Dopo l’ondata di attenzione e infatuazione mediatica che ha accompagnato il lancio di ChatGPT e di molti altri strumenti di intelligenza artificiale generativa, dopo che per molti mesi si è parlato di vantaggi per la produttività, o di sostituzione del lavoro (soprattutto delle mansioni noiose e ripetitive) con l’AI, siamo arrivati a un punto dove si intravedono più che altro le prime sostituzioni di lavoratori. E ciò sebbene la promessa crescita di produttività lasci ancora molto a desiderare (non parliamo della sostituzione di ruoli).
Mentre gli
stessi lavoratori del settore tech (un’élite che per anni ha viaggiato in prima
classe anche nelle peggiori fluttuazioni del mercato del lavoro) si sono resi
conto di trovarsi in una situazione piuttosto scomoda: più licenziabili, da un
lato, e più esposti ai dilemmi etici di lavorare per aziende che hanno
abbandonato precedenti remore per contratti di tipo militare, dall’altro.
Partiamo proprio dalla guerra
Una parte di
dipendenti di Google DeepMind (l’unità di Alphabet che lavora sull’intelligenza
artificiale e tra le altre cose ha rilasciato Gemini, la famiglia di modelli
linguistici di grandi dimensioni) stanno cercando di sindacalizzarsi per
contestare la decisione dell'azienda di vendere le sue tecnologie ai militari,
e a gruppi legati al governo israeliano.
Nelle ultime
settimane circa 300 dipendenti londinesi di DeepMind (il cui ad Demis Hassabis
è ancora fresco di premio Nobel per la Chimica per AlphaFold) hanno provato
ad aderire al sindacato dei lavoratori della comunicazione (Communication
Workers Union), riferisce il Financial Times.
Tre persone
coinvolte nell'iniziativa di sindacalizzazione hanno dichiarato al FT che la
decisione di Google di voler vendere i suoi servizi cloud e la sua tecnologia
AI al ministero della Difesa israeliano (si tratta di un accordo sul cloud
computing denominato Project Nimbus), avrebbe causato molta
inquietudine.
L'iniziativa
si inserisce nel crescente malcontento interno rafforzatosi dopo che, a
febbraio, Google aveva anche abbandonato l'impegno a non sviluppare tecnologie di
intelligenza artificiale che “causino o possano causare danno alla
collettività”, tra cui armi e sorveglianza. Si trattava di una presa di
posizione adottata nel 2018 e che è sparita dalla revisione dei principi per
una AI responsabile lo scorso febbraio (qui la vecchia versione; qui la nuova).
Ma il clima
rispetto a qualche anno fa è cambiato: le guerre, la nuova amministrazione
Trump, la spinta a commercializzare e rendere profittevoli tecnologie su cui le
aziende stanno scommettendo parecchio. E che non stanno rendendo quanto
promesso.
Interessante
al riguardo uno studio recente che ha esaminato gli effetti sul mercato del
lavoro dei chatbot AI in Danimarca. Gli autori affermano che, malgrado la
diffusione di questi nuovi strumenti (diffusione incoraggiata spesso dagli
stessi datori di lavoro, con relativi investimenti), “l'impatto economico
rimane minimo” e i guadagni di produttività sarebbero modesti. Risultati,
conclude lo studio, che mettono in discussione la “narrazione di
un'imminente trasformazione del mercato del lavoro dovuta all'AI generativa”.
Inoltre,
eventuali risparmi di tempo da parte del lavoratore che usa i chatbot sono a
volte controbilanciati da ulteriori task, da compiti nuovi o aggiuntivi legati
all’uso dello stesso, anche da parte di altri. Un esempio sono gli insegnanti
che devono rilevare se gli studenti usano ChatGPT per i compiti, mentre altri
lavoratori devono controllare la qualità dei risultati dell'AI o cercare di
creare prompt efficaci, commenta Ars Technica (cui rinvio per approfondire il tema
visto che segnala anche altri paper, alcuni più ottimistici. Inoltre lo stesso
studio qua citato non esclude che degli effetti trasformativi possano arrivare
in futuro).
AI e crisi
occupazionale
Malgrado
ciò, quel che sta arrivando ora sono i primi licenziamenti (primi in senso
mediatico, non assoluto) a causa dell’AI (il punto è capire in che senso l’AI
ne sarebbe la causa, visto quanto appena detto).
Duolingo,
una nota app per imparare le lingue, ha annunciato che “smetterà gradualmente
di utilizzare i collaboratori per svolgere il lavoro che l'intelligenza
artificiale è in grado di gestire”, in un'e-mail inviata a tutti i dipendenti
dal cofondatore e amministratore delegato Luis von Ahn. L'azienda - dice
la comunicazione - sarà “AI-first”.
L'email di
von Ahn fa seguito a una nota simile che l'amministratore delegato di Shopify
Tobi Lütke aveva inviato ai dipendenti e recentemente condiviso online.
