arma a disposizione», come mitragliatrici, lanciagranate e mortai. «Quando i centri aprono i colpi si fermano. Il fuoco è la nostra forma di comunicazione».

Il soldato ha raccontato che nella sua esperienza nessun civile in coda ha mai risposto al fuoco israeliano e che nella sua zona di competenza l’esercito chiama informalmente questa procedura con il nome israeliano del gioco per bambini “un, due, tre, stella”. È un riferimento macabro al fatto che chiunque si muova, vicino ai centri, possa essere ucciso.

Secondo il ministero della Salute della Striscia, da fine maggio 549 persone sono state uccise vicino ai centri di distribuzione della Ghf o ai camion dell’ONU, e oltre 4mila sono state ferite. È possibile che questi numeri siano solo parziali.

Haaretz ha scritto che l’esercito ha sparato anche contro i civili che si erano radunati intorno ai camion o ai centri di distribuzione delle Nazioni Unite, che operano in modo molto limitato perché Israele controlla e limita molto l’ingresso di aiuti nella Striscia. Alcune fonti dell’esercito hanno detto che, oltre ai soldati, in alcuni casi hanno sparato contro i civili anche i membri di milizie palestinesi finanziate da Israele, come quella guidata da Yasser Abu Shabab e attiva nel sud della Striscia.

I soldati israeliani dovrebbero stare a varie centinaia di metri di distanza dai centri della Ghf: non possono entrare al loro interno, dove lavorano dei contractor statunitensi, e non dovrebbero avvicinarsi nemmeno ai “corridoi” che i palestinesi percorrono per raggiungerli. Non sempre questo succede. I soldati si posizionano intorno ai centri con carri armati, cecchini e mortai, in teoria per garantire la sicurezza delle operazioni di distribuzione. Un ufficiale in servizio presso uno dei centri ha detto che durante la notte «iniziamo a sparare per indicare alla popolazione [di Gaza] che questa è una zona di combattimento, e non devono avvicinarsi».

Varie persone sentite da Haaretz hanno ricondotto l’ordine di sparare al generale Yehuda Vach, comandante della Divisione 252 dell’esercito israeliano. Ma «molti comandanti e soldati lo accettano senza farsi troppo domande», ha detto un ufficiale. La divisione 252 non è l’unica a operare nelle zone vicine ai centri, ed è possibile che anche altri comandanti oltre a Vach abbiano dato le stesse indicazioni.

Un altro soldato riservista nella Divisione 252 ha detto che gli spari «dovrebbero essere colpi di avvertimento […] ma alla fine è diventata normale amministrazione. Ogni volta che spariamo uccidiamo o feriamo persone, e quando qualcuno chiede perché è necessario [sparare], non c’è mai una buona risposta. A volte anche la sola domanda irrita i comandanti». Aggiunge: «Sai che non è giusto […] ma Gaza è un universo parallelo».

Haaretz scrive che questa settimana un generale ha ordinato ai soldati della divisione 252 di sparare nel mezzo di un incrocio dove erano radunati dei civili che attendevano l’arrivo di un camion di cibo. Otto civili sono stati uccisi. L’esercito ha condotto un’indagine preliminare, ma non sono state prese azioni disciplinari.

Le persone sentite da Haaretz sono concordi nel dire che i civili palestinesi radunati ai centri non rappresentano un pericolo per i soldati israeliani. «Posso dire con certezza che le persone non erano vicine ai soldati e non li mettevano in pericolo. Non aveva senso: sono stati uccisi, per niente», ha detto un comandante israeliano riferendosi a un episodio in cui più di dieci persone palestinesi sono state uccise. «Questa cosa di uccidere persone innocenti è stata normalizzata», aggiunge.

Per alcuni di questi episodi (una minoranza rispetto al totale) l’esercito israeliano ha avviato delle indagini gestite internamente da una sezione che si occupa di esaminare casi di sospette violazioni del diritto bellico.

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domenica 29 giugno 2025

E la quarta volta siamo annegati. Sul sentiero della morte che porta al Mediterraneo - Sally Hayden

quando pensi che le cose vadano male, ti capita un libro che ti dimostra che le cose (in Libia, ma non solo) vanno molto peggio di come t'immagini.

Sally Hayden è una giornalista che racconta cosa succede davvero in Libia (e non solo) e in Europa.

non ha paura di fare nomi e cognomi, gli unici ad avere un falso nome sono i migranti prigionieri dei lager libici, perché possano essere protetti. 

ONU, Unhcr, Frontex, tutti i governi europei e l'Unione europea sono corrotti, marci fino al midollo, assassini che usano i terribili schiavisti e libici perchè facciano il lavoro sporco (per usare le parole del tedesco Merz) per gli europei.

gli stati europei pagano, con i soldi dei cittadini europei, chi tiene lontano dalle coste europee i migranti, se crepano meglio.

ONU, Unhcr, Frontex, tutti i governi europei e l'Unione europea fingono di controllare i carcerieri, ma sono loro a essere controllati dai carcerieri libici, che, per essendo spesso ricercati dalla Corte penale internazionale come criminali contro l'umanità, possono viaggiare tranquillamente in Europa e fare quello che vogliono dappertutto.

il libro è un'avventura per chi legge, i migranti torturati Sally Hayden ce li fa conoscere per nome, e quando uno ha un nome diventa ancora di più una persona.

ps1: intanto i migranti, se arrivano vivi in Europa, vengono rimandati indietro, in qualsiasi paese dove verranno torturati, dopo essere stati rinchiusi, in Italia, in prigioni speciali (cpr et similia, cambiano il nome delle prigioni ogni qualche anno), o in altri stati disponibili a rinchiudere esseri umani, in cambio di soldi.

ps2: che bello sarebbe se mettessero in un barcone alla deriva tutti i componenti (e i loro figli e nipoti) dei governi e dei parlamentari dei paesi europei e dell'Unione europea, con un litro d'acqua (calda) a testa, e fossero riportati nei campi di concentramento libici, e fossero trattati come un/una qualsiasi migrante, per mesi e anni. 

chissà come cambierebbero le leggi e regolamenti europei. 



 

«Ho scritto questo libro perché volevo documentare le conseguenze delle politiche europee sulla migrazione, a partire dal momento in cui l’Unione europea diventa innegabilmente colpevole dal punto di vista etico: quando cioè i rifugiati vengono respinti con la forza». Una scelta strategica che l’Ue ha fatto esplicitamente nel 2017 e che consiste nel bloccare in Nordafrica i flussi verso l’Europa.

L’autrice comincia a dedicarsi al tema il 26 agosto del 2018 riceve messaggi su Facebook da migranti che vivono in un centro di detenzione in Libia. Persone che chiedono aiuto a una giornalista che vive a Londra e che non può fare molto, ma può ascoltare e interloquire. Da quei messaggi, nasce la determinazione di andare a raccogliere storie di migranti direttamente in Libia, Sudan, Tunisia, Sierra Leone, Rwanda...

