– una giornalista israeliana – sui crimini commessi a partire dal 1948. La pulizia etnica come marchio d’origine di Israele e come nasconde le prove dei crimini commessi.
a cura di Giorgio Riolo
Hagar Shezaf è una giornalista
israeliana del quotidiano Haaretz. Ha ricevuto vari riconoscimenti per il suo coraggioso lavoro
giornalistico. Ha rivelato recentemente gli attacchi dei coloni israeliani in
Cisgiordania e gli abusi, le torture, gli assassinii di detenuti palestinesi
nel carcere di Sde Teiman. Ricordo solo qui che storici e giornalisti coraggiosi
esistono in Israele. Haaretz è un giornale israeliano
che pubblica molti articoli contro i crimini compiuti contro i palestinesi.
Questo lungo articolo che vi
faccio avere di seguito è stato scritto nel luglio 2019. La giornalista ha
compiuto un lavoro scrupoloso d’indagine, intervistando ufficiali militari,
funzionari governativi, responsabili di archivi israeliani. Il tema è cosa
hanno fatto gli israeliani nel 1948. E come hanno cercato e cercano di
occultare i massacri, gli stupri, i saccheggi e le distruzione di interi
villaggi compiuti nel corso della loro autoglorificante “Guerra
d’Indipendenza”. La Nakba per il popolo palestinese, investito da questa
sciagura, da questa tragedia.
Noi viviamo entro la bolla
narrativa occidentale, Europa, Usa, Occidente, della mitologia creata attorno a
Israele. Una mitologia molto interessata, una teoria di legittimazione
dell’oppressione coloniale a copertura del genocidio, passato e presente.
Naturalmente nella mitologia è
compresa l’accusa di antisemitismo rivolta a chi decostruisce questa Grande
Narrazione Mitologica, a chi mostra banalmente il razzismo, la superiorità
bianca da “signori del mondo”, la ferocia assassina, la barbarie di questa
storia.
L’articolo è lungo, ma la
narrazione della concretezza storica, con il supporto di documenti, è molto
importante, oltre la denuncia e le analisi generalizzanti che spesso facciamo.
Per chi avesse voglia e tempo di leggere.
Sottolineo che non ho
volutamente usato la nozione di nazismo per descrivere questa concretezza storica.
La barbarie della colonizzazione europea e occidentale anticipa temporalmente
la barbarie nazista
Seppellire la Nakba. Come Israele nasconde le prove della
espulsione degli arabi del 1948
di Hagar Shezaf
Quattro anni fa, la storica Tamar Novick è rimasta
scioccata da un documento trovato nel dossier di Yosef Vashitz, del
dipartimento arabo del partito di sinistra Mapam, negli archivi di Yad Yaari a
Givat Haviva. Il documento, che sembrava descrivere eventi avvenuti durante la
guerra del 1948, iniziava come segue:
“Safsaf [ex villaggio palestinese vicino a Safed] – 52
uomini sono stati catturati, legati insieme, è stata scavata una fossa e sono
stati fucilati. 10 erano ancora in preda alle convulsioni. Le donne sono venute
a chiedere pietà. Trovati i corpi di 6 anziani. C’erano 61 corpi. 3 casi di
stupro, uno a est di Safed, una ragazza di 14 anni, 4 uomini uccisi a colpi di
pistola. A uno di loro sono state tagliate le dita con un coltello per rubare
un anello”.
L’autore prosegue
descrivendo altri massacri, saccheggi e abusi perpetrati dalle forze israeliane
durante la guerra d’indipendenza di Israele. “Non ci sono nomi sul documento e
non è chiaro chi l’abbia scritto”, spiega Tamar Novick ad Haaretz. “Il documento è incompleto. L’ho trovato molto
inquietante. Sapevo che, trovando un documento del genere, avevo la
responsabilità di chiarire ciò che era accaduto”.
Il villaggio di Safsaf, nell’Alta Galilea, fu catturato
dalle Forze di difesa israeliane nel corso dell’Operazione Hiram alla fine del
1948. Sulle sue rovine si è costituita la colonia-insediamento di Moshav
Safsufa. Nel corso degli anni sono state avanzate accuse secondo cui la Settima
Brigata avrebbe commesso crimini di guerra in questo villaggio. Queste accuse
sono supportate dal documento trovato da Novick, non a conoscenza degli
studiosi. Potrebbe anche costituire una prova ulteriore secondo cui gli alti
gradi israeliani erano informati su ciò che stava accadendo in tempo reale.
Novick ha deciso di consultare altri storici in merito al
documento. Benny Morris, i cui libri sono i testi base per lo studio della
Nakba – la “calamità”, come i palestinesi descrivono l’emigrazione di massa
degli arabi dal paese durante la guerra del 1948 – le disse che anche lui aveva
trovato documenti simili in passato.
