domenica 1 giugno 2025

Quanta verità possiamo tollerare? - Michele Agagliate

 

Dove finisce la giustizia, inizia la complicità. E noi siamo già oltre il confine.

A Washington un trentenne americano, Elias Rodriguez, impazzisce, estrae una pistola e fa fuoco. Uccide due addetti dell’ambasciata israeliana: Yaron Lischinsky, israeliano, e Sarah Milgrim, americana, che stavano per sposarsi. I titoli scattano. Le aperture dei TG si spalancano. Le condanne dei governi arrivano a raffica. Dolore unanime, silenzio assoluto.

Lo stesso giorno, a Gaza, l’esercito israeliano uccide 54 civili. Altri 29, tra cui bambini e anziani, muoiono di fame. La fame. Il totale fa 73 morti in 24 ore. Nessun titolo. Nessun nome. Solo corpi da sotterrare. Nessuna condanna ufficiale. Silenzio, assuefazione, complicità.

Eppure conosciamo i responsabili. Non sono ignoti. Non sono cani sciolti. Hanno un nome e un indirizzo: Benjamin Netanyahu e il suo governo. Nessun tribunale li cerca. Nessun Paese li isola. Nessuna NATO si muove. Nessun embargo. Nessuna lista nera. Nemmeno una “sanzioncina” simbolica, giusto per la parvenza. Nulla.

I due israeliani, assassinati da un folle, valgono notiziari, lacrime e lutti di Stato. I 73 palestinesi, assassinati da uno Stato, da un governo democratico e alleato dell’Occidente, non valgono nemmeno un trafiletto. La matematica dell’indignazione è semplice: 2 è maggiore di 73, se chi muore ha il passaporto giusto.

Questa è la scuola di valori che esportiamo. Il nostro modello. Ai giovani arabi che crescono nelle nostre città, che studiano, che cercano una cittadinanza, un’appartenenza, ripetiamo ogni giorno: “Impara le nostre leggi, i nostri principi, i nostri valori”. E poi cosa vedono? Vedono che la vita di un loro fratello vale un cinquantesimo di quella di un occidentale. Se va bene. Più spesso vale zero.

Allora uno si chiede perché Hamas non si sconfigge mai. Perché i suoi ranghi si rimpolpano. Perché continuano a nascere milizie e martiri. E la risposta ce l’abbiamo scritta sulla fronte: siamo noi che li armiamo, non con i kalashnikov, ma con la nostra ipocrisia. Con i nostri massacri impuniti. Con la nostra indignazione selettiva.

Perché se davvero volessimo battere il terrorismo, dovremmo prima di tutto smettere di alimentarlo. Ma noi non possiamo: siamo prigionieri delle nostre doppie morali, dei nostri interessi, dei nostri alleati intoccabili. Alleati che nel frattempo bombardano ospedali, ambulanze, università, razionano l’acqua e il pane, e chiamano tutto questo “difesa”.

E allora mettiamoci nei panni di Netanyahu. Lo so, è dura. Anche solo immaginarlo. Ma proviamo. Un uomo che da vent’anni fa la stessa cosa: bombarda, reprime, colonizza, criminalizza, stermina. Sempre impunito. Sempre applaudito. Sempre sostenuto. E oggi, all’improvviso, si sveglia e scopre che l’aria è cambiata. Che l’Occidente lo guarda con disapprovazione. Che qualche governo gli volta le spalle.

E lui che fa? Si chiede: “Ma cosa ho fatto di diverso? Ho solo continuato. Ho solo perseverato. Ho fatto quello che mi avete sempre permesso di fare. Ho costruito tutta la mia carriera politica su una promessa chiara: distruggere la pace di Oslo, impedire uno Stato palestinese, schiacciare ogni opposizione armata o disarmata. E voi, cari amici democratici dell’Occidente, mi avete sempre lasciato fare. Perfino Hamas, che io fingo di combattere, mi è sempre stato utile. Gli ho fatto passare i soldi dal Qatar, li ho rafforzati per indebolire l’Olp. Ho raccontato che combattevo Hamas, mentre lo tenevo in vita, perché mi serviva un nemico. E voi mi avete creduto. Avete fatto finta di credermi. Anche quando bombardavo i miei stessi ostaggi. Anche quando facevo saltare le tregue. Anche quando dichiaravo di volerli liberare, ma intanto li usavo come scudo politico”.