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…È un libro che non si concentra sul viaggio in mare, o almeno non principalmente, ma sul periodo subito prima, sui campi profughi in Libia, sulle torture che ogni giorno i migranti subiscono, sui processi in Etiopia a torturatori che improvvisamente spariscono senza scontare nessuna pena, sulle famiglie che tentano di richiamare l’attenzione su quello che sta succedendo ricorrendo a post correlati di foto su Facebook e altri social media, e soprattutto sulle responsabilità dell’Unione Europea e dell’ONU.

Il libro non descrive il ruolo di queste istituzioni in modo generico, ma fa nomi e cognomi e riporta stralci di interviste. È un insieme di reportage giornalistici, statistiche, ricerche fatte sul campo dalla stessa Hayden, vite private di migranti che lei ha incontrato o che l’hanno contattata per chiederle di raccontare le loro storie, riflessioni sulle sue scelte da giornalista, conversazioni e interviste con volontari di ONG, con membri dello staff di diverse organizzazioni internazionali e con politici di varie fazioni…

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Storico smaschera le bugie della NATO sulla guerra in Jugoslavia

 

sabato 28 giugno 2025

L'elettricità terapeutica in Sardegna (e non solo) - Alessandro Montisci

 

In questo mese di giugno due notizie si sono diffuse quasi contemporaneamente. La prima riguarda la delibera del neo commissario dell’Asl di Oristano che indice una selezione  interna per il conferimento di un incarico professionale di altissima professionalità per uno  specialista nella terapia elettroconvulsivante -TEC (ovvero Elettroshock) per il Servizio  Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’ospedale “S. Martino”. La seconda è la dichiarazione di  una dirigente psichiatra dell’Asl 8 di Cagliari che annuncia entusiasticamente a mezzo  stampa e TV la possibilità di una nuova terapia: «La stimolazione transcranica» per  combattere la ludopatia e soprattutto il GAP (Gioco d’Azzardo Patologico). Per adesso la  relativa apparecchiatura (Stimolatore Magnetico Transcranico) è disponibile solo a Cagliari, Oristano e Sassari ma presto lo sarà anche a Nuoro, Olbia, Ogliastra, Medio Campidano e  Sulcis Iglesiente. Si tratta di una terapia non invasiva e non farmacologica che utilizza il  campo magnetico per stimolare o inibire specifiche aree cerebrali. 

Le due notizie sono accomunate dall’uso “terapeutico” dell’elettricità, spacciando per  nuovo e moderno un approccio che, francamente, credevamo definitivamente relegato tra  le cattive pratiche del passato. In realtà esse denotano la persistenza della vecchia cultura  di stampo manicomiale che considera la malattia mentale alla stregua di un accidente “naturale” che colpisce quello “sventurato” paziente che così resta di esclusiva competenza  dello specialista psichiatra. Tale cultura attraversa oggi un felice periodo di revival in un Paese dove tutti gli spazi democratici, faticosamente conquistati ed erroneamente considerati acquisiti per sempre, si stanno vertiginosamente restringendo: vedi la recente approvazione del decreto sicurezza e la proposta del senatore Zaffini (FdI) in discussione al Senato e capace di affossare la legge 180 faticosamente difesa per quasi 50 anni. 

Così senza un’apparente reazione assistiamo al ritorno di pratiche che annullano la soggettività della persona e le profonde contraddizioni che segnano la sua storia personale, familiare e soprattutto il livello politico-sociale (vogliamo parlare delle connivenze dello Stato nel favorire e lucrare sul gioco d’azzardo?). 

Prevale la tendenza di nascondere dietro un tecnicismo “scientifico” tutti gli effetti di una società sempre più ingiusta con disuguaglianze crescenti e una povertà materiale e culturale che, soprattutto in Sardegna, non si era mai vista. 

E’ ora di reagire a tutti i livelli: scientifico, culturale, accademico, sociale e politico tanto più che stiamo repentinamente scivolando in un’economia di guerra. 

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“Siamo!” La strage clusiva - Miguel Martinez

 

Leggo che Mark Rutte, segretario generale della Nato, presentando l’Assemblea dell’Alleanza all’Aja, abbia detto che siamo in un’alleanza dove «combattiamo insieme e, se necessario, soffriamo e moriamo anche insieme».”

“We are in an alliance where we fight together and, if necessary, where we also suffer and die together”

Vi lascio due letture diverse.

La prima è che Mark Rutte sia una persona molto coraggiosa.

Il signor Rutte, secondo Wikipedia, non è sposato e non ha figli, e possiamo ipotizzare che si tratti di una rinuncia altruista: lui ha scelto, assieme ai suoi amici più cari, una vita di sofferenze sul campo di battaglia, e poi di morire con i capelli ancora scuri. Non vuole lasciarsi dietro vedove o orfani.

La seconda lettura è che Mark Rutte voglia dire,

“io ho deciso di dirigere da qualche protettissimo bunker una guerra mondiale. Per farla, sono disposto a prendere tuo figlio, età diciotto anni, e farlo storpiare, accecare o morire tra atroci dolori. E siccome credo alla parità di genere, farò la stessa cosa anche a tua figlia, e se tu ti opponi, ti faccio arrestare o fucilare.

Nel mentre, ordino di votare una legge che chiude la scuola dove va tua figlia per dare a mio cugino l’appalto per farci una caserma.

Comunque a guerra finita, ordinerò di fare un Avatar Virtuale pure dei tuoi figli, quindi non ti preoccupare.”

Ovviamente non ho idea quale dei due sia il vero Rutte.

Il dubbio infatti nasce per un motivo grammaticale, la clusività di prima persona.

Nelle lingue indoeuropee e semitiche, “noi” vuol dire due cose totalmente diverse.

“Noi mangeremo questo pranzo”

può significare,

“Io Miguel e te che mi ascolti, mangeremo insieme questo pranzo” (noi inclusivo)

come può invece significare:

“Io Miguel, e mio cugino detto Er Maiale, mangeremo insieme questo pranzo, e te chi mi ascolti, se osi avvicinarti alle briciole, ti spaccheremo la faccia” (noi esclusivo)

Insomma, l’indoeuropeo e semitico “noi” include o esclude – quindi sappiamo solo che clude.

Nel primo caso, la lingua malesiana, ad esempio, usa il pronome inclusivo di prima persona, kita.

Nel secondo quello esclusivo, kami.

Noi speriamo che l’auspicio ruttiano di soffrire e morire ammazzati (“We are in an alliance”) sia un noi esclusivo.

Simpaticamente, in questo caso, c’è sempre un piccolo, umano tocco di pudicizia. La guerra è come il sesso, si parla poco del piacereNella retorica bellica moderna, si piagnucola infatti solo dei nostri che soffrono, muoiono e si sacrificano.

Come se lo scopo di fare la guerra fosse quello di farsi male da soli.

No.

Spessissimo, gli umani si divertono, come tanti altri animali, a sottometterea fare male e a uccidere. Non escludo che mi divertirei anch’io, semplicemente è una di quelle cose, come il crac, che non ho mai provato.

 

E siccome gli umani almeno di sesso maschile si divertono così da quando esiste la storia, e pur di poter uccidere sono disposti persino a morire, non neghiamo a Rutte e ai suoi “noi” questo piccolo piacere di fare strage, prima che esalino l’ultimo respiro su qualche campo di battaglia.