Si riferiva agli appunti
presi da Aharon Cohen, membro del Comitato Centrale del Mapam, sulla base di un
discorso tenuto nel novembre 1948 da Israel Galili, l’ex Capo di Stato Maggiore
della milizia Haganah, divenuta poi IDF (Israel
Defence Forces, o Tsahal). Gli appunti di Cohen sulla
vicenda, pubblicati da Morris, recitano: “Safsaf: 52 uomini legati con una
corda. Gettati in una fossa e fucilati. 10 sono stati uccisi. Le donne
imploravano pietà. Ci sono stati 3 casi di stupro. Catturati e rilasciati. Una
ragazza di 14 anni è stata violentata. Altri 4 sono stati uccisi. Anelli
(rubati con il coltello)”.
La nota a piè di pagina di
Morris (nella sua opera fondamentale The Birth of the Palestinian
Refugee Problem, 1947-1949, in italiano presso Rizzoli editore Esilio. Israele e l’esodo palestinese 1947-1949)
indica che questo documento è stato trovato anche negli archivi dello Yad
Yaari. Ma quando Novick tornò a esaminare il documento, fu sorpresa di scoprire
che non c’era più.
“All’inizio ho pensato che Morris non fosse stato preciso
nella sua nota a piè di pagina, che potesse aver commesso un errore”, ricorda
Novick. “Mi ci è voluto un po’ di tempo per considerare la possibilità che il
documento fosse semplicemente scomparso”. Quando chiese ai funzionari dove
fosse il documento, le fu risposto che era stato messo sotto chiave allo Yad
Yaari, per ordine del Ministero della Difesa.
Dall’inizio dello scorso decennio, squadre del Ministero
della Difesa stanno rovistando negli archivi locali, rimuovendo troppe carte
storiche e mettendole sotto chiave. Ma non sono solo i documenti relativi al
progetto nucleare di Israele o alle relazioni estere del Paese a essere
trasferiti nelle casseforti: centinaia di documenti sono stati nascosti come
parte di uno sforzo sistematico per nascondere le prove della Nakba.
Il fenomeno è stato rilevato per la prima volta
dall’Istituto Akevot, che si occupa di ricerche sul conflitto
israelo-palestinese. Secondo un rapporto redatto dall’istituto, l’operazione è
stata condotta dal Malmab, il dipartimento segreto di sicurezza del Ministero
della Difesa (il nome è un acronimo ebraico per “direttore della sicurezza
dell’istituzione della difesa”), le cui attività e il cui bilancio sono
segreti. Il rapporto afferma che il Malmab ha rimosso documenti storici
illegalmente e senza autorizzazione, e in alcuni casi ha sigillato documenti
che erano stati precedentemente approvati per la pubblicazione dal censore
militare. Alcuni dei documenti messi in cassaforte erano già stati pubblicati.
Un’inchiesta di Haaretz ha rivelato che Malmab ha nascosto
testimonianze di generali dell’esercito israeliano sull’uccisione di civili e
sulla demolizione di villaggi, nonché prove dell’espulsione di beduini durante
il primo decennio dello Stato di Israele. Conversazioni condotte da Haaretz con direttori di archivi pubblici e
privati hanno rivelato che il personale dei servizi di sicurezza ha trattato
gli archivi come una loro proprietà, in alcuni casi minacciando gli stessi
direttori degli archivi.
Yehiel Horev, che ha
diretto il Malmab per due decenni fino al 2007, ha ammesso ad Haaretz di essere stato il fautore del progetto,
che è ancora in corso. Egli sostiene che ha senso nascondere gli eventi del
1948, poiché la loro rivelazione potrebbe causare disordini tra la popolazione
araba del Paese. Alla domanda sul perché i documenti già pubblicati dovrebbero
essere ritirati, ha spiegato che l’obiettivo è quello di minare la credibilità
degli studi sulla storia del problema dei rifugiati. Secondo Horev, un’affermazione
fatta da un ricercatore e supportata da un documento originale non è la stessa
cosa di un’affermazione che non può essere provata o confutata perché il
documento è inaccessibile.
Il documento che Novick
stava cercando avrebbe potuto rafforzare il lavoro di Morris. Nel corso
dell’indagine, Haaretz è riuscito a trovare
il promemoria di Aharon Cohen, che riassume una riunione del Comitato politico
del Mapam sul tema dei massacri e delle espulsioni del 1948. I partecipanti
alla riunione hanno chiesto di collaborare con una Commissione d’inchiesta per
indagare sugli eventi. Uno dei casi esaminati dal comitato riguardava “gravi
azioni” compiute nel villaggio di Al-Dawayima, a est di Kiryat Gat. Un
partecipante ha menzionato la milizia clandestina Lehi, poi sciolta. Sono stati riportati anche atti di
saccheggio: “A Lod e Ramle, a Be’er Sheva, non c’è un solo negozio [arabo] che
non sia stato scassinato. La Nona Brigata parla di sette (negozi saccheggiati),
la Settima Brigata di otto”.
“Il partito”, si legge nel documento verso la fine, “è
contrario alle espulsioni se non sono militarmente necessarie. Ci sono diversi
approcci per valutare la necessità. E la cosa migliore è ottenere maggiori
dettagli. Quello che è successo in Galilea è stato un atto nazista! Ognuno dei
nostri membri deve riferire ciò che sa”.