E così Netanyahu cammina avanti e indietro nella sua villa blindata, in uno Stato sempre più isolato, sempre più sfibrato, e si domanda: “Perché adesso? Perché proprio ora mi danno dell’assassino, del criminale, del genocida, quando sono vent’anni che faccio la stessa cosa?” E ha ragione a domandarselo. Perché non c’è niente di nuovo. Gaza non è diventata un inferno oggi. Lo era già ieri. Solo che ieri era utile. O invisibile.

Perché oggi che gli Stati Uniti tentennano, che anche l’Unione Europea emette vagiti di censura, che la stampa inizia timidamente a raccontare quel che prima taceva, Netanyahu viene trattato come una mina vagante, come un problema da gestire. Ma lui è sempre stato così. È l’Occidente ad aver cambiato postura, non lui programma. Lui non ha sbagliato strategia. Ha solo superato il limite numerico dell’indifferenza.

Perché esiste, ormai lo sappiamo, un numero chiuso dell’orrore tollerabile. 10.000 morti, si può ancora coprire. 20.000, si minimizza. 30.000, si relativizza. Ma quando si arriva a 50.000, qualcosa si rompe. Non per coscienza morale. Per disonore statistico. Per imbarazzo diplomatico. Non è più l’odore del sangue a scandalizzare: è la puzza della nostra incoerenza.

La verità è che quello che accade a Gaza non è una guerra. Non c’è un fronte. Non c’è un esercito che combatte contro un altro. C’è un solo esercito, uno solo. L’altro è nascosto, o disperso. E sotto le bombe non ci sono miliziani, ma bambini, ostetriche, insegnanti, operai. Una strage continua e metodica, fatta con i droni di precisione, i missili intelligenti, le bombe mirate. Tutte fornite da noi. Tutte benedette dal nostro silenzio.

Nel frattempo, nessun Paese ha ritirato ambasciatori. Nessuno ha fermato le forniture militari. Nessuno ha bloccato gli scambi commerciali. Le università palestinesi vengono rase al suolo? Silenzio. I volontari umanitari vengono assassinati? Silenzio. I convogli dell’ONU bombardati? Silenzio. Gli ospedali distrutti, le ambulanze colpite, i giornalisti uccisi? Solo statistiche. Colpi collaterali. Danni inevitabili.

E quando persino dentro Israele, nei ranghi dell’esercito, nei vertici dell’intelligence, si alzano voci critiche, l’Occidente cosa fa? Punisce chi critica. Mette all’indice chi protesta. Blocca conferenze, chiude bocche, reprime manifestazioni. Chi si oppone viene tacciato di antisemitismo, anche se è ebreo. Anche se parla in nome del diritto, della giustizia, della verità.

E poi ci scandalizziamo se il mondo arabo ci disprezza. Se ci considera ipocriti. Se non crede più alla nostra narrazione di libertà e democrazia. Ma cosa abbiamo esportato, se non bombe, accordi petroliferi, interessi strategici, e una morale a geometria variabile? Gli arabi non hanno bisogno della propaganda jihadista per odiare l’Occidente. Gli basta accendere la TV e contare i morti.

Intanto Donald Trump, quello che doveva salvare l’Occidente dalla corruzione delle élite, vola nella penisola arabica e si porta a casa un trilione di dollari. Petrodollari per l’industria bellica americana. Accordi con regimi che se ne infischiano dei palestinesi ma vogliono almeno salvare la faccia davanti ai propri popoli. E così Netanyahu, che una volta era l’alleato privilegiato, diventa improvvisamente scomodo. Ingombrante. Tossico.

Trump lo scarica. L’Europa finge di accorgersi della realtà. Ma è solo geopolitica, non giustizia. È calcolo, non etica. Se domani Netanyahu lascia il potere e arriva qualcun altro a fare le stesse cose con un tono più morbido, torneranno tutti ad applaudire. A dire che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente, che bisogna difenderla, che tutto è legittima difesa.

E allora eccoci qui. A fare i conti con la scomoda verità che chi commette un crimine non sempre è quello che porta il kalashnikov. Spesso indossa una cravatta blu, parla inglese fluente, firma memorandum, siede a Bruxelles o a Washington. E i suoi crimini sono coperti da parole alte: sicurezza, stabilità, deterrenza, interessi nazionali.

