Le morti di Kennedy e di Moro, l’11/9 2001, il 7 ottobre ’23: quattro eventi in cui le narrazioni del Potere sono fotografie sfocate, poco convincenti. Ma noi sappiamo altre cose, possiamo non farci prendere in giro da questo o da quel Potere quando decide di riscrivere il presente.
Tonto è chi crede a tutto quello che s’inventano i Potenti, per far bella figura, o per mostrare la propria forza? Per nascondere l’insuccesso, la ridicola sconfitta? Oppure è tonto quello che nega tutto, non crede, è certo del complotto pieno di misure segrete che si sapranno domani, se si avrà fortuna o il Potere cambierà di mano? Due posizioni limite, che esistono, ma sono carenti entrambe. Solo aiutano a tirare avanti, perché è più facile vivere accontentandosi di ciò che si sa.
Nella politica, soprattutto quella internazionale, capitano occasioni in cui noi, personecomuni, finiamo per credere a ogni cosa ci viene suggerita o propinata. I Potenti hanno spesso inserito un “aiuto” di mezzi e agenti per confondere il pubblico e rendere accettabile (o anche obbligatorio) quel che le persone normali avrebbero altrimenti rifiutato. Il fatto è che per vivere c’è bisogno di un livello minimo di certezze – leggende o miti, trucchi, falsità, imbrogli che siano, perché altrimenti è a rischio la nostra necessità/capacità di credere, un’essenza di vita irrinunciabile. Per quieto vivere, o per tirare avanti, rimandiamo la prova, per poi dimenticare, di fronte a un altro fatto maiuscolo.
Nella seconda metà del ventesimo secolo vi sono due
avvenimenti che hanno dato luogo a molta incertezza tra le popolazioni
istruite, presenti nel micromondo del benessere occidentale. Altri due
seguiranno in questo secolo (e millennio) e li indicheremo per ora con due
date: 11 settembre 2001 e 7 ottobre 2023: e saranno avvenimenti mondiali. In
tali due casi i Poteri – per non dire il Potere, sia pure con un briciolo di
ulteriore cedimento al più conosciuto dei complotti segreti, quello del Verbo
unificato dell’altissima finanza, per non dire addirittura dei Savi di Sion
ammodernati, si sono dati da fare. In tali casi infatti, due riconoscibilissimi
governi, Usa e Israele, hanno forse facilitato
gli attacchi terroristici di loro nemici irriducibili, per poi passare
“legittimamente” a terribili reazioni che costituivano effettivamente il loro
intendimento. Torniamo però ai casi enormi del secolo scorso.
Il primo è stato l’assassinio di JFK – il presidente
Usa John Kennedy – il 22 novembre del 1963, a Dallas negli Usa. Il secondo è
stato il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, 15 anni dopo, tra il 16 marzo e
il 9 maggio del 1978, l’inizio e la fine degli indimenticabili 55 giorni (come furono chiamati). Davvero
indimenticabili? Sembra a volte che ci ricordiamo del nostro passato pochissimo
e male.
1. Nel caso di Kennedy, i risultati della Commissione
Warren, preposta alla ricerca della Verità non convinsero che pochi, abituali
sostenitori di ogni dichiarazione delle autorità. Si scherzò molto sull’antico
fucile, italico e quasi risorgimentale, un Carcano un po’ modificato, capace di
sparare colpi a ripetizione e in tempi assai ristretti; e sulla di lui
pallottola, capace di cambiare due o tre volte direzione per svolgere – con
disciplina e onore – il compito assegnatole: uccidere il presidente e ferire il
governatore del Texas. Il risultato nascosto era decisivo: far di tutt’erba un
fascio del kennedismo, annessi e connessi, e farne un grande falò, accompagnato
da danze rituali di amici e nemici, dem e rep. A ricordo del grande capo, bello, ricco, amato da
tutte le donne, amante della Pace e del Progresso. Un po’ troppo, in una volta
sola.