La versione israeliana
Uno dei documenti più
affascinanti sulle origini del problema dei rifugiati palestinesi è stato
scritto da un ufficiale dello Shai, il precursore
del servizio di sicurezza Shin Bet.
Spiega perché il Paese è stato svuotato di così tanti
abitanti arabi, concentrandosi sulla situazione di ciascun villaggio. Compilato
alla fine di giugno del 1948, era intitolato “L’emigrazione degli arabi dalla
Palestina”.
Questo documento è servito come base per un articolo che
Benny Morris ha pubblicato nel 1986. Dopo la pubblicazione dell’articolo, il
documento fu rimosso dagli archivi e reso inaccessibile ai ricercatori. Anni
dopo, il team di Malmab riesaminò il documento e ordinò che rimanesse classificato.
Non sapevano che qualche anno dopo i ricercatori di Akevot avrebbero trovato
una copia del testo e l’avrebbero presentata ai censori militari, i quali ne
avrebbero autorizzato la pubblicazione senza condizioni. Oggi, dopo anni di
occultamento, l’essenza del documento viene qui svelata.
Il documento di 25 pagine inizia con un’introduzione che
approva senza riserve l’evacuazione dei villaggi arabi. Secondo l’autore, il
mese di aprile “è stato eccellente per quanto riguarda l’aumento dell’emigrazione”,
mentre maggio “è stato benedetto dall’evacuazione del maggior numero possibile
di località”. Il rapporto prosegue discutendo “le cause dell’emigrazione
araba”.
Secondo la narrazione israeliana diffusa negli anni, la
responsabilità dell’esodo da Israele è da attribuire ai politici arabi che
hanno incoraggiato la popolazione ad andarsene [come se questo potesse
giustificare l’esproprio, la monopolizzazione e il divieto di ritorno di queste
popolazioni, sostituite da coloni ebrei, e persino la distruzione dei loro
villaggi]. Tuttavia, secondo questo documento, il 70% degli arabi se ne andò a
causa delle operazioni militari ebraiche.
L’anonimo autore del testo
classifica le ragioni della partenza degli arabi in ordine di importanza. Il
primo motivo è costituito da “atti di ostilità diretta da parte degli ebrei
contro gli insediamenti arabi”. Il secondo motivo era l’impatto di queste
azioni sui villaggi vicini. In terzo luogo, c’erano le “operazioni dei gruppi
dissidenti”, cioè l’Irgun e il Lehi (organizzazioni terroristiche ebraiche)
clandestini. Il quarto motivo dell’esodo arabo erano gli ordini impartiti dalle
istituzioni e dalle “bande” arabe (il documento descrive tutti i gruppi di
combattimento arabi come ‘bande’); il quinto motivo erano le “operazioni di
‘suggerimento’ ebraico (guerra psicologica) volte a indurre gli abitanti arabi
a fuggire”; e il sesto fattore erano gli “ultimatum all’evacuazione”.
L’autore afferma che “non
c’è dubbio che le operazioni ostili siano state la causa principale dello sfollamento
della popolazione”. Inoltre, “gli altoparlanti in lingua araba si sono
dimostrati efficaci se usati correttamente”. Per quanto riguarda le operazioni
dell’Irgun e del Lehi, il rapporto
osserva che “molti abitanti dei villaggi della Galilea centrale hanno iniziato
a fuggire dopo il rapimento degli anziani di Sheikh Muwannis [un villaggio a
nord di Tel Aviv]. Gli arabi hanno imparato che non basta raggiungere un
accordo con l’Haganah e che ci sono altri ebrei [cioè milizie
dissidenti] da temere”.
L’autore nota che gli ultimatum ad andarsene sono stati
usati soprattutto nella Galilea centrale, ma meno nella regione del Monte
Gilboa. “Naturalmente, questo ultimatum, come l’effetto del ‘consiglio
amichevole’, è arrivato dopo una certa preparazione del terreno attraverso
azioni ostili nella regione”.
Un’appendice al documento descrive le cause specifiche
dell’esodo da ciascuna delle decine di località arabe:
Ein Zeitun: “nostra distruzione del villaggio”;
Qeitiya: “molestie, minaccia di azione”;
Almaniya: “nostra azione, molti assassinati”;
Tira: “consiglio amichevole degli ebrei”;
Al’Amarir: “dopo i furti e gli omicidi commessi dai
dissidenti”;
Sumsum: “nostro ultimatum”;
Bir Salim: “attacco all’orfanotrofio”;
Zarnuga: “conquista ed espulsione”.
Una miccia corta
All’inizio degli anni
2000, il Centro Yitzhak Rabin ha condotto una serie di interviste a ex
personaggi pubblici e militari nell’ambito di un progetto di documentazione
delle loro attività al servizio dello Stato. La longa
manus di Malmab è entrato in possesso anche di queste
interviste. Haaretz, che ha ottenuto i testi originali di molte interviste, li
ha confrontati con le versioni ora disponibili al pubblico, dopo che ampie
sezioni di esse sono state classificate come segreti della difesa.