Abbiamo costruito un sistema di valori a geometria morale, dove la vita umana vale in base alla geografia. In Ucraina, ogni morto è una tragedia. In Gaza, è una statistica. In Ucraina, ogni bomba russa è un crimine di guerra. In Palestina, ogni bomba israeliana è un atto difensivo. In Ucraina, c’è un aggressore e un aggredito. A Gaza no. A Gaza c’è un rumore di fondo. Una nebbia semantica. Un eterno presente bellico.

E se osi rompere questo schema, vieni scomunicato. Se chiami le cose con il loro nome, sei fazioso. Se denunci i crimini, sei pericoloso. Se pretendi coerenza, diventi un estremista. Ma l’estremismo, quello vero, è di chi bombarda bambini in nome della civiltà. Di chi seppellisce vivi interi quartieri e poi pontifica sui diritti umani.

Perché non si tratta solo di Netanyahu. Netanyahu è un prodotto, non un’eccezione. È l’incarnazione di un modello: il leader impunito, protetto dalle alleanze, salvato dall’ipocrisia globale, utile finché serve. E quando smette di servire, si archivia come un incidente, una deriva, un errore. Ma lui non ha sbagliato nulla. Ha solo seguito la traiettoria che gli era stata concessa.

In questo, Netanyahu è specchio perfetto del nostro tempo. Il tempo in cui la morale è una funzione dell’utilità. In cui la condanna vale solo se non disturba il commercio. In cui i diritti umani si pesano al chilo, in base al passaporto. E in cui la verità è una variabile geopolitica, non un principio. Così ci raccontiamo una narrativa monca, spezzata, incoerente. E ci stupiamo se il mondo non ci crede più.

E allora arriva l’ONU, che da mesi chiede un cessate il fuoco, e viene ignorata. Arrivano le denunce della Corte Penale Internazionale, e scatenano la reazione sdegnata di chi ha sempre predicato legalità. Arrivano perfino i richiami dal cuore dell’establishment israeliano, e restano inascoltati. Il mondo sa. Ma non agisce. O peggio: finge di non sapere.

E in tutto questo, l’Europa balbetta. Avanza un passo, ne ritrae due. Tentenna, media, consulta, rinvia. Si rifugia nella retorica del “ma anche”, dove tutte le colpe si equivalgono, dove tutte le verità si neutralizzano, dove ogni giudizio è sospeso per non offendere nessuno. Ma la neutralità davanti a un crimine non è equidistanza. È complicità.

Perché c’è un momento – e forse è questo – in cui restare in silenzio è una forma di partecipazione. E chi tace, consente. Chi media, legittima. Chi relativizza, disumanizza.

E allora parliamone. Parliamo della Russia. Parliamo della seconda metà del nostro doppio standard. Perché se il Medio Oriente è la palude della nostra ipocrisia, l’Est europeo è la montagna su cui ci arrampichiamo a mani nude, ogni giorno, cercando di restare aggrappati a una superiorità morale che non esiste più. O forse non è mai esistita.

Abbiamo trasformato Putin in un mostro metafisico. In un’eccezione assoluta. In un buco nero nella storia, utile a nascondere le nostre ombre. Ma Putin non è un’anomalia: è il risultato speculare della nostra arroganza geopolitica, della nostra cecità selettiva, della nostra memoria tagliata a misura.

Siamo stati noi a promettere che la NATO non si sarebbe allargata “di un pollice a Est”. E siamo stati noi a portarla fino ai confini della Russia. Siamo stati noi a teleguidare rivoluzioni colorate, a sponsorizzare governi amici, a bombardare stati sovrani senza l’ombra di un mandato ONU. E oggi, dopo trent’anni di provocazioni, ci stupiamo che Mosca reagisca come un animale braccato. Non per giustificare l’invasione dell’Ucraina – che resta una guerra d’aggressione, senza se e senza ma – ma per capire che nessun conflitto nasce nel vuoto. Ogni guerra è anche figlia di un prima.