Questo non cambia il discorso sui pronomi: anche nel caso di un noi esclusivo (“io e i miei amici intimi vogliamo ammazzare prima e solo dopo crepare”), Rutte sogna di storpiare, mutilare e accecare gente che non sono dei miei “noi”.

Ragazzini russi, o arabi o con gli occhi a mandorla, o roba del genere.

Questa foto invece ci dà un’ottima idea di come sarebbe un Rutte inclusivo, dove il suo “noi” ci mette dentro anche le persone che vuole soffrire e far morire ammazzati.

 

Ma aveva già detto tutto Georges Brassens:

“Oh voi, fomentatori
Oh voi, buoni apostoli
Morite voi per primi, vi cediamo il passo
Ma per carità, diamine
Lasciate vivere gli altri
La vita è quasi l’unico lusso che hanno quaggiù
Perché, in fin dei conti, la Morte
È abbastanza vigile
Non ha bisogno che le teniamo la falce”

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venerdì 27 giugno 2025

Stati canaglia: l’illegalità degli attacchi israeliani contro l’Iran sostenuti dagli Stati Uniti - Craig Mokhiber

 

L’attacco all’Iran è solo l’ultimo Crimine nel percorso di distruzione del Regime israeliano in Medio Oriente. La sua impunità, sostenuta dall’Occidente, è diventata una minaccia globale. 


Il Regime israeliano, drogato dell’impunità sostenuta dall’Occidente, ricco di armi fornite dall’Occidente e guidato da una violenta ideologia Razzista di matrice Occidentale, sta imperversando in Medio Oriente, lasciando dietro di sé una scia di sangue e distruzione.

Il palese atto di aggressione del Regime israeliano contro l’Iran è solo l’ultimo Crimine perpetrato dal Regime nell’attuale orgia di violenza che dura da venti mesi nella Regione.

Ma Israele non è uno Stato Canaglia solitario. E non potrebbe farla franca con i suoi Crimini senza un potente sostenitore.

Gli Stati Uniti hanno fornito al Regime israeliano il via libera per il suo attacco a sorpresa, la distrazione di colloqui diplomatici (forse in malafede) per facilitare l’attacco, i soldi delle tasse statunitensi per finanziare l’operazione, le informazioni per colpire, le armi e le munizioni per uccidere, la copertura diplomatica per proteggerlo dall’azione del Consiglio di Sicurezza, le forze statunitensi per intercettare la risposta difensiva dell’Iran, la promessa di un sostegno militare diretto degli Stati Uniti se Israele lo richiedesse e la copertura propagandistica di società mediatiche statunitensi complici. Ora gli Stati Uniti sembrano pronti a intervenire direttamente nell’attacco militare.

Ancora una volta, gli Stati Uniti sono complici dei Crimini di Israele.

La conseguente impunità israeliana, principale conseguenza della collaborazione degli Stati Uniti con il Regime israeliano, minaccia non solo l’autodeterminazione palestinese e la sovranità dei Paesi della Regione, ma anche la pace e la sicurezza globali.

 La minaccia globale dell’impunità israeliana

Negli ultimi mesi, il Regime israeliano ha perpetrato Genocidio e Apartheid in Palestina, un attacco terroristico transnazionale con cercapersone esplosivi in ​​Libano, migliaia di attacchi armati contro Libano, Siria, Yemen e Iran, l’Occupazione illegale di Territori palestinesi, libanesi e siriani, diverse esecuzioni extragiudiziali in territorio straniero, l’assalto e il sequestro della nave della flottiglia umanitaria Madleen, innumerevoli attacchi al personale e alle strutture delle Nazioni Unite e l’uso dei suoi rappresentanti nei Paesi occidentali per vessare i difensori dei diritti umani e corrompere i governi.

Israele possiede scorte di armi convenzionali, ad alta tecnologia, nucleari, chimiche e biologiche, non ne consente l’ispezione internazionale e si rifiuta di ratificare il Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Ed è governato da un Regime di estrema destra, profondamente Razzista e fondamentalmente violento, che non è vincolato da alcuna norma di Diritto Internazionale, diplomazia internazionale o moralità comune.

Aggiungete l’ingrediente dell’impunità e avrete la formula per un disastro globale. L’impunità garantita dall’Occidente di cui ha goduto il Regime israeliano è ciò che ha prodotto la sua Criminalità Seriale. E questa Criminalità minaccia l’intera Regione e, potenzialmente, il mondo.

Ancora peggio, per isolare ulteriormente il Regime israeliano, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno sistematicamente corrotto, catturato o schiacciato praticamente ogni governo della Regione, e hanno colpito duramente le zone del Libano (Hezbollah) e dello Yemen (Ansar Allah) che ancora sfidano il Regime e il suo violento Progetto Egemonico. Solo l’Iran è rimasto in piedi. In quanto tale, rappresenta un elemento intollerabile per il Regime israeliano e il suo sponsor statunitense: la deterrenza.

Una guerra per l’egemonia regionale tra Stati Uniti e Israele

Pertanto, l’Iran è preso di mira perché è l’ultimo Stato indipendente ancora in piedi nella Regione, in seguito alla corruzione e alla presa di potere della maggior parte dei governi arabi da parte degli Stati Uniti, e alla sistematica distruzione di quelli che si sono rifiutati di sottomettersi (ad esempio, Iraq, Libia, Siria).

L’essenza di questo Piano è stata rivelata più di vent’anni fa dal Generale statunitense ed ex comandante della NATO Wesley Clarke, quando descrisse i Piani statunitensi per “attaccare sette Paesi musulmani in cinque anni”. Nella lista figuravano Iraq, Libia, Siria, Libano, Somalia, Sudan e, naturalmente, l’Iran.

Anche dopo decenni di sanzioni, sabotaggi, aggressioni, tentativi di destabilizzazione e l’ingerenza delle agenzie di spionaggio occidentali, l’Iran si è rifiutato categoricamente di sottomettersi agli Stati Uniti. Nonostante le continue pressioni, si è rifiutato di abbandonare il popolo palestinese, di normalizzare il Colonialismo israeliano e l’Apartheid, o di guardare dall’altra parte mentre Israele perpetra un Genocidio.

È importante sottolineare che si è anche rifiutato di cedere il controllo delle sue risorse naturali (comprese significative riserve di petrolio e gas) all’impero statunitense. E, notoriamente, si rifiuta di rinunciare al suo diritto, in quanto Stato Sovrano, di sviluppare energia nucleare pacifica a beneficio della sua economia in via di sviluppo.

Poiché decenni di sforzi dell’Asse USA-Israele per strangolare e destabilizzare il Paese (causando al contempo grandi sofferenze alla popolazione civile) non sono riusciti a costringere l’Iran a sottomettersi, Stati Uniti e Israele sono ora passati a un’aggressione militare su larga scala, rispolverando le vecchie e inventate giustificazioni delle “armi di distruzione di massa” che li hanno così ben serviti a giustificare la loro aggressione nel vicino Iraq più di vent’anni fa.

Ma, in questo caso, hanno esteso l’argomento a livelli assurdi, basando la loro giustificazione per la guerra non sull’affermazione che l’Iran possiede armi di distruzione di massa, ma sul fatto che un giorno potrebbe acquisirle. Un’accusa resa ancora più ridicola dal fatto che gli stessi aggressori, sia gli Stati Uniti che Israele, possiedono effettivamente tali armi e che entrambi sono colpevoli di ripetuti atti di aggressione, mentre l’Iran non lo è.