Tra queste, ad esempio, alcune parti della testimonianza
del generale di brigata Aryeh Shalev sull’espulsione attraverso il confine
degli abitanti di un villaggio da lui chiamato “Sabra”. Più avanti
nell’intervista, sono state cancellate le seguenti frasi: “C’era un problema
molto serio nella valle. C’erano rifugiati che volevano tornare nella valle,
nel Triangolo [una concentrazione di città e villaggi arabi nella parte
orientale di Israele]. Li abbiamo espulsi. Li ho incontrati per convincerli a
non farlo. Ho dei documenti al riguardo”.
In un altro caso, Malmab ha deciso di nascondere questo
segmento di un’intervista che lo storico Boaz Lev Tov ha condotto con il
riservista Maggiore Generale Elad Peled:
Lev Tov: “Stiamo parlando di una popolazione composta da
donne e bambini?”
Peled: “Tutti, tutti, sì”
Lev Tov: “Non ha fatto alcuna distinzione (tra uomini e
donne/bambini)?”
Peled: “Il problema è molto semplice. È una guerra tra
due popolazioni. Lasciano le loro case”
Lev Tov: “Se c’è una casa, hanno un posto dove tornare?”.
Peled: “Non sono ancora eserciti, sono bande. Anche noi
siamo bande. Noi lasciamo la casa e torniamo alla casa. Loro lasciano la casa e
ci tornano. A volte è la loro casa, a volte la nostra”.
Lev Tov: “Gli scrupoli sono una prerogativa della generazione
più recente?”
Peled: “Sì, oggi (ci sono più scrupoli). Quando mi siedo
in poltrona e penso a quello che è successo, mi vengono in mente tutti i tipi
di pensieri.”
Lev Tov: “Allora non c’erano scrupoli?”
Peled: “Guardate, lasciate
che vi racconti qualcosa di ancora meno vergognoso, qualcosa di crudele sulla
grande incursione a Sasa [un villaggio palestinese nell’Alta Galilea]. Lo scopo
era infatti quello di dissuaderli, di dire loro: “Cari amici, il Palmach [le truppe d’assalto dell’Haganah] può raggiungere qualsiasi luogo, non siete al
sicuro da nessuna parte.
Era il cuore dell’insediamento arabo. Ma cosa abbiamo
fatto? Il mio plotone ha fatto saltare in aria 20 case con tutto quello che
c’era dentro.”
Lev Tov: “Mentre la gente dormiva lì?”
Peled: “Suppongo di sì. È successo che siamo entrati nel
villaggio, abbiamo messo una bomba vicino a ogni casa, poi Homesh ha suonato la
tromba, perché non avevamo la radio, e quello è stato il segnale [che le nostre
forze] dovevano andarsene. Tu torni indietro, i genieri restano, fanno scattare
i detonatori, è una cosa primitiva. Accendevano la miccia o attivavano il
detonatore e tutte quelle case sparivano”.
Un altro passaggio che il Ministero della Difesa ha
voluto nascondere al pubblico proviene dalla conversazione del dottor Lev Tov
con il Maggiore Generale Avraham Tamir:
Tamir: “Ho servito sotto Chera [il Maggiore Generale Tzvi
Tzur, futuro Capo di Stato Maggiore dell’IDF], e ho avuto ottimi rapporti con
lui. Mi diede completa libertà d’azione – non fatemi domande – e fui
responsabile degli uomini e delle operazioni durante due sviluppi derivanti
dalla politica di Ben-Gurion. Uno sviluppo fu l’arrivo di notizie di marce di
profughi dalla Giordania verso villaggi abbandonati [in Palestina]. Allora
Ben-Gurion decise che avremmo dovuto demolire [i villaggi] in modo che non
avessero un posto dove tornare.
Cioè tutti i villaggi arabi, la maggior parte dei quali
si trovava nell’area coperta dal Comando Centrale, la maggior parte.”
Lev Tov: “Quelli che erano ancora in piedi”
Tamir: “Quelli che non erano ancora abitati da
israeliani. C’erano luoghi in cui avevamo già insediato degli israeliani, come
Zakariyya e altri luoghi. Ma la maggior parte erano ancora villaggi
abbandonati.”
Lev Tov: “Quali erano ancora in piedi?”
Tamir: “Sì. Non dovevano avere un posto dove tornare,
così ho mobilitato tutti i battaglioni di ingegneria del Comando centrale e nel
giro di 48 ore ho distrutto tutti quei villaggi. Tutto qui. Non c’era nessun
posto dove potessero tornare.”
Lev Tov: “L’ha fatto senza esitazione, immagino.”
Tamir: “Senza esitazione. Questa era la politica. Ho
mobilitato la manodopera e le attrezzature necessarie e ho fatto ciò che andava
fatto.”
