Dove finisce la giustizia, inizia la complicità. E noi siamo già oltre il
confine.
A Washington un trentenne americano, Elias Rodriguez, impazzisce, estrae
una pistola e fa fuoco. Uccide due addetti dell’ambasciata israeliana: Yaron
Lischinsky, israeliano, e Sarah Milgrim, americana, che stavano per sposarsi. I
titoli scattano. Le aperture dei TG si spalancano. Le condanne dei governi
arrivano a raffica. Dolore unanime, silenzio assoluto.
Lo stesso giorno, a Gaza, l’esercito israeliano uccide 54 civili. Altri 29,
tra cui bambini e anziani, muoiono di fame. La fame. Il totale fa 73 morti in
24 ore. Nessun titolo. Nessun nome. Solo corpi da sotterrare. Nessuna condanna
ufficiale. Silenzio, assuefazione, complicità.
Eppure conosciamo i responsabili. Non sono ignoti. Non sono cani sciolti.
Hanno un nome e un indirizzo: Benjamin Netanyahu e il suo governo. Nessun
tribunale li cerca. Nessun Paese li isola. Nessuna NATO si muove. Nessun
embargo. Nessuna lista nera. Nemmeno una “sanzioncina” simbolica, giusto per la
parvenza. Nulla.
I due israeliani, assassinati da un folle, valgono notiziari, lacrime e
lutti di Stato. I 73 palestinesi, assassinati da uno Stato, da un governo democratico
e alleato dell’Occidente, non valgono nemmeno un trafiletto. La matematica
dell’indignazione è semplice: 2 è maggiore di 73, se chi muore ha il passaporto
giusto.
Questa è la scuola di valori che esportiamo. Il nostro modello. Ai giovani
arabi che crescono nelle nostre città, che studiano, che cercano una
cittadinanza, un’appartenenza, ripetiamo ogni giorno: “Impara le nostre leggi,
i nostri principi, i nostri valori”. E poi cosa vedono? Vedono che la vita di
un loro fratello vale un cinquantesimo di quella di un occidentale. Se va bene.
Più spesso vale zero.
Allora uno si chiede perché Hamas non si sconfigge mai. Perché i suoi
ranghi si rimpolpano. Perché continuano a nascere milizie e martiri. E la
risposta ce l’abbiamo scritta sulla fronte: siamo noi che li armiamo, non con i
kalashnikov, ma con la nostra ipocrisia. Con i nostri massacri impuniti. Con la
nostra indignazione selettiva.
Perché se davvero volessimo battere il terrorismo, dovremmo prima di tutto
smettere di alimentarlo. Ma noi non possiamo: siamo prigionieri delle nostre
doppie morali, dei nostri interessi, dei nostri alleati intoccabili. Alleati
che nel frattempo bombardano ospedali, ambulanze, università, razionano l’acqua
e il pane, e chiamano tutto questo “difesa”.
E allora mettiamoci nei panni di Netanyahu. Lo so, è dura. Anche solo
immaginarlo. Ma proviamo. Un uomo che da vent’anni fa la stessa cosa: bombarda,
reprime, colonizza, criminalizza, stermina. Sempre impunito. Sempre applaudito.
Sempre sostenuto. E oggi, all’improvviso, si sveglia e scopre che l’aria è
cambiata. Che l’Occidente lo guarda con disapprovazione. Che qualche governo
gli volta le spalle.
E lui che fa? Si chiede: “Ma cosa ho fatto di diverso? Ho solo continuato.
Ho solo perseverato. Ho fatto quello che mi avete sempre permesso di fare. Ho
costruito tutta la mia carriera politica su una promessa chiara: distruggere la
pace di Oslo, impedire uno Stato palestinese, schiacciare ogni opposizione
armata o disarmata. E voi, cari amici democratici dell’Occidente, mi avete
sempre lasciato fare. Perfino Hamas, che io fingo di combattere, mi è sempre
stato utile. Gli ho fatto passare i soldi dal Qatar, li ho rafforzati per
indebolire l’Olp. Ho raccontato che combattevo Hamas, mentre lo tenevo in vita,
perché mi serviva un nemico. E voi mi avete creduto. Avete fatto finta di
credermi. Anche quando bombardavo i miei stessi ostaggi. Anche quando facevo
saltare le tregue. Anche quando dichiaravo di volerli liberare, ma intanto li
usavo come scudo politico”.