Diritto di guerra: il crimine di aggressione

L’attacco immotivato del Regime israeliano sostenuto dagli Stati Uniti contro l’Iran è stato un Crimine ai sensi del Diritto Internazionale. Infatti, si è trattato di un attacco a tradimento, lanciato nel bel mezzo dei negoziati statunitensi in corso, e che ha preso di mira persino il funzionario iraniano responsabile dei negoziati. (E, tra l’altro, subito dopo che Israele ha interrotto internet a Gaza, calando una cortina digitale sul suo Genocidio in rapida accelerazione).

L’Articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite riconosce il diritto all’autodifesa solo in risposta a un “attacco armato” o quando specificamente autorizzato dal Consiglio di Sicurezza. Qualsiasi altro attacco armato costituisce il Crimine di Aggressione secondo il Diritto Internazionale.

Ciò significa che il Regime israeliano sta usando la forza contro l’Iran illegalmente, in violazione dell’Articolo 2 Paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite, che proibisce la minaccia o l’uso della forza, e, in quanto tale, sta commettendo il Crimine di Aggressione. In questo caso, per legge, il diritto all’autodifesa spetta all’Iran, e decisamente non a Israele (o agli Stati Uniti).

Inoltre, contrariamente a quanto sostengono i rappresentanti del Regime israeliano in Occidente, il Diritto Internazionale non ammette la cosiddetta “autodifesa preventiva” o i cosiddetti “attacchi preventivi”.

Alcuni, come l’amministrazione Bush nel periodo precedente l’aggressione all’Iraq, hanno cercato di sostenere che l’autodifesa preventiva fosse ammissibile. Ma tale argomentazione è stata ampiamente respinta, poiché l’intento della Carta era quello di vietare le rivendicazioni di autodifesa a meno che e fino a quando non si fosse verificato un attacco armato, o l’uso della forza militare non fosse stato autorizzato dal Consiglio di Sicurezza.

Persino l’idea di autodifesa preventiva, propria del Diritto Internazionale Consuetudinario del diciannovesimo secolo, sostenuta da alcuni prima dell’adozione della Carta delle Nazioni Unite, non si spinse fino alla distorsione di Bush. Prima dell’adozione della Carta, il Test Caroline* consentiva una sorta di autodifesa preventiva, ma solo se la minaccia era “istantanea, schiacciante e non lasciava alcuna scelta di mezzi, né alcun momento per la deliberazione”, chiaramente non il caso dell’attacco israeliano all’Iran. (* Il Test Caroline è una formulazione del Diritto Internazionale Consuetudinario, riaffermata dal Tribunale di Norimberga dopo la Seconda Guerra Mondiale, secondo cui la necessità di autodifesa preventiva deve essere “immediata, impellente, senza possibilità di scelta di mezzi né tempo per la deliberazione”. Il Test prende il nome dal Caso Caroline, l’insurrezione del Canadacontro la Gran Bretagna del 1837.)

Altri hanno cercato di trovare una via di mezzo, affermando che l’azione preventiva può essere ammissibile ogniqualvolta un attacco sia considerato “imminente”. Anche questa è un’argomentazione dubbia, poiché non esiste alcuna traccia di tale eccezione nel Diritto Internazionale. In ogni caso, nel caso dell’Iran, nessun attacco del genere era imminente, e il Regime israeliano non ha nemmeno affermato che lo fosse.

Certo, Israele, il Regime Canaglia per eccellenza, avvolto nell’armatura dell’impunità garantita dagli Stati Uniti, si preoccupa poco della legalità. Ma i suoi rappresentanti e i suoi mandatari cercheranno spesso di adottare una parvenza di legalità come parte degli sforzi propagandistici del Regime sui media occidentali.

In quanto tali, i mandatari di Israele hanno cercato di distorcere ulteriormente l’idea di autodifesa preventiva, rivendicando il diritto di attaccare chiunque in futuro decidesse di attaccare Israele. Cercano di affermare che l’Iran potrebbe un giorno sviluppare armi nucleari, che potrebbe usarle contro Israele se le sviluppasse, e che quindi Israele non ha altra scelta che attaccare l’Iran ora.

Chiaramente, in base al Diritto Internazionale, ciò è del tutto inammissibile. Se questa fosse la regola, qualsiasi Stato potrebbe legittimamente attaccare qualsiasi altro Stato in qualsiasi momento, semplicemente rivendicando una potenziale minaccia futura. E questo di fatto annullerebbe la Carta delle Nazioni Unite.

Ma, per Israele, questo ha perfettamente senso. Israele è, in sostanza, uno Stato Annientatore. È stato creato con la violenza, si è espanso attraverso la violenza ed è sostenuto da una violenza costante. La sua ideologia ufficiale si basa su una concezione militarizzata della sicurezza che essenzialmente afferma che chiunque non si sottometta a noi deve essere distrutto, affinché un giorno non cerchi di reagire.

Quindi, l’intera storia del Regime israeliano è stata caratterizzata da Militarizzazione, Conquista, Colonizzazione, Espansione e Aggressione. In termini pratici, ciò ha significato Genocidio contro la popolazione nativa della Palestina e continui attacchi contro i vicini del Regime.

Ma anche secondo le più ampie argomentazioni possibili di autodifesa preventiva (che, ancora una volta, è respinta da quasi tutta la disciplina del Diritto Internazionale), l’uso della forza da parte di Israele contro l’Iran sarebbe comunque illegale.

Non è un caso difficile. (1) L’Iran non possiede armi nucleari, (2) non vi sono prove che stia sviluppando armi nucleari, (3) non vi sono prove che userebbe tali armi contro il Regime israeliano anche se le ottenesse, (4) non vi era alcuna minaccia imminente e (5) il Regime israeliano non ha esaurito i mezzi pacifici, come richiesto dal Diritto Internazionale.

In sintesi, questa è l’aggressione per eccellenza, considerata il Crimine Supremo dal Diritto Internazionale e perpetrata dallo stesso Regime che sta attualmente perpetrando l’altro Crimine dei Crimini, il Genocidio. In questo contesto, qualsiasi complicità degli Stati Uniti in questi Crimini israeliani rende gli Stati Uniti altrettanto Criminali.

DIRITTO NELLA GUERRA: ATTACCHI A CIVILI E INFRASTRUTTURE CIVILI

Oltre al Crimine di Aggressione, gli attacchi del Regime israeliano contro l’Iran hanno incluso una serie di altre gravi violazioni del Diritto Internazionale Umanitario. Al momento della stesura di questo articolo, il Regime israeliano ha già ucciso centinaia di iraniani, in gran parte civili. Ha preso di mira condomini, sedi di media e almeno un ospedale. E ha assassinato diversi scienziati iraniani. Inutile dire che tali atti violano il principio di distinzione e il divieto di prendere di mira persone protette e infrastrutture civili protette.