Tonnellate di documenti chiusi
in casseforti
La cassaforte del Centro di ricerca e documentazione Yad
Yaari si trova nel seminterrato. Nel caveau, che in realtà è una piccola stanza
ben protetta, ci sono pile di scatole contenenti documenti riservati. Gli
archivi contengono documenti del movimento Hashomer Hatzair, del movimento dei kibbutz
Ha’artzi, del Mapam, del Meretz e di altre organizzazioni come Peace Now.
Il direttore dell’archivio è Dudu Amitai, che è anche
presidente dell’Associazione degli Archivisti di Israele. Secondo Amitai, il
personale del Malmab ha visitato regolarmente l’archivio tra il 2009 e il 2011.
Il personale dell’archivio racconta che le squadre del dipartimento di
sicurezza – due funzionari del Ministero della Difesa in pensione senza alcuna
formazione archivistica – si presentavano due o tre volte alla settimana.
Cercavano documenti usando parole chiave come “nucleare”, ‘sicurezza’ e
“censura”, e dedicavano molto tempo alla guerra d’indipendenza e al destino dei
villaggi arabi prima del 1948.
“Alla fine ci hanno presentato un riassunto in cui
dicevano di aver trovato alcune decine di documenti sensibili”, dice Amitai. Di
solito non smantelliamo i fascicoli, quindi decine di fascicoli, nella loro
interezza, sono finiti nella nostra cassaforte e sono stati rimossi dai
documenti accessibili al pubblico”. Un fascicolo può contenere più di 100
documenti.
Uno dei fascicoli che è stato sigillato riguarda il
governo militare che ha controllato la vita dei cittadini arabi di Israele dal
1948 al 1966. Per anni i documenti sono stati conservati nello stesso caveau,
inaccessibili ai ricercatori. Di recente, su richiesta del professor Gadi
Algazi, storico dell’Università di Tel Aviv, Amitai ha esaminato il fascicolo
stesso e ha deciso che non c’era motivo di non sigillarlo, nonostante il
consiglio di Malmab.
Secondo Algazi, ci sono diverse possibili ragioni per la
decisione di Malmab di mantenere il fascicolo segreto. Una di queste riguarda
uno dei documenti contenuti, un allegato segreto a un rapporto di una
commissione che ha esaminato il funzionamento del governo militare. Il rapporto
tratta quasi interamente delle lotte per la proprietà della terra tra lo Stato
e i cittadini arabi, e sfiora appena le questioni di sicurezza.
Un’altra possibilità è un rapporto del 1958 del Comitato
ministeriale che supervisionava il governo militare. In una delle appendici
segrete del rapporto, il colonnello Mishael Shaham, un alto ufficiale del
governo militare, spiega che una delle ragioni per non smantellare l’apparato
della legge marziale era la necessità di limitare l’accesso dei cittadini arabi
al mercato del lavoro e di impedire la ricostruzione dei villaggi distrutti.
Una terza spiegazione che potrebbe rivelare il desiderio
di mantenere segreto questo fascicolo riguarda un resoconto storico inedito
dell’espulsione dei beduini. Alla vigilia della creazione dello Stato di
Israele, quasi 100.000 beduini vivevano nel Negev. Tre anni dopo, il loro
numero era sceso a 13.000. Negli anni precedenti e successivi alla Guerra
d’Indipendenza, nel sud del Paese furono condotte diverse operazioni di espulsione.
In un caso, gli osservatori delle Nazioni Unite hanno riferito che Israele
aveva espulso 400 beduini della tribù Azazma e hanno citato testimonianze di
tende bruciate. La lettera che appare nel file classificato descrive
un’espulsione simile effettuata nel 1956, come racconta il geologo Avraham
Parnes:
“Un mese fa abbiamo visitato [il cratere] Ramon. I
beduini della regione di Mohila sono venuti a trovarci con le loro mandrie e le
loro famiglie e ci hanno chiesto di condividere il loro pasto. Ho risposto che
avevamo molto lavoro da fare e non avevamo tempo. Durante la nostra visita di
questa settimana, ci siamo diretti di nuovo a Mohila. Al posto dei beduini e
delle loro mandrie, c’era un silenzio tombale. Decine di carcasse di cammelli
erano sparse nella zona. Abbiamo appreso che tre giorni prima l’esercito
israeliano aveva “***”. I beduini, e che le loro mandrie erano state decimate:
i cammelli a colpi d’arma da fuoco, le pecore a colpi di granate. Uno dei
beduini, che aveva iniziato a protestare, fu ucciso, gli altri fuggirono”.
La testimonianza prosegue: “Due settimane prima, avevano
ricevuto l’ordine di rimanere dove si trovavano per il momento, dopodiché fu
loro ordinato di andarsene e, per accelerare le cose, furono massacrate 500
teste… L’espulsione fu eseguita ‘in modo efficiente'”.
La lettera prosegue citando ciò che uno dei soldati disse
a Parnes, secondo la sua testimonianza: “Non se ne andranno finché non avremo
distrutto le loro mandrie. Una ragazza di circa 16 anni si è avvicinata a noi.