2. Più facile, a prima vista, il caso Moro, rapito e
poi ucciso da un gruppo di militanti ben noto: le Bierre. Non si perse tempo a
discutere se le Bierre fossero o meno l’espressione estremistica di una
divisione del mondo, tutto il mondo, che poco dopo fu chiamato “sessantotto”. E
neppure di una propaggine della imperante altra divisione del mondo, allora di
moda, detta “Guerra fredda”. La discussione che coinvolse tutti in
Italia, si imperniò allora su una questione che vista adesso sembra marginale,
la cosiddetta “trattativa”. Trattare per la vita e la libertà di Moro con i
suoi rapitori? Il campo si divise subito tra chi era favorevole a trattare e
chi contrario. Sbrigativamente erano contro la trattativa con le Bierre (perché
si riteneva che così quel gruppo avrebbe ricevuto una sorta di consacrazione) i
maggiori partiti, democrazia cristiana e partito comunista, il governo e
l’opposizione, spalleggiati da tutti gli apparati – ministeri, giornali, ecc.,
collegati con essi. A favore della trattativa erano socialisti, sinistra varia,
e noi, cani sciolti. Fin qui la trattativa “figurata”.
Quella vera – ci fu
raccontato molto dopo – era un po’ diversa, meno variopinta. Da una parte, per
Moro, era lo Stato. Posto però che a trattare da una parte fosse lo Stato, per
la salvezza del suo esponente, chi era la controparte? Figurativamente la
controparte dello Stato erano i rapitori, le Bierre. A rigore di logica anche
le Bierre non potevano che essere favorevoli alla trattativa. Perché mai altrimenti
lo avrebbero tenuto in vita se non per “trattare”? Avrebbero chiesto ovviamente ben di più di ciò che lo Stato fosse
disposto a concedere, in prima battuta, ma della trattativa erano a
favore. Vista così, la discussione sulla trattativa cambiò oggetto: nel
mondo delle persone normali, coinvolte nella vicenda umana del rapito, nei
giornali, che anch’essi auspicavano complessivamente il lieto fine, la trattativa significava la vittoria della
vita.
Ma si sapeva che lo Stato aveva leggi insuperabili e
per il povero Moro non c’erano speranze. Quella partita, cui tutti
guardavano, era dunque chiusa prima di cominciare. La partita vera era però forse un’altra ed era discussa solo
nelle stanze segrete. Nei riposti “servizi”, nazionali o extra, ci si chiedeva
se fosse meglio andare o meno all’assalto di via Montalcini, là dove da
settimane era rinchiuso Aldo Moro. Perché qualcuno – forse più di qualcuno –
senza dirlo a voce tonante, lo sapeva. Molti sospettavano e tacevano. La
trattativa “vera” era dunque su questo: si potevano affrontare i rischi di
un’irruzione, con possibile (o probabile) sparatoria o era meglio lasciar fare
alla natura? E la “natura” comprendeva anche le normali forze di polizia e di
investigazione.
Questa sembra essere diventato, nei frenetici giorni
del maggio 1978, il patteggiamento vero, secondo la ricostruzione di
Ferdinando Imposimato, giudice istruttore in quello e in vari altri casi molto
importanti della nostra storia e poi senatore della sinistra politica che nel
suo ultimo libro sul caso Moro, “I 55 giorni che hanno cambiato
l’Italia”, XIII edizione 2013, dava per certo
che attraverso i “servizi”, Cossiga, ministro dell’Interno, poi premiato a capo
del governo e presidente della repubblica, era in qualche modo a conoscenza di dove
Moro era prigioniero, Via Montalcini, ma fosse contrario a disporre della sua
liberazione, convinto dal suo gruppo di consiglieri – fossero il famoso uomo di
Kissinger, Steve Pieczenick, oppure gente di Gladio, della P2, dei servizi
tedeschi di Stasi e di Raf (Rote Armee Fraktion), dell’alleato americano, o di
tutti insieme, riuniti in una conventicola dagli incerti confini – a non
peggiorare le cose con una eventuale sparatoria.
Per essere più precisi, il mondo di allora, incombente
la guerra fredda, aveva da una parte e dall’altra, grandi progetti, democrazia
e comunismo, spesso concorrenti, più spesso ancora decisi a non infastidirsi, a
darsi una mano; e Moro che procedeva contro mano, era malvisto di qua e di là;
e di qua e di là volevano farlo fuori, per poi, risolta quella bagatella,
continuare, nemici come prima, la consueta, schietta e tuttalpiù sleale
partecipazione alla guerra fredda.