In quella nota, Lütke affermava che prima che i team potessero chiedere un
aumento dell'organico o delle risorse, dovevano dimostrare “perché non possono
ottenere ciò che vogliono utilizzando l'AI”.
Nel caso
dell’annuncio di Duolingo però non sono mancate critiche e prese di posizione,
anche da utenti, riferisce Unilad.
Ma è il
giornalista Brian Merchant a raccogliere la testimonianza di uno di quei
collaboratori che sarebbero stati lasciati a casa in nome dell’AI. Secondo
questa persona, Duolingo avrebbe già sostituito con sistemi di intelligenza
artificiale fino a 100 dei suoi dipendenti, soprattutto gli scrittori e i traduttori
che creano i particolari quiz e materiali didattici che hanno contribuito a
creare l'identità dell'azienda. Secondo questo resoconto, i traduttori
sarebbero stati licenziati nel 2023, gli scrittori sei mesi fa, nell'ottobre
2024.
Qua riporto
direttamente le parole di Merchant:
“È successo
all’improvviso”, mi ha detto il lavoratore, un autore che ha lavorato per anni
nell'azienda, a condizione di anonimato. Ha detto che è stato “scioccante”
quando ha ricevuto la notizia. “Stavamo lavorando con il loro strumento di
intelligenza artificiale da un po' di tempo, e non era assolutamente in grado
di scrivere delle lezioni senza l'intervento di esseri umani”.
“È uno
spaccato della crisi occupazionale dell'AI - continua Merchant - che si sta
verificando proprio ora, non in un futuro lontano, e che è già più pervasiva di
quanto si possa pensare. Il collaboratore di Duolingo non è affatto solo. Quasi
tutti gli artisti e gli illustratori professionisti che incontro mi raccontano
di aver perso clienti e ingaggi a causa di aziende che si sono affidate all'AI
invece di pagare il lavoro umano; alcuni sono stati espulsi del tutto dai loro
settori. Ho scritto per Wired di manager che stanno usando l'AI per sostituire
artisti e designer nell'industria dei videogiochi. I doppiatori sono in
sciopero da 9 mesi, in cerca di protezione dalle aziende che vorrebbero usare
l'intelligenza artificiale per clonare le loro voci. Proprio questa settimana,
il popolare sito di gaming Polygon è stato venduto alla content farm Valnet,
spesso accusata di usare articoli generati dall'AI: quasi tutto il personale
umano di Polygon è stato licenziato.
Non è chiaro
se questo tipo di licenziamenti sia sufficiente per essere registrato nei dati
economici, anche se ci sono segnali in tal senso. Scrivendo sull'Atlantic di
questa settimana, il giornalista economico Derek Thompson sottolinea un
fenomeno allarmante nel mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione dei neolaureati
è insolitamente alto e storicamente alto rispetto al tasso di disoccupazione
generale. Perché? Una teoria: le aziende assumono meno laureati per i lavori
impiegatizi e utilizzano maggiormente l'AI. (…)
Come ho già
scritto in precedenza, la crisi occupazionale dell'AI non è dovuta alla nascita
di programmi senzienti intorno a noi, che sostituiscano inesorabilmente e in
massa i lavori umani. Si tratta invece di una serie di decisioni gestionali
prese da dirigenti che cercano di ridurre i costi del lavoro e di consolidare
il controllo delle loro organizzazioni”.
Lavoratori tech
Licenziamenti
o peggioramento delle condizioni di lavoro stanno colpendo anche la classe
privilegiata dei lavoratori tech, scrive il WSJ. In alcuni casi, commenta un executive
coach di aziende tecnologiche, la riduzione di teste “non è perché le aziende
non abbiano i soldi. Per molti versi, è a causa dell'AI e delle narrazioni che
si sentono in giro su come sia meglio ridurre l'organizzazione".
Quindi, argomenta il noto giornalista e scrittore Cory Doctorow,
dopo l’enshittification delle piattaforme (termine già coniato
dallo stesso che indica il progressivo peggioramento, per usare un eufemismo,
delle piattaforme digitali nel tempo) siamo di fronte all’enshittification dei
lavori tech. Scrive poi Doctorow in riferimento alle narrazioni sull’AI che
causano riduzione di personale: “Non si tratta della realtà effettiva dell'AI,
ma piuttosto della storia secondo cui l'AI consentirebbe di “ridurre
l'organizzazione”, di tagliare gli organici e gli stipendi e di impoverire gli
(ex) prìncipi del lavoro. Lo scopo dell'AI non è rendere i lavoratori più
produttivi, ma renderli più deboli quando contrattano con i loro capi”,
I lavoratori
del settore tecnologico, argomenta Doctorow, possono evitare il destino dei
lavoratori delle fabbriche, dei magazzini e delle consegne solo
sindacalizzandosi.
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