Indossava una collana di perle di ottone a forma di serpente. La collana fu
strappata via e ognuno di noi ne prese una come souvenir”.
La lettera era stata originariamente inviata al deputato
Yaakov Uri del Mapai (il precursore del Partito Laburista), che l’aveva
inoltrata al Ministro dello Sviluppo Mordechai Bentov (Mapam). “La sua lettera
mi ha scioccato”, ha scritto Uri Bentov. Quest’ultimo ha fatto circolare la
lettera a tutti i ministri del governo, scrivendo: “Sono dell’opinione che il
governo non possa semplicemente ignorare i fatti in essa contenuti”. Bentov ha
aggiunto che, alla luce del contenuto sconcertante della lettera, aveva chiesto
agli esperti di sicurezza di verificarne l’attendibilità. Questi hanno
confermato che il contenuto “è effettivamente, in generale, vero”.
La scusa nucleare
Fu durante il mandato dello storico Tuvia Friling come
archivista capo di Israele, dal 2001 al 2004, che Malmab effettuò le sue prime
incursioni archivistiche. Quella che iniziò come un’operazione per impedire la
fuga di segreti nucleari, dice, alla fine si trasformò in un vero e proprio
progetto di censura.
“Mi sono dimesso dopo tre anni, e questo è uno dei motivi
per cui mi sono dimesso”, spiega il professor Friling. “La classificazione del
documento sull’emigrazione degli arabi nel 1948 è proprio un esempio di ciò che
temevo. Il sistema di archiviazione non è un organo di pubbliche relazioni
dello Stato. Se c’è qualcosa che non ti piace, è la vita. Una società sana
impara anche dai propri errori.”
Perché Friling ha permesso al Ministero della Difesa di
accedere agli archivi? Il motivo, dice, era l’intenzione di rendere accessibili
al pubblico i documenti d’archivio pubblicandoli su internet. Durante le
discussioni sulle implicazioni della digitalizzazione del materiale, si è
temuto che i riferimenti nei documenti a “un certo argomento” potessero essere
resi pubblici per errore. L’argomento, ovviamente, è il progetto nucleare
israeliano. Friling insiste sul fatto che l’unica autorizzazione ricevuta da
Malmab è stata quella di ricercare documenti su questo argomento.
Ma l’attività di Malmab è
solo un esempio di un problema più ampio, osserva Friling: “Nel 1998, la
riservatezza dei [documenti più antichi negli] archivi dello Shin Bet e del Mossad è
scaduta. Per anni, queste due istituzioni hanno ignorato l’archivista capo”.
Quando ho assunto l’incarico, hanno chiesto che la riservatezza di tutto il
materiale fosse estesa [da 50] a 70 anni, il che è ridicolo: la maggior parte
del materiale può essere resa accessibile al pubblico. Nel 2010, il periodo di
riservatezza è stato esteso a 70 anni; lo scorso febbraio, è stato portato a 90
anni, nonostante l’opposizione del Consiglio Supremo degli Archivi. “Lo Stato
può imporre che alcuni dei suoi documenti rimangano riservati”, afferma
Friling. “La questione è se il pretesto della sicurezza non stia fungendo da
copertura. In molti casi, è già diventato una barzelletta”. Secondo Dudu Amitai
degli archivi di Yad Yaari, la riservatezza imposta dal Ministero della Difesa
deve essere messa in discussione. Durante il suo mandato, rivela, uno dei
documenti depositati nel caveau era un ordine impartito da un generale
dell’esercito israeliano durante una tregua durante la Guerra d’Indipendenza,
affinché le sue truppe si astenessero da stupri e saccheggi [indicando che
questi erano all’ordine del giorno]. Amitai intende ora esaminare i documenti
depositati nel caveau, in particolare quelli del 1948, e rendere pubblico tutto
il possibile. “Lo faremo con cautela e responsabilità, ma riconoscendo che lo
Stato di Israele deve imparare a gestire gli aspetti meno edificanti della sua
storia”.
A differenza di Yad Yaari,
dove il personale del ministero non si reca più, a Yad Tabenkin i documenti del
centro di ricerca e documentazione del Movimento Unito dei Kibbutz vengono
ancora attentamente esaminati. Il direttore di questo archivio, Aharon Azati,
ha raggiunto un accordo con lo staff di Malmab affinché i documenti fossero
trasferiti nel caveau solo se fosse stato convinto che fosse giustificato. Ma
anche a Yad Tabenkin, Malmab ha ampliato la sua ricerca oltre il progetto
nucleare, includendo interviste condotte dal personale dell’archivio con ex
membri del Palmach e persino esaminando meticolosamente documenti sulla storia
degli insediamenti nei territori occupati. Malmab, ad esempio, ha espresso
interesse per il libro in lingua ebraica Un decennio di segretezza: la
politica di insediamento dei territori dal 1967 al 1977, pubblicato
da Yad Tabenkin nel 1992 e scritto da Yehiel Admoni, direttore del Dipartimento
per gli Insediamenti dell’Agenzia Ebraica durante il decennio in questione. Il
libro menziona un piano per insediare i rifugiati palestinesi nella Valle del
Giordano e lo sradicamento di 1.540 famiglie beduine dall’area di Rafah, nella
Striscia di Gaza, nel 1972, inclusa un’operazione che prevedeva la chiusura di
pozzi da parte dell’esercito israeliano. Ironicamente, nel caso dei beduini,
Admoni cita l’ex Ministro della Giustizia Yaakov Shimshon Shapira, il quale
afferma: “Non c’è bisogno di andare troppo oltre nella logica della sicurezza.