L’Uccisione di scienziati è un esempio calzante. Solo se uno scienziato è un membro delle Forze Armate (ovvero, non un civile che lavora per le Forze Armate), allora, in alcune circostanze, può essere un bersaglio legittimo. Ma la maggior parte degli scienziati, compresi gli scienziati iraniani, sono civili, anche se lavoravano su armi. (E gli scienziati iraniani non lavorano nemmeno su armi, ma solo sull’energia nucleare.) Pertanto, prenderli di mira è del tutto illegale. E, inutile dirlo, è inammissibile, per legge, prendere di mira le persone nelle loro case solo perché sono scienziati che un giorno potrebbero lavorare sulle armi. Questo, in parole povere, è il reato di omicidio.

Allo stesso modo, l’attacco da parte di Israele a infrastrutture civili (ad esempio, condomini) per uccidere uno scienziato (civile o militare) non potrebbe superare i criteri di precauzione, distinzione o proporzionalità previsti dal Diritto Internazionale Umanitario, ed è quindi illegale. Inoltre, attaccare scienziati perché un giorno potrebbero costruire una bomba sarebbe di per sé illegale. Nell’attuale conflitto, questi scienziati non possono essere considerati in alcun modo una minaccia per le forze israeliane e non costituiscono obiettivi militari legittimi.

Accettare le oltraggiose argomentazioni del Regime israeliano equivarrebbe ad adottare una regola in base alla quale sarebbe lecito sparare a vista a tutti gli uomini, semplicemente perché un giorno potrebbero diventare soldati. Inutile dire che questo non è permesso.

Anche gli attacchi di Israele alle infrastrutture energetiche iraniane sono illegali. Tali impianti sono generalmente protetti dal Diritto Internazionale Umanitario, poiché essenziali per la sopravvivenza dei civili. Solo in circostanze molto limitate possono diventare obiettivi militari (ad esempio, quando i soldati sparano da essi e tutti i principi del Diritto Umanitario sono rispettati). Tali condizioni chiaramente non sono soddisfatte nel caso in questione. Nell’attuale conflitto, queste strutture non sono state utilizzate per minacciare in alcun modo le forze israeliane. Attaccarle è inammissibile per legge.

Attacchi agli impinati nucleari

Particolarmente eclatanti, sia dal punto di vista del Diritto che dell’Umanità, sono gli attacchi del Regime israeliano agli impianti nucleari iraniani. Nel Diritto Internazionale Umanitario, gli attacchi contro impianti pericolosi, come le centrali nucleari e altri impianti che ospitano quelle che la legge definisce “forze pericolose”, sono generalmente proibiti. Infatti, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha affermato che tali attacchi sono proibiti dal Diritto Internazionale e costituiscono una violazione della Carta delle Nazioni Unite.

Questi impianti sono protetti dal Diritto Internazionale a causa del potenziale danno grave che potrebbero causare alla popolazione civile in caso di attacco. Sebbene in teoria possano esserci circostanze in cui tali attacchi sono consentiti, in pratica sarebbe quasi impossibile per una parte in conflitto soddisfare le condizioni necessarie per attaccare legalmente tali impianti.

Le uniche circostanze in cui può essere consentito sono quando (1) questi impianti sono utilizzati direttamente per scopi militari (come il lancio di attacchi), (2) esiste un obiettivo militare legittimo, (3) l’attacco è necessario per tale obiettivo, (4) viene fornito un avvertimento efficace e (5) l’azione militare soddisfa i requisiti legali di precauzione, distinzione e proporzionalità. Tale criterio è quasi impossibile da soddisfare per quanto riguarda un impianto nucleare, a causa del rischio di perdite e diffusione di radiazioni e del potenziale danno esteso alla popolazione civile.

Inoltre, il Diritto Internazionale Umanitario proibisce anche qualsiasi mezzo di guerra che sia inteso o possa causare danni estesi, duraturi e gravi all’ambiente naturale. Il diritto di neutralità impone alle parti in conflitto di non causare danni transfrontalieri a uno Stato neutrale a causa dell’uso di un’arma in uno Stato belligerante, cosa che sarebbe inevitabile con il rilascio di emissioni nucleari.

In quanto tali, gli attacchi del Regime israeliano contro gli impianti nucleari iraniani sono illegali.

Frenare i criminali

L’aperta illegalità del Regime israeliano e dei suoi sostenitori ha devastato sia i Paesi e i popoli del Medio Oriente, sia la legittimità stessa del Diritto Internazionale. Denunciare i Crimini di questi Stati e perseguire le loro responsabilità è essenziale per la causa della giustizia.

Mentre l’Occidente è ossessionato dai rischi dei programmi nucleari pacifici, la vera minaccia alla sicurezza globale in questo momento storico non risiede in reattori e centrifughe, ma piuttosto nell’Aggressione, nel Genocidio e nell’Impunità. Contenere queste minacce è un imperativo globale.

Craig Mokhiber è un avvocato internazionale per i diritti umani ed ex alto funzionario delle Nazioni Unite. Ha lasciato l’ONU nell’ottobre del 2023, scrivendo una lettera pubblica che metteva in guardia dal Genocidio a Gaza, criticava la risposta internazionale e chiedeva un nuovo approccio alla Palestina e a Israele basato sull’uguaglianza, sui diritti umani e sul Diritto Internazionale.

Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto

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Nato versione Trump, da alleati a vassalli - Piero Orteca

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Alla fiera della vanità di Trump padrone del mondo, si scopre la Nato vassalla Usa. L’obbligo di spendere in armamenti il 5% del Pil è presentato come inevitabile. Zelensky esulta, più armi per tutti significano più forniture a Kiev. Il segretario Nato senza ritegno: «Raggiungerai qualcosa che nessun presidente americano è riuscito a fare. L’Europa pagherà in modo massiccio, come dovrebbe, e sarà una tua vittoria».

 

Oltre al danno la beffa

 Povera Europa! In mano a un pugno di mezze figure travestite da statisti, che si piegano indegnamente, dopo qualche birignao, ai decreti del Sovrano. Dunque, tutti (tranne la Spagna) si sono impegnati ad arrivare ad una spesa del 5 per cento del Pil per la difesa, entro il 2035. La motivazione? “Sicurezza nazionale”. Cioè, detto meno burocraticamente: la Russia (che sta in piedi per scommessa, dopo tre logoranti e sanguinosissimi anni di guerra) ci potrebbe attaccare “prossimamente”. Quando? Non si sa. Ma a Bruxelles e nei grandi circoli industriali (quelli che fanno soldi a palate) garantiscono. Una “palla” di quelle stratosferiche, perché il teatrino della politica internazionale non sa nemmeno coordinarsi. Così, mentre ieri in Olanda si metteva mano al portafogli dei cittadini per frenare Vladimir il Terribile, a Washington, davanti al Senato Usa, il generale Alexis Grynkewich, che diventerà comandante in capo delle truppe Usa in Europa, diceva: “Penso che l’Ucraina possa vincere”. E la Russia perdere, è ovvio. E l’invasione dell’Europa? E la montagna di sofisticatissime armi che costruiremo, ne faremo un bel falò? O, peggio, come è fatto in passato, qualcuno alimenterà un indegno commercio verso il Terzo mondo?

Non ha fatto mancare il suo parere nemmeno Zelensky (notoriamente catastrofista), che però questa volta ha detto che “ci vorranno almeno cinque anni prima che Putin invada l’Europa”.