E così Netanyahu cammina avanti e indietro nella sua villa blindata, in uno
Stato sempre più isolato, sempre più sfibrato, e si domanda: “Perché adesso?
Perché proprio ora mi danno dell’assassino, del criminale, del genocida, quando
sono vent’anni che faccio la stessa cosa?” E ha ragione a domandarselo. Perché
non c’è niente di nuovo. Gaza non è diventata un inferno oggi. Lo era già ieri.
Solo che ieri era utile. O invisibile.
Perché oggi che gli Stati Uniti tentennano, che anche l’Unione Europea
emette vagiti di censura, che la stampa inizia timidamente a raccontare quel
che prima taceva, Netanyahu viene trattato come una mina vagante, come un
problema da gestire. Ma lui è sempre stato così. È l’Occidente ad aver cambiato
postura, non lui programma. Lui non ha sbagliato strategia. Ha solo superato il
limite numerico dell’indifferenza.
Perché esiste, ormai lo sappiamo, un numero chiuso dell’orrore tollerabile.
10.000 morti, si può ancora coprire. 20.000, si minimizza. 30.000, si
relativizza. Ma quando si arriva a 50.000, qualcosa si rompe. Non per coscienza
morale. Per disonore statistico. Per imbarazzo diplomatico. Non è più l’odore
del sangue a scandalizzare: è la puzza della nostra incoerenza.
La verità è che quello che accade a Gaza non è una guerra. Non c’è un
fronte. Non c’è un esercito che combatte contro un altro. C’è un solo esercito,
uno solo. L’altro è nascosto, o disperso. E sotto le bombe non ci sono
miliziani, ma bambini, ostetriche, insegnanti, operai. Una strage continua e
metodica, fatta con i droni di precisione, i missili intelligenti, le bombe
mirate. Tutte fornite da noi. Tutte benedette dal nostro silenzio.
Nel frattempo, nessun Paese ha ritirato ambasciatori. Nessuno ha fermato le
forniture militari. Nessuno ha bloccato gli scambi commerciali. Le università
palestinesi vengono rase al suolo? Silenzio. I volontari umanitari vengono
assassinati? Silenzio. I convogli dell’ONU bombardati? Silenzio. Gli ospedali
distrutti, le ambulanze colpite, i giornalisti uccisi? Solo statistiche. Colpi
collaterali. Danni inevitabili.
E quando persino dentro Israele, nei ranghi dell’esercito, nei vertici
dell’intelligence, si alzano voci critiche, l’Occidente cosa fa? Punisce chi
critica. Mette all’indice chi protesta. Blocca conferenze, chiude bocche,
reprime manifestazioni. Chi si oppone viene tacciato di antisemitismo, anche se
è ebreo. Anche se parla in nome del diritto, della giustizia, della verità.
E poi ci scandalizziamo se il mondo arabo ci disprezza. Se ci considera
ipocriti. Se non crede più alla nostra narrazione di libertà e democrazia. Ma
cosa abbiamo esportato, se non bombe, accordi petroliferi, interessi
strategici, e una morale a geometria variabile? Gli arabi non hanno bisogno
della propaganda jihadista per odiare l’Occidente. Gli basta accendere la TV e
contare i morti.
Intanto Donald Trump, quello che doveva salvare l’Occidente dalla
corruzione delle élite, vola nella penisola arabica e si porta a casa un
trilione di dollari. Petrodollari per l’industria bellica americana. Accordi
con regimi che se ne infischiano dei palestinesi ma vogliono almeno salvare la
faccia davanti ai propri popoli. E così Netanyahu, che una volta era l’alleato
privilegiato, diventa improvvisamente scomodo. Ingombrante. Tossico.
Trump lo scarica. L’Europa finge di accorgersi della realtà. Ma è solo
geopolitica, non giustizia. È calcolo, non etica. Se domani Netanyahu lascia il
potere e arriva qualcun altro a fare le stesse cose con un tono più morbido,
torneranno tutti ad applaudire. A dire che Israele è l’unica democrazia del
Medio Oriente, che bisogna difenderla, che tutto è legittima difesa.
E allora eccoci qui. A fare i conti con la scomoda verità che chi commette
un crimine non sempre è quello che porta il kalashnikov. Spesso indossa una
cravatta blu, parla inglese fluente, firma memorandum, siede a Bruxelles o a
Washington. E i suoi crimini sono coperti da parole alte: sicurezza, stabilità,
deterrenza, interessi nazionali.