La vicenda beduina non è un capitolo glorioso dello Stato di Israele”.
Secondo Azati, “Ci stiamo muovendo sempre più verso una
chiusura dei ranghi. Sebbene viviamo in un’era di apertura e trasparenza, a quanto
pare ci sono forze che spingono nella direzione opposta”.
Segretezza illegale
Circa un anno fa, la consulente legale degli Archivi
Nazionali, Naomi Aldouby, ha redatto un parere intitolato “Chiusura non
autorizzata di documenti negli archivi pubblici”. Secondo lei, la politica
relativa all’accessibilità degli archivi pubblici è di esclusiva responsabilità
del direttore di ciascun centro archivistico.
Nonostante l’opinione di Aldouby, nella stragrande
maggioranza dei casi, gli archivisti confrontati con le decisioni irragionevoli
di Malmab non hanno sollevato obiezioni, almeno fino al 2014, quando il
personale del Ministero della Difesa è arrivato agli archivi dell’Harry S.
Truman Research Institute presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. Con
sorpresa dei visitatori, l’allora direttore Menahem Blondheim ha respinto la
loro richiesta di esaminare gli archivi, che contengono collezioni appartenenti
all’ex ministro e diplomatico Abba Eban e al Maggiore Generale (di Riserva)
Shlomo Gazit.
Secondo Blondheim, “Ho detto loro che i documenti in
questione risalivano a decenni fa e che non potevo immaginare che ci fosse un
problema di sicurezza che giustificasse la limitazione dell’accesso ai
ricercatori”. In risposta, hanno chiesto: “E se qui ci fossero testimonianze
che i pozzi siano stati avvelenati durante la Guerra d’Indipendenza?”. Ho
risposto: “In tal caso, i responsabili dovrebbero essere assicurati alla
giustizia”.
Il rifiuto di Blondheim portò a un incontro con un alto
funzionario del ministero, ma questa volta l’atteggiamento che incontrò fu
diverso e gli furono rivolte minacce esplicite. Alla fine, le due parti
raggiunsero un accordo.
Benny Morris non è sorpreso dall’attività di Malmab. “Ne
sono a conoscenza”, ha detto. “Non ufficialmente, nessuno mi ha informato, ma
me ne sono reso conto quando ho scoperto che i documenti che avevo visto in
passato erano ora sigillati. C’erano documenti provenienti dagli archivi
dell’esercito israeliano che avevo usato per un articolo su Deir Yassin, e ora
sono sigillati. Quando sono arrivato agli archivi, non mi è stato più permesso
di vedere gli originali, e così ho annotato in una nota a piè di pagina
[all’articolo] che gli Archivi di Stato mi avevano rifiutato l’accesso ai
documenti che avevo pubblicato 15 anni prima.” »
Il caso Malmab è solo un
esempio della lotta per l’accesso agli archivi in Israele. Secondo il
direttore esecutivo dell’Akevot Institute, Lior Yavne, “Gli archivi delle IDF,
che sono i più grandi in Israele, sono quasi sigillati ermeticamente. Solo l’1%
dei documenti è accessibile. Gli archivi dello Shin Bet,
che contengono documenti di immensa importanza, sono completamente chiusi,
tranne una manciata di essi”.
Shraga Peled, 91 anni, che
lavorava nel servizio informazioni dell’Haganah al
momento del massacro di Deir Yassin, ha riferito di essere stato inviato al
villaggio con una macchina fotografica per documentare ciò che aveva visto.
“Quando sono arrivato a Deir Yassin, la prima cosa che ho visto è stato un
grande albero a cui era legato un giovane arabo. E quell’albero è stato
bruciato in un incendio”. “Lo hanno legato e bruciato. L’ho fotografato”,
racconta. I corpi venivano ammucchiati e bruciati, poi sepolti in modo che la
Croce Rossa non li scoprisse: essendo donne e uomini anziani, non potevano
essere presentati come combattenti. Peled afferma inoltre di aver fotografato
da lontano quello che sembravano alcune decine di altri cadaveri recuperati da
una cava adiacente al villaggio. Ha consegnato il filmato ai suoi superiori,
afferma, e da allora non ha più visto le foto.
Probabilmente perché le foto fanno parte del materiale
visivo che rimane nascosto a tutt’oggi negli archivi delle forze armate
israeliane e del Ministero della Difesa, la cui pubblicazione lo Stato ne
proibisce ancora la pubblicazione. Circa dieci anni fa, Neta Soshani, che stava
girando un film sul massacro di Deir Yassin, aveva presentato una petizione
all’Alta Corte di Giustizia.