Come la bomba atomica iraniana

Bah! Sembra un po’ tutto come la bomba atomica iraniana, che per i Servizi segreti americani “non è un rischio immediato”, mentre per il Mossad israeliano “è quasi pronta”. Lo vanno dicendo da 13 anni, quando Netanyahu si presentò persino con i progetti all’Onu, per dimostrare l’urgenza di un intervento. Era il 2012. Premesso questo, cioè che Putin vuole invadere l’Europa (per chi ci crede), scatta il “pronto soccorso”. Un gigantesco apparato di difesa, composto da Paesi che, con la Nato, già spendono per missili e bombarde almeno 15 volte più della Russia (dati SIPRI, Stoccolma). Ma non è finita. Perché a questa spesa va aggiunta quella che potrebbe fare l’Unione Europea, già “benedetta” dalla Von der Leyen. In cambio, dopo un simile esborso dovremmo avere la tanto agognata “sicurezza”. Cioè, per capirci, il Settimo cavalleggeri di Custer, che arriva strombazzando, al passo del Tarvisio, non appena le prime orde siberiane di Putin si saranno riversate sul sacro suolo patrio. Beh, scordatevelo. Perché con Trump non si sa mai.

Il ‘soccorso’ americano letto da Trump

Ecco cosa scrive il Guardian: “Il Presidente afferma che l’impegno degli Stati Uniti nei confronti dell’articolo 5 della Nato “dipende dalla definizione”. Stiamo parlando della famosa clausola che impegna i membri alla difesa collettiva, se uno dei componenti dovesse essere attaccato. “Durante il suo viaggio verso i Paesi Bassi – chiarisce il giornale inglese – Donald Trump ha creato qualche incertezza sul rispetto da parte degli Stati Uniti delle garanzie di difesa reciproca delineate nel trattato della Nato, ha riferito l’Associated Press, in vaghi commenti fatti a bordo dell’Air Force One. ‘Dipende dalla definizione’, ha detto Trump ai giornalisti martedì, mentre si dirigeva all’Aia, dove si tiene il vertice di quest’anno. ‘Ci sono numerose definizioni dell’Articolo Cinque, lo sapete, vero? Ma mi impegno a essere loro amico’. L’AP ha aggiunto che, quando gli è stato chiesto in seguito di chiarire, Trump ha affermato di essere ‘impegnato a salvare vite’ e ‘impegnato per la vita e la sicurezza’, ma non ha fornito ulteriori dettagli”. Inquietante. Non è una dotta precisazione di scienza diplomatica, quella di Trump, statene certi. No, è una minaccia di sguincio, di quelle mutuate dal linguaggio del racket: se paghi (il 5 per cento) avrai la mia “protezione”. E se no, sono cavoli tuoi.

Chissà come avrebbe definito questo approccio, qualche raffinato esteta della vecchia cultura atlantista. Fatto sta che, messa così, a noi sembra tutta una truffa. Anzi, una triste storia, ancora da scrivere. Anche perché ci vuole poco a “impegnarsi” e molto a “mantenere”.

Servilismo senza misura

È stato reso pubblico un messaggio di Mark Rutte, il Segretario generale della Nato, inviato a Trump: “L’Europa pagherà il suo contributo in modo consistente, come è giusto che sia, e sarà una tua vittoria. Otterrai qualcosa che nessun altro Presidente americano è riuscito a fare in decenni. Non è stato facile, ma siamo riusciti a far sì che tutti si impegnino a raggiungere il 5%”. Servile e falso, perché la Spagna si è già tirata fuori, la Svezia ha messo le mani avanti e molti altri calano la testa (per ora) per non ricevere bacchettate sulle mani dal ruvido maestro. C’è addirittura chi si vanta, con un “excusatio non petita”, come il Cancelliere tedesco Friedrich Merz. “Non investiamo nella Nato per fare un piacere al Presidente degli Usa – ha detto parlando al Bundestag – ma lo facciamo perché abbiamo ragioni per temere che la Russia voglia andare oltre la guerra in Ucraina. Dobbiamo essere insieme così forti che nessuno abbia l’ardire di attaccare la Nato. E in questa situazione la Germania deve assumere responsabilità ed è quello che facciamo”. Come polli in batteria, tutti gli altri leader europei, arrampicandosi pateticamente sugli specchi, hanno ripetuto la stessa litania monocorde: il pericolo dell’uomo nero (Putin) e noi che ci attrezziamo per fargli la festa, con gli interessi. Certo, i piaceri costano. Quindi, la soddisfazione di fare la parte dei Supereroi Marvel, ci dovrà fare stringere i cordoni della borsa. Chi paga? Gli strati più deboli della società, è chiaro.

Militarismo contro spesa sociale

“L’Europa rischia di scegliere il militarismo a discapito della sicurezza sociale e ambientale – hanno avvertito gli analisti della NEF, la New Economic Foundation – dopo che il capo della Nato ha affermato che tutti i 32 membri hanno concordato di aumentare la spesa per gli armamenti. L’obiettivo del 5% del Pil richiederebbe ai soli membri dell’UE della Nato di aumentare la spesa di 613 miliardi di euro l’anno, una somma notevolmente superiore – sottolinea il report – al deficit annuale nel raggiungimento degli obiettivi verdi e sociali dell’Unione, stimato tra i 375 e i 526 miliardi di euro. Quindi – è la conclusione – aumentare i bilanci militari contemporaneamente al taglio della spesa verde e sociale rischia di alimentare una reazione negativa da parte dell’opinione pubblica, aggravando le disuguaglianze ed erodendo la fiducia nelle istituzioni democratiche. Chiedere ai cittadini di stringere la cinghia, mentre i bilanci della difesa e i profitti degli investitori in armamenti aumentano, mina la stessa resilienza sociale da cui dipende la sicurezza”.

Sicurezza sociale ‘contro la Russia’

Dunque, è tutto chiaro. Ci giochiamo una “sicurezza” sociale immediata (sanità, ambiente, previdenza, istruzione) e la barattiamo con una “sicurezza” futura contro una minaccia (la Russia) che appare artificiosamente ingigantita. E, soprattutto, illogicamente contrastata. Perché basterebbe solo reindirizzare la somma complessiva per la difesa già spesa per la Nato. Se già spendiamo 15 volte in più di Mosca, cosa abbiamo costruito finora? Uno stipendificio? Guardate i numeri: tra l’Alleanza atlantica e la Russia non c’è partita. E allora?

L’equazione è semplice, non bisogna essere geni di politologia per chiedere che se volete il riarmo fino al 5 per cento del Pil, dovete metterci la faccia. Presentatevi poi davanti agli elettori, quando sarà, certo. Ma state tranquilli che la gente ha la memoria lunga e la sensibilità ormai affinata, per comprendere quando un progetto politico fa acqua da tutte le parti.