Abbiamo costruito un sistema di valori a geometria morale, dove la vita
umana vale in base alla geografia. In Ucraina, ogni morto è una tragedia. In
Gaza, è una statistica. In Ucraina, ogni bomba russa è un crimine di guerra. In
Palestina, ogni bomba israeliana è un atto difensivo. In Ucraina, c’è un
aggressore e un aggredito. A Gaza no. A Gaza c’è un rumore di fondo. Una nebbia
semantica. Un eterno presente bellico.
E se osi rompere questo schema, vieni scomunicato. Se chiami le cose con il
loro nome, sei fazioso. Se denunci i crimini, sei pericoloso. Se pretendi
coerenza, diventi un estremista. Ma l’estremismo, quello vero, è di chi
bombarda bambini in nome della civiltà. Di chi seppellisce vivi interi
quartieri e poi pontifica sui diritti umani.
Perché non si tratta solo di Netanyahu. Netanyahu è un prodotto, non
un’eccezione. È l’incarnazione di un modello: il leader impunito, protetto
dalle alleanze, salvato dall’ipocrisia globale, utile finché serve. E quando
smette di servire, si archivia come un incidente, una deriva, un errore. Ma lui
non ha sbagliato nulla. Ha solo seguito la traiettoria che gli era stata concessa.
In questo, Netanyahu è specchio perfetto del nostro tempo. Il tempo in cui
la morale è una funzione dell’utilità. In cui la condanna vale solo se non
disturba il commercio. In cui i diritti umani si pesano al chilo, in base al
passaporto. E in cui la verità è una variabile geopolitica, non un principio.
Così ci raccontiamo una narrativa monca, spezzata, incoerente. E ci stupiamo se
il mondo non ci crede più.
E allora arriva l’ONU, che da mesi chiede un cessate il fuoco, e viene
ignorata. Arrivano le denunce della Corte Penale Internazionale, e scatenano la
reazione sdegnata di chi ha sempre predicato legalità. Arrivano perfino i
richiami dal cuore dell’establishment israeliano, e restano inascoltati. Il
mondo sa. Ma non agisce. O peggio: finge di non sapere.
E in tutto questo, l’Europa balbetta. Avanza un passo, ne ritrae due.
Tentenna, media, consulta, rinvia. Si rifugia nella retorica del “ma anche”,
dove tutte le colpe si equivalgono, dove tutte le verità si neutralizzano, dove
ogni giudizio è sospeso per non offendere nessuno. Ma la neutralità davanti a
un crimine non è equidistanza. È complicità.
Perché c’è un momento – e forse è questo – in cui restare in silenzio è una
forma di partecipazione. E chi tace, consente. Chi media, legittima. Chi
relativizza, disumanizza.
E allora parliamone. Parliamo della Russia. Parliamo della seconda metà del
nostro doppio standard. Perché se il Medio Oriente è la palude della nostra
ipocrisia, l’Est europeo è la montagna su cui ci arrampichiamo a mani nude,
ogni giorno, cercando di restare aggrappati a una superiorità morale che non
esiste più. O forse non è mai esistita.
Abbiamo trasformato Putin in un mostro metafisico. In un’eccezione
assoluta. In un buco nero nella storia, utile a nascondere le nostre ombre. Ma
Putin non è un’anomalia: è il risultato speculare della nostra arroganza
geopolitica, della nostra cecità selettiva, della nostra memoria tagliata a
misura.
Siamo stati noi a promettere che la NATO non si sarebbe allargata “di un
pollice a Est”. E siamo stati noi a portarla fino ai confini della Russia.
Siamo stati noi a teleguidare rivoluzioni colorate, a sponsorizzare governi
amici, a bombardare stati sovrani senza l’ombra di un mandato ONU. E oggi, dopo
trent’anni di provocazioni, ci stupiamo che Mosca reagisca come un animale
braccato. Non per giustificare l’invasione dell’Ucraina – che resta una guerra
d’aggressione, senza se e senza ma – ma per capire che nessun conflitto nasce
nel vuoto. Ogni guerra è anche figlia di un prima.
In Ucraina muoiono civili, e ogni singolo morto va pianto, denunciato,
gridato. Ma i numeri, le proporzioni, la densità dell’orrore a Gaza sono senza
confronto. La più letale operazione militare dell’Occidente dal Vietnam ad
oggi. Eppure la Russia ha ricevuto sanzioni, boicottaggi, isolamento
diplomatico, embargo energetico, esclusione dallo sport e dalla cultura.