3. Nel nostro secolo, subito all’inizio, è avvenuta
poi la più straordinaria mistificazione che i libri di storia ricordino. Ci si
è raccontato che il 9/11 (l’undici settembre, come diremmo noi), due grandi
aerei passeggeri siano andati a sbattere, uno dopo l’altro, a distanza di
mezz’ora, contro le torri gemelle, alte 400 metri, del World Trade Center di
New York, causando migliaia di morti. Gli aerei erano pilotati da due
dilettanti, che insieme a un pugno di colleghi, armati di taglierini, si erano
impadroniti dei velivoli, partiti ambedue dall’aeroporto di Boston. Centinaia
di milioni di persone, forse miliardi, videro e rividero la scena alla
televisione. I cosiddetti complottisti, perlopiù ritenendo trattarsi di un
gigantesco plot hollywoodiano, ne
scrissero in seguito decine di libri, per negare tutto e spiegare il vero e il
falso, il come e perché. Ma non basta. Un terzo aereo di altrettanto grandi
dimensioni, anch’esso fu catturato e dirottato da altri nemici dell’Occidente
(forniti anch’essi di taglierini), all’aeroporto di Washington (che tra l’altro
si chiama Dulles, il nome evocativo del segretario di stato e di suo fratello
capo dei servizi). Diretto a Los Angeles, aveva percorso forse cento chilometri
prima di cambiare del tutto rotta, tornare indietro e infine percorrere un
migliaio di metri a bassissima quota, strisciando quasi sul terreno, per infrangere
un’ala del Pentagono, a Washington.
Un quarto aereo, forse destinato a colpire la Casa
Bianca di Washington, dimora del presidente, l’obiettivo preferito da Bin
Laden, probabilmente mente e leader dei dirottatori incursori come capo di Al
Qaeda e che ci teneva a colpire il Capo nemico, il suo pari grado; aereo forse
destinato alla cupola del Congresso, a segno indelebile della sconfitta dei
cristiani prepotenti e schiavisti, bersaglio preferito di quelli dell’Isis, non
arrivò a bersaglio.
3+1/2. Il quarto aereo precipitò per la lotta di
alcuni passeggeri contro i dirottatori, in una regione pianeggiante, ancora
lontana dalla capitale americana, vicino a Shankville in Pennsylvania. La lotta
dei passeggeri contro i dirottatori – in parte la si può ascoltare in varie
telefonate dall’aereo alle famiglie – è la prova che si poteva tentare almeno
di fare qualcosa per evitare lo sconquasso che si stava verificando.
Questa fantastica sequenza è stata discussa e
criticata a fondo, davanti agli occhi e alle intelligenze mondiali. Si sono
messe in evidenza decine di incongruenze e impossibilità tecniche. Si è
ricostruita la trafila dei futuri dirottatori, ostacolati dagli uffici e dalle
scuole di volo Usa che badavano a rendere aspra la vita a possibili terroristi;
contemporaneamente si è riferito degli ostacoli, opposti agli ostacoli, da
altri uffici – la Cia, l’Fbi e altri ancora, più sofisticati e moderni, tutti
sempre in litigio tra loro, tutti sempre tesi al raggiungimento dell’obiettivo
comune: una guerra contro l’Afghanistan regno del terrore e contro i pezzi di
Al Qaeda, in particolare contro Osama bin Laden, da ritrovare ed uccidere, come
compito primario degli Usa. Osama doveva essere punito e anche un’intera guerra
armata poteva scatenarsi contro di lui, purché vincente e sicura. Quando anni
dopo Osama fu raggiunto in Pakistan e ucciso, il governo americano, riunito per
seguire l’assalto finale alla villetta o compound di bin
Laden, festeggiò con barbarica allegria e levò i calici senza minimamente
vergognarsi. Al dunque si è preferito però fingere che si trattasse di un poco
normale episodio di guerra acerrima non dichiarata, perfino guerra di
religioni, e svolta in un imprevedibile terreno politico sociale, con tutti i
silenzi e i misteri del caso. La guerra contro l’Isis, di solito arabi,
oltretutto maomettani, di religione diversa dalla “nostra”, di noi americani:
anzi le due guerre, in Iraq e in Afghanistan, con distruzioni, stermini e
migliaia di morti, hanno tenuto alto l’equivoco. Una dura vendetta contro
l’odiosa, immotivata, improvvisa aggressione delle due Torri e del Pentagono.