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giovedì 26 giugno 2025

Paura e delirio al summit della Nato - Nicolai Lilin

 

“Perché dovrebbe essere giusto uccidere Khamenei e non Netanyahu?”, la riflessione di Gideon Levy

di Umberto De Giovannangeli

 

“Putin sì, Trump no? Chi può dire quale capo di stato rappresenta un pericolo maggiore?” si chiede su Haaretz. “La risposta non può essere che a Israele è tutto permesso: il mondo si sta stancando”

La domanda che pone Gideon Levy a fondamento delle sue riflessioni è tutt’altro che retorica. E nell’Israele dei Netanyahu, dei Ben-Gvir, dei Katz, dei Smotrich, la risposta è la chiave per provare a guardare ad un futuro sempre più oscuro, non solo per Israele ma l’intero Medio Oriente. E per il mondo. È giusto uccidere un capo di Stato?

Così Levy su Haaretz: “È giusto parlare di uccidere il capo supremo dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei? È giusto uccidere un capo di Stato, tranne in casi super rari? Se sì, chi decide quali capi di Stato sono un bersaglio giusto e quali no? Chi può affermare con certezza che Khamenei può essere ucciso, ma Netanyahu no? Che Vladimir Putin può essere ucciso, ma Donald Trump no? Chi di loro rappresenta un pericolo maggiore per il mondo? Tutto dipende dal punto di vista di chi guarda. Quali scienziati possono essere uccisi? Gli scienziati nucleari iraniani sì, quelli israeliani no? Su quali basi? Entrambi i gruppi sono scienziati al servizio della più mostruosa industria di morte. Ciò porta naturalmente alla domanda se un paese abbia il diritto di possedere armi nucleari, mentre un altro no”. Chi decide in un mondo dove il diritto internazionale è diventato carta straccia e l’unico “diritto” che conta è quello del più forte?

 

Prosegue Levy: “Dopotutto, il livello di pericolosità di un paese può cambiare nel tempo. L’Iran non è sempre stato un paese pericoloso e Israele non sarà sempre un paese non pericoloso. In Israele ci sono già molti politici pericolosi che rappresentano un rischio per l’intera regione. Sarebbe legittimo affidare loro il codice segreto? Sarebbe legittimo ucciderli? Queste domande sono estremamente delicate e Israele evita di discuterle e di dare risposte, citando l’argomento sacrosanto: ‘Come si può fare un paragone?’. Israele non può essere paragonato a nessun’altra entità al mondo. Yigal Amir, che ha assassinato l’ex primo ministro Yitzhak Rabin nel 1995, credeva che Rabin rappresentasse una minaccia esistenziale per lo Stato di Israele. Non sono molti gli israeliani che pensano che questo desse ad Amir il diritto di uccidere il primo ministro. Ora Israele ritiene che Khamenei costituisca una minaccia esistenziale e quindi è lecito ucciderlo: ‘uccidere’ è il termine corretto in questo caso, il più preciso. Se mettiamo da parte l’idea che Israele si è inventato, secondo cui può fare ciò che è proibito al resto del mondo, è davvero difficile rispondere a queste domande. Dire che Israele è un caso speciale, perché a noi è permesso tutto, perché siamo sopravvissuti all’Olocausto e al massacro del 7 ottobre, non è una risposta adeguata. Anche il mondo si sta stancando di questa storia. La risposta a queste domande deve essere universale”.

Universale. Perché crea un precedente che può diventare normalità, prassi consolidata. Che disegna un mondo-giungla o, in “onore” del tycoon, Far West globale.
“Israele – rimarca Levy – invoca un paragone tra Khamenei e Hitler per giustificare l’imminente assassinio. È evidente che Hitler doveva essere eliminato, ma Khamenei non è Hitler. Israele sostiene di astenersi dal danneggiare i civili. Khamenei è un civile, non il capo di stato maggiore o un generale. Possiamo anche mettere da parte, per un momento, la questione della legittimità e chiederci se sia saggio ucciderlo”. Qui sta il passaggio cruciale. Che richiama al vero obiettivo in testa a chi governa oggi Israele. Che non è quello, sbandierato per avere la benevolenza del “mondo libero” – impedire la bomba atomica a un regime che ha dichiarato di voler cancellare dalla faccia della terra Israele e il popolo ebraico – ma è quello, che i più estremisti nel governo estremista di Netanyahu, dicono ormai apertamente: cancellare il regime degli ayatollah una volta per tutti. Farli fuori, a cominciare dalla Guida suprema.

Avverte Levy: “La guerra in Iran sta per diventare più complicata. Yaniv Kubovich ha riferito che i funzionari militari israeliani stanno improvvisamente affermando che Israele non può essere soggetto a scadenze temporali. È così che si rischia di affondare nella palude. Assassinare Khamenei non farebbe che peggiorare le cose. Nel frattempo, il ministro della Difesa sta facendo il Dio in persona. In questa veste, Israel Katz ha annunciato che Khamenei non può essere autorizzato a “continuare a esistere”. Quali sono i criteri di Katz per poter “esistere”? È lui a decidere chi deve vivere e chi deve morire? Un tribunale celeste presieduto da un ridicolo membro del governo israeliano? Il ministro della Difesa iraniano può minacciare di morte il suo omologo israeliano? I commentatori nei notiziari israeliani parlano della ‘caccia agli scienziati’ in Iran, forse alludendo alla caccia agli scienziati tedeschi in Egitto da parte del Mossad negli anni ‘60. La terminologia è importante ed è vile quanto il respiro del ministro della Difesa. Non si ‘dà la caccia’ agli scienziati, perché non sono animali (la cui caccia è comunque orribile), anche se sono iraniani. Chiedere l’assassinio di capi di Stato non è mai giusto, da nessuna parte. Il nostro Netanyahu è ora responsabile dell’uccisione di decine di migliaia di persone a Gaza. È lecito invocare il suo assassinio per salvare ciò che resta della nazione lì? Molti israeliani pensano che sia un tiranno che sta distruggendo il Paese e rovinando la democrazia israeliana, che sia l’ebreo più spregevole della storia e gli rivolgono una serie di altri insulti, ma nessuno, si spera, immagina nemmeno di discutere della sua eliminazione”.

Le conclusioni a cui giunge il grande giornalista israeliano, indicano un pericolo mortale in un mondo sempre più simile a una giungla globale, dove sopravvive chi elimina il più debole. “Il dibattito sull’eliminazione di Khamenei – avverte Levy – apre la porta alla legittimità: d’ora in poi, l’eliminazione dei capi di Stato sarà considerata lecita. L’unica cosa ancora in discussione è chi è un bersaglio legittimo e chi no. Gli israeliani non lo sono”.

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mercoledì 25 giugno 2025

Una nuova lettera contro il ritorno del fascismo

 

Nel centenario del “Manifesto degli intellettuali antifascisti” del 1925, oltre 400 accademici di oltre 30 paesi hanno firmato un nuovo testo che intende promuovere una mobilitazione accademica internazionale contro le crescenti minacce autoritarie rivolte all’università e ai principi fondamentali delle democrazie liberali.

Il 1° maggio 1925, con Mussolini già al potere, un gruppo di intellettuali italiani denunciò pubblicamente il regime fascista in una lettera aperta. I firmatari — scienziati, filosofi, scrittori e artisti — presero posizione a difesa dei principi fondamentali di una società libera: lo stato di diritto, la libertà personale e l’indipendenza del pensiero, della cultura, dell’arte e della scienza. La loro aperta sfida all’imposizione brutale dell’ideologia fascista — a rischio della propria incolumità — dimostrò che l’opposizione non solo era possibile, ma necessaria. Oggi, cento anni dopo, la minaccia del fascismo è tornata — ed è nostro dovere richiamare quel coraggio e sfidarla nuovamente.