Israele, niente. Non una misura. Non una rinuncia. Non un embargo. Nemmeno un
richiamo che abbia il coraggio di dire le cose come stanno.
A Mosca basta piantare 130 tende sul proprio territorio per far scattare
un’allerta globale. A Tel Aviv, invece, si può bombardare un ospedale e nessuno
batte ciglio. Due pesi, due misure: il diritto internazionale, quando serve, si
interpreta; quando non serve, si dimentica. Da una parte, la punizione
permanente. Dall’altra, la deroga eterna. E guai a chi prova a mettere sullo
stesso piano ciò che sul piano umanitario sta già lì: sullo stesso piano, e
spesso anche più in basso.
Il problema, però, non è solo la politica. È la grammatica della menzogna,
ormai introiettata da chi dovrebbe raccontare i fatti. Giornalisti che hanno
rinunciato al giornalismo, intellettuali che si inchinano all’utilità, esperti
che non parlano mai di ciò che sanno ma solo di ciò che conviene dire. Le
parole sono diventate transazioni: si usano per ciò che servono, non per ciò
che sono. “Invasione” se lo fa la Russia. “Operazione di terra” se lo fa
Israele. “Civili innocenti” se muoiono in Europa. “Scudi umani” se muoiono in
Palestina.
E così l’Occidente si guarda allo specchio e vede un’immagine nitida,
limpida, pulita. Ma lo specchio mente. Perché non riflette la realtà: riflette
la nostra propaganda.
Nel frattempo, nei palazzi d’Europa e nei corridoi americani, si va in
scena. Non la scena madre del pentimento, non quella della condanna, ma la
solita pantomima diplomatica.
Si alzano sopracciglia, si convocano ambasciatori, si rilasciano
dichiarazioni indignate con lo stesso tono con cui si smentisce una voce di
mercato.
Una “grave preoccupazione”, un “invito alla moderazione”, un “richiamo al
diritto umanitario”.
Il massacro ha il suo lessico. Elegante, asettico, smacchiato.
Poi basta poco. Una piccola apertura israeliana — qualche pacco di farina
in più, una tregua temporanea, un vago annuncio — e subito si riscrive la
lavagna morale. Il ministro sorride. L’ambasciatore stringe mani.
L’editorialista firma il pezzo sulle “responsabilità condivise”. Il massacro
torna ad essere un “conflitto”, il bombardamento un “intervento mirato”, la
fame una “crisi umanitaria”.
Ci sono parole che l’Occidente riserva solo ai nemici. “Invasione”,
“crimine di guerra”, “genocidio”, “sanzioni”. Altri vocaboli, più gentili, sono
per gli amici. “Legittima difesa”, “diritto alla sicurezza”, “errori tragici ma
comprensibili”. Non è ipocrisia: è gerarchia morale.
E così, mentre i morti si contano a decine di migliaia, si discute di come
non rovinare i rapporti con Israele, che “è una democrazia”. Come se i crimini
contassero meno se commessi con elezioni regolari. Come se la vita di un
bambino sotto le bombe valesse meno se la bomba viene da una camera
parlamentare.
Il problema non è la menzogna. È il fatto che ci crediamo. Ci convinciamo
davvero di essere quelli che portano la pace, i diritti, la civiltà. E se
qualcosa va storto — una strage, una scuola rasa al suolo, un ospedale
vaporizzato — allora è colpa del contesto. O di Hamas. O del meteo.
C’è un punto in cui il moralismo diventa pornografia. Quando si continua a
ripetere “mai più” con la bocca ancora sporca di indifferenza. Quando si piange
per le vittime giuste e si tace su quelle sbagliate. Quando si esportano valori
con l’aeronautica e si ritirano con la logistica.
Non serve nemmeno più censurare. Basta distrarre. Cambiare il canale.
Parlare d’altro. Di TikTok. Di Eurovision. Di patatine al gusto pizza.
Nel grande teatro dei nostri principi, il sipario non cala mai. C’è sempre
un nuovo applauso da incassare, una standing ovation da strappare.
Intanto, fuori, qualcuno muore. E non è nemmeno una notizia.
https://www.lafionda.org/2025/05/30/quanta-verita-possiamo-tollerare/
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