Una vendetta, forse esagerata, me che se riferita a
un’aggressione del nemico, con l’attacco a Torri Gemelle e perfino al
Pentagono, diventava più credibile. Di conseguenza la risposta, dovuta, a
quell’attacco, il successo conseguito, attenuava il clamore provocato da tutte
le sbadataggini (per dir così) che avevano reso possibile o almeno assai più
facile la grandiosa avventura dei tre o quattro dirottamenti. Forse esiste ancora
un libro a fumetti (Sid Jacobson e Ernie Colòn, 9/11. Il
rapporto illustrato della commissione americana sugli attacchi terroristici
dell’11 settembre. Tutto quello che accadde prima, durante e dopo)
che offre una visione accettabile della trafila del 9/11. C’è il riassunto di
tutto quello che, senza saperlo, le autorità Usa, di ogni ordine e grado, hanno
messo in campo, quasi volessero davvero facilitare l’azione dei terroristi. I
poteri americani sembrarono frastornati, incapaci di prendere provvedimenti
ragionevoli, terrorizzati di sbagliare, mettere a rischio il presidente,
lontano dalla capitale e trattenuto, nell’impossibilità di volare. Il mondo
reagì con una sorta di manifesto/dichiarazione con scritto a grandi lettere
“siamo tutti americani” ma in realtà facendo rapidi conti sul disastro e sui
nuovi poteri emergenti e sconosciuti.
Le dichiarazioni ufficiali, spesso riconosciute false
(caso Blair, caso Powell) orientarono il mondo intero a sostenere le due
guerre, contro Iraq e contro Afghanistan. Tra gli elementi costitutivi
dell’attacco vi erano le armi chimiche proibite a livello internazionale, le
famose cariche di antrace. Tony Blair, primo ministro britannico assicurava di
aver viste personalmente armi similari. Ci fu poi l’allora segretario di Stato
americano, Colin Luther Powell che mostrò, nel suo intervento alle Nazioni
Unite, una boccetta contenente un infernale preparato di origine irachena. Anni
dopo, nel 2019, poco prima di morire di Covid nel 2021, Powell si scusò con il
mondo intero per quel suo inganno probabilmente involontario – ritenne sempre
di essersi fatto giocare dai suoi e fu forse la disperazione che lo uccise, più
del Covid – ma elaborato dagli Uffici responsabili dei vertici americani. Ai
falsi seguì una duplice guerra, una sorta di neoguerra coloniale con mezzi
immensi contro due paesi deboli, caratterizzati ormai da elezioni, parlamenti e
governi, a imitazione dei modelli occidentali. In conseguenza della loro
sconfitta, di un numero enorme di vittime civili e di distruzioni
irrecuperabili, i governi esistenti furono ribaltati e i massimi dirigenti
giustiziati. Cosa sia avvenuto dopo è, nei fatti, la storia di prima che torna,
forse peggiore di sempre.
4. Un altro episodio straordinario del nuovo secolo,
del millennio appena iniziato, è l’attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas
a Israele che stringeva d’assedio Gaza, rifugio di due milioni di palestinesi.
Hamas compì e diresse una sortita contro gli assedianti, simile a Ettore
all’assedio di Troia. La sortita ebbe pieno effetto, allora e oggi. Ma poi
Troia fu incendiata e distrutta, come la Gaza dei nostri giorni. Ettore ucciso.
Allora furono gli dei dell’Olimpo a decidere lo svolgimento dei fatti e poi il
seguito, nei secoli, senza che nessun mortale potesse opporsi effettivamente
alle scelte dei Potenti dell’Olimpo; più tardi, alcuni dei troiani scampati si
costruirono una nuova città sul biondo Tevere e dettero vita a un paio di
imperi.
Oggi Netanyahu comanda, gli israeliani per lo più lo
seguono, lo sterminio dei palestinesi continua e continua…
E’ noto che l’imprendibile Troia fu presa con un
inganno: ce ne andiamo – dissero – e vi lasciamo un cavallo, in pegno di
pace. Nel caso dei nostri giorni vi fu una sortita dei guerriglieri
organizzati di Hamas, forza più vitale e integra dei palestinesi assediati a
Gaza. Non ne abbiamo le prove, ma l’Idf, l’esercito israeliano, mise in atto o
si servì dell’occasione di una grande Rave messo in
funzione nella notte di sabato 7 ottobre, fine di Sukkot, solenne festa
ebraica. Del Rave si sapeva e non sapeva.
Del resto è così per ogni Rave. I soldati, gli
ufficiali, il governo israeliano, Netanyahu stesso, forse facevano finta di non
esserne al corrente, in ogni caso indebolirono le difese tanto da ingannare più
che Hamas, gli osservatori delle democrazie occidentali, i pressoché miopi
osservatori dell’Olimpo. Forse era un tranello per i capi di Hamas che
buttarono, allo sterminio della festa e tutt’intorno, le loro migliori squadre.