Il fascismo nacque in Italia un secolo fa, segnando l’inizio delle dittature moderne. Nel giro di pochi anni si diffuse in tutta Europa e nel mondo, assumendo nomi diversi ma mantenendo forme simili.

Ovunque prese il potere, smantellò la separazione dei poteri in favore di un modello autocratico, represse l’opposizione con la violenza, si impadronì della stampa, fermò il progresso dei diritti delle donne e soffocò le mobilitazioni operaie e le loro richieste di giustizia sociale ed economica. Inevitabilmente, penetrò e distorse tutte le istituzioni dedicate alle attività scientifiche, accademiche e culturali. Il suo culto della morte esaltò l’aggressione imperialista e il razzismo genocida, scatenando la Seconda guerra mondiale, l’Olocausto, la morte di decine di milioni di persone e crimini contro l’umanità.

Allo stesso tempo, la resistenza al fascismo e alle sue molte varianti ideologiche divenne terreno fertile per immaginare modi alternativi di organizzare la società e le relazioni internazionali. Il mondo emerso dalla Seconda guerra mondiale — con la Carta delle Nazioni unite, la Dichiarazione universale dei diritti umani, le basi teoriche dell’Unione europea e gli argomenti giuridici contro il colonialismo — rimase segnato da profonde disuguaglianze.

Tuttavia, rappresentò un tentativo decisivo di costruire un ordine giuridico internazionale: un’aspirazione a una democrazia e una pace globali, fondate sulla protezione dei diritti umani universali, non solo civili e politici, ma anche economici, sociali e culturali.

Il fascismo non è mai scomparso, ma per un certo periodo è stato contenuto. Tuttavia, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una nuova ondata di movimenti di estrema destra, spesso con tratti inconfondibilmente fascisti: attacchi alle norme e alle istituzioni democratiche, nazionalismo intriso di retorica razzista, pulsioni autoritarie e aggressioni sistematiche ai diritti di coloro che non si conformano a un’autorità tradizionale costruita artificialmente, radicata in una presunta normatività religiosa, sessuale e di genere.

Questi movimenti sono riemersi in tutto il mondo, comprese le democrazie più consolidate, dove il malcontento diffuso per l’incapacità della classe politica di affrontare le crescenti disuguaglianze e l’esclusione sociale è stato sfruttato dalle nuove figure autoritarie.

Fedele al vecchio copione fascista, sotto la maschera di un mandato popolare illimitato, queste figure minano lo stato di diritto nazionale e internazionale, colpendo l’indipendenza della magistratura, della stampa, delle istituzioni culturali, dell’istruzione superiore e della scienza; arrivando persino a tentare la distruzione dei dati essenziali alla ricerca scientifica.

Fabbricano “fatti alternativi” e inventano “nemici interni”; strumentalizzano le preoccupazioni per la sicurezza per consolidare il proprio potere e quello dell’1 per cento ultra-ricco, offrendo privilegi in cambio di lealtà.

Questo processo sta ora accelerando: il dissenso viene sempre più spesso represso attraverso detenzioni arbitrarie, minacce di violenza, deportazioni e una campagna incessante di disinformazione e propaganda, condotta con il supporto dei baroni dei media tradizionali e dei social media — alcuni complici per inerzia, altri promotori entusiasti di visioni tecno-fasciste.

Le democrazie non sono perfette: sono vulnerabili alla disinformazione e non ancora sufficientemente inclusive. Tuttavia, per loro natura, offrono un terreno fertile per il progresso intellettuale e culturale, e quindi hanno sempre il potenziale per migliorare. Nelle società democratiche, i diritti e le libertà possono espandersi, le arti prosperano, le scoperte scientifiche si moltiplicano e la conoscenza cresce.

Offrono la libertà di mettere in discussione le idee e sfidare le strutture di potere, di proporre nuove teorie anche quando culturalmente scomode — un elemento essenziale per l’avanzamento dell’umanità.

Le istituzioni democratiche offrono il miglior quadro possibile per affrontare le ingiustizie sociali e la migliore speranza di realizzare le promesse del dopoguerra: il diritto al lavoro, all’istruzione, alla salute, alla sicurezza sociale, alla partecipazione alla vita culturale e scientifica, e il diritto collettivo dei popoli allo sviluppo, all’autodeterminazione e alla pace. Senza tutto ciò, l’umanità va incontro alla stagnazione, all’aumento delle disuguaglianze, all’ingiustizia e alla catastrofe, a cominciare dalla minaccia esistenziale rappresentata dalla crisi climatica, che i nuovi fascismi si ostinano a negare.

Nel nostro mondo iperconnesso, la democrazia non può esistere in isolamento. Come le democrazie nazionali hanno bisogno di istituzioni forti, così la cooperazione internazionale richiede l’attuazione effettiva dei principi democratici, del multilateralismo per regolare i rapporti tra le nazioni, e di processi partecipativi multi-livello per coinvolgere una società sana.

Lo stato di diritto deve estendersi oltre i confini, garantendo il rispetto dei trattati internazionali, delle convenzioni sui diritti umani e degli accordi di pace. Sebbene l’attuale governance globale e le istituzioni internazionali necessitino di miglioramenti, la loro erosione in favore di un mondo governato dalla forza bruta, dalla logica transazionale e dalla potenza militare rappresenta un ritorno a un’epoca di colonialismo, sofferenza e distruzione.

Come nel 1925, noi scienziati, filosofi, scrittori, artisti e cittadini del mondo abbiamo la responsabilità di denunciare e resistere alla rinascita del fascismo in tutte le sue forme. Facciamo appello a tutti coloro che credono nella democrazia affinché agiscano:

Difendiamo insieme le istituzioni democratiche, culturali ed educative. Denunciamo gli abusi dei principi democratici e dei diritti umani. Rifiutiamo l’obbedienza preventiva.

Agiamo collettivamente, a livello locale e internazionale. Boicottiamo, scioperiamo, resistiamo. Rendiamo la resistenza impossibile da ignorare e troppo costosa da reprimere.

Sosteniamo i fatti e le evidenze scientifiche. Coltiviamo il pensiero critico e costruiamo legami attivi con le nostre comunità.

La resistenza all’autoritarismo è un impegno permanente. Facciamo in modo che le nostre voci, il nostro lavoro e i nostri principi siano un baluardo contro l’autoritarismo e che questo messaggio sia una rinnovata dichiarazione di sfida.

La lettera si può firmare a questo linkIl testo è firmato da 400 accademici di oltre 30 Paesi, tra cui 30 Premi Nobel e centinaia delle voci più autorevoli nelle scienze politiche, nella storia, nella filosofia e nelle scienze naturali. Tra i firmatari figurano decine di vincitori dei più prestigiosi riconoscimenti accademici al mondo, tra cui: Medaglia Boltzmann, Brain Prize, Premio Pulitzer, Premio Johan Skytte, Borsa MacArthur, Premio Holberg ed altri

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