In Ucraina muoiono civili, e ogni singolo morto va pianto, denunciato, gridato. Ma i numeri, le proporzioni, la densità dell’orrore a Gaza sono senza confronto. La più letale operazione militare dell’Occidente dal Vietnam ad oggi. Eppure la Russia ha ricevuto sanzioni, boicottaggi, isolamento diplomatico, embargo energetico, esclusione dallo sport e dalla cultura. Israele, niente. Non una misura. Non una rinuncia. Non un embargo. Nemmeno un richiamo che abbia il coraggio di dire le cose come stanno.

A Mosca basta piantare 130 tende sul proprio territorio per far scattare un’allerta globale. A Tel Aviv, invece, si può bombardare un ospedale e nessuno batte ciglio. Due pesi, due misure: il diritto internazionale, quando serve, si interpreta; quando non serve, si dimentica. Da una parte, la punizione permanente. Dall’altra, la deroga eterna. E guai a chi prova a mettere sullo stesso piano ciò che sul piano umanitario sta già lì: sullo stesso piano, e spesso anche più in basso.

Il problema, però, non è solo la politica. È la grammatica della menzogna, ormai introiettata da chi dovrebbe raccontare i fatti. Giornalisti che hanno rinunciato al giornalismo, intellettuali che si inchinano all’utilità, esperti che non parlano mai di ciò che sanno ma solo di ciò che conviene dire. Le parole sono diventate transazioni: si usano per ciò che servono, non per ciò che sono. “Invasione” se lo fa la Russia. “Operazione di terra” se lo fa Israele. “Civili innocenti” se muoiono in Europa. “Scudi umani” se muoiono in Palestina.

E così l’Occidente si guarda allo specchio e vede un’immagine nitida, limpida, pulita. Ma lo specchio mente. Perché non riflette la realtà: riflette la nostra propaganda.

Nel frattempo, nei palazzi d’Europa e nei corridoi americani, si va in scena. Non la scena madre del pentimento, non quella della condanna, ma la solita pantomima diplomatica.

Si alzano sopracciglia, si convocano ambasciatori, si rilasciano dichiarazioni indignate con lo stesso tono con cui si smentisce una voce di mercato.

Una “grave preoccupazione”, un “invito alla moderazione”, un “richiamo al diritto umanitario”.

Il massacro ha il suo lessico. Elegante, asettico, smacchiato.

Poi basta poco. Una piccola apertura israeliana — qualche pacco di farina in più, una tregua temporanea, un vago annuncio — e subito si riscrive la lavagna morale. Il ministro sorride. L’ambasciatore stringe mani. L’editorialista firma il pezzo sulle “responsabilità condivise”. Il massacro torna ad essere un “conflitto”, il bombardamento un “intervento mirato”, la fame una “crisi umanitaria”.

Ci sono parole che l’Occidente riserva solo ai nemici. “Invasione”, “crimine di guerra”, “genocidio”, “sanzioni”. Altri vocaboli, più gentili, sono per gli amici. “Legittima difesa”, “diritto alla sicurezza”, “errori tragici ma comprensibili”. Non è ipocrisia: è gerarchia morale.

E così, mentre i morti si contano a decine di migliaia, si discute di come non rovinare i rapporti con Israele, che “è una democrazia”. Come se i crimini contassero meno se commessi con elezioni regolari. Come se la vita di un bambino sotto le bombe valesse meno se la bomba viene da una camera parlamentare.

Il problema non è la menzogna. È il fatto che ci crediamo. Ci convinciamo davvero di essere quelli che portano la pace, i diritti, la civiltà. E se qualcosa va storto — una strage, una scuola rasa al suolo, un ospedale vaporizzato — allora è colpa del contesto. O di Hamas. O del meteo.

C’è un punto in cui il moralismo diventa pornografia. Quando si continua a ripetere “mai più” con la bocca ancora sporca di indifferenza. Quando si piange per le vittime giuste e si tace su quelle sbagliate. Quando si esportano valori con l’aeronautica e si ritirano con la logistica.

Non serve nemmeno più censurare. Basta distrarre. Cambiare il canale. Parlare d’altro. Di TikTok. Di Eurovision. Di patatine al gusto pizza.

Nel grande teatro dei nostri principi, il sipario non cala mai. C’è sempre un nuovo applauso da incassare, una standing ovation da strappare.

Intanto, fuori, qualcuno muore. E non è nemmeno una notizia.

https://www.lafionda.org/2025/05/30/quanta-verita-possiamo-tollerare/

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