L’attacco sanguinoso ai ragazzi in festa riuscì in pieno; ci rimangono i
resoconti desolati delle ragazze soldato del Kibbutz Nahal Oz che nessuno
all’Idf e al governo d’Israele volle ascoltare.
Il testo che segue, ripreso dalla rete, è da ricordare
Si chiamano Yael Rotenberg e Maya Desiatnik. Sono
soldatesse israeliane. Tredici loro compagne sono state uccise a sangue freddo,
da distanza ravvicinata, da membri della unità di élite di Hamas. Altre rapite,
o disperse. Adesso Yael (ferita da una bomba a mano) e Maya hanno deciso di
parlare con la televisione pubblica Kan. Malgrado la loro giovane età, seguendo
ora per ora quanto avveniva dentro Gaza ad un chilometro di distanza dai loro
strumenti, avevano intuito che Hamas stava preparando qualcosa di grande e
avevano riferito ai superiori, senza ottenere successo.
Nelle settimane, e ancora di più nei giorni precedenti all’attacco – ha
riferito Rotenberg – erano avvenuti “episodi strani”. “Improvvisamente abbiamo
visto 200 militari di Hamas. Un mese prima sono cominciate le loro
esercitazioni. Ci hanno detto che era normale. Ma poi le esercitazioni hanno
assunto il ritmo di una al giorno, anche due al giorno. E questo era
eccezionale. Abbiamo anche visto come si addestravano a prendere il controllo
di un carro armato”. Una loro compagna – Hadar Cohen, assassinata da Hamas –
era molto inquieta: aveva segnalato, secondo Rotenberg, che ufficiali di Hamas
facevano sopralluoghi lungo il confine con grandi carte geografiche, che
indicavano le località ebraiche più vicine. “Il nostro comandante le fece anche
complimenti. Ma poi non abbiamo saputo cosa sia successo col suo
rapporto”.
Intanto come si è scritto, in Israele si celebrava il Sukkot, la Festa dei
Tabernacoli, e molti militari di Nahal Oz erano in licenza.
L’attacco di Hamas è iniziato il sabato mattina con un possente bombardamento
che “ha fatto tremare le pareti ed i nostri schermi. Li abbiamo visti arrivare
in massa. Incredibile: conoscevano tutti i punti deboli del reticolato di confine”.
Nelle settimane precedenti Hamas aveva organizzato manifestazioni ‘popolari’
durante le quali aveva lanciato numerosi ordigni che avevano indebolito le
strutture. Quando c’è stato l’attacco le altre vedette erano ancora nei loro
letti.
Yael e Maya si sono salvate miracolosamente dal massacro. I soldati che dopo
ore le hanno tratte in salvo hanno detto loro di chiudere gli occhi, per non
vedere i corpi delle amiche trucidate. Fra i ricordi più agghiaccianti le
telefonate di addio delle compagne ai genitori, quando avevano ormai compreso
che non sarebbero uscite vive dalla base di Nahal Oz.
Il testo che precede che abbiamo ripreso quasi
integralmente, offre qualche elemento di comprensione sull’intento del governo
e dell’esercito israeliano in occasione del 7 ottobre.
Nahal Oz è una località a mezzo chilometro da Gaza, in
cui mezzo secolo fa israeliani e palestinesi convivevano, superando le
difficoltà e gli attriti immancabili. Yael e Maya hanno fatto quel che potevano
per difendere Israele ed evitare una guerra. Non hanno potuto evitare
l’assalto, hanno vissuto la guerra.
Abbiamo riaperto un album di fotografie. Per così
dire, certo sono foto non tutte nitide, più spesso non bene a fuoco, senza una
mano ferma dietro all’obiettivo. Sono le nostre foto, è nostra la memoria. Potremmo
dire che ci dobbiamo accontentare e risolvere così ogni questione, ma sappiamo
tutti bene che per fortuna non c’è un’unica cassetta per la raccolta di tutte
le foto, da chiunque scattate. Come non c’è un unico obiettivo, di un’unica
macchina fotografica. Non lasciamoci intimorire; raccogliamo più foto, più
scritti, più idee, più verità che sia possibile per poter dire la nostra sui
fatti del mondo, per avere qualche prova, qualche futura memoria, per non
lasciarci prendere in giro da questo o da quel Potere quando decide di
riscrivere il presente (cambiandolo semmai un po’. E con esso la nostra vita).
E detto tra noi: non perdiamoci di vista.
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