Lo Stato ha spiegato che la pubblicazione delle immagini
avrebbe potuto danneggiare le relazioni estere dello Stato e il “rispetto
dovuto ai morti” (una visita al memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem
suggerirebbe che Israele nutra più rispetto per le vittime palestinesi che per
le vittime ebree, che vengono spudoratamente esposte). Nel 2010, dopo aver
visionato le foto, i giudici della Corte Suprema hanno respinto la richiesta,
tenendo il materiale lontano dalla vista del pubblico.
Un rapporto redatto dall’ex archivista capo degli Archivi
di Stato, Yaacov Lozowick, al momento del suo pensionamento, fa riferimento al
controllo degli archivi del Ministero della Difesa. Scrive: “Una democrazia non
dovrebbe nascondere informazioni con la scusa che potrebbero mettere in
imbarazzo lo Stato. In pratica, le agenzie di sicurezza in Israele e, in una
certa misura, le agenzie per le relazioni estere, interferiscono con il
dibattito [pubblico]”.
I sostenitori dell’insabbiamento hanno avanzato diverse
argomentazioni, osserva Lozowick: “Rivelare i fatti potrebbe fornire ai nostri
nemici un ariete contro di noi e indebolire la determinazione dei nostri amici;
rischia di agitare la popolazione araba; potrebbe indebolire le argomentazioni
dello Stato in tribunale; e ciò che viene rivelato potrebbe essere interpretato
come crimini di guerra israeliani”. Ma, continua, “tutte queste argomentazioni
devono essere respinte. È un tentativo di nascondere parte della verità storica
per costruirne una versione più comoda”.
Cosa dice Malmab
Yehiel Horev è stato il
custode dei segreti dell’apparato di sicurezza per oltre vent’anni. Ha diretto
il dipartimento di sicurezza del Ministero della Difesa dal 1986 al 2007 e,
naturalmente, si è tenuto lontano dagli occhi del pubblico. A suo merito, ora
ha accettato di parlare apertamente ad Haaretz del
piano di censura degli archivi.
“Non ricordo quando è iniziato”, dice Horev, “ma so di
averlo iniziato io. Se non sbaglio, è iniziato quando la gente voleva
pubblicare documenti dell’archivio. Abbiamo dovuto istituire delle squadre per
esaminare tutto il materiale che usciva.”
Haaretz: “Dalle conversazioni con i direttori degli archivi, è
chiaro che buona parte dei documenti su cui è stata imposta la segretezza
riguarda la Guerra d’Indipendenza. Occultare gli eventi del 1948 fa parte
dell’obiettivo di Malmab?”
Horev: “Cosa si intende per “parte dell’obiettivo”?
L’argomento viene esaminato in base a un approccio volto a determinare se possa
danneggiare le relazioni estere di Israele e l’apparato di difesa. Questi sono
i criteri. Credo che siano ancora rilevanti. Non c’è stata pace dal 1948.
Potrei sbagliarmi, ma a mia conoscenza, il conflitto arabo-israeliano non è
stato risolto. Quindi sì, potrebbero rimanere questioni problematiche.”
Alla domanda sul perché tali documenti possano essere
problematici, Horev fa riferimento al potenziale di disordini tra i cittadini
arabi del Paese. Dal suo punto di vista, ogni documento deve essere studiato
attentamente e ogni caso deve essere deciso caso per caso, sulla base di
un’analisi rischi-benefici.
Haaretz: “Se gli eventi del 1948 non fossero noti, potremmo effettivamente
pensare che questo approccio sia forse quello giusto: varrebbe la pena porsi la
domanda. Ma non lo è. Numerose testimonianze e studi sono stati pubblicati
sulla storia del problema dei rifugiati. Che senso ha nascondere le cose?”
Horev: “La domanda è se sia dannoso o meno. È un
argomento molto delicato. Non è stato pubblicato tutto sulla questione dei
rifugiati, e ci sono resoconti di ogni tipo. Alcuni sostengono che non ci sia
stata alcuna fuga, solo un’espulsione. Altri sostengono che ci sia stato un
esodo volontario. Non è tutto bianco e nero. C’è una differenza tra la fuga
volontaria e chi afferma di essere stato espulso con la forza. È un’altra
storia. Non posso dire al momento se questo meriti la completa riservatezza, ma
è un argomento che deve essere assolutamente discusso prima di decidere cosa
pubblicare”.
Haaretz: “Per anni, il Ministero della Difesa ha imposto la
riservatezza su un documento dettagliato che descrive le ragioni della partenza
di coloro che sono diventati rifugiati. Benny Morris ha già pubblicato degli
scritti su questo documento, quindi qual è la logica nel tenerlo nascosto?”
Horev: “Non ricordo il documento di cui parli, ma se
Morris ne ha citato un estratto e il documento stesso non è accessibile, allora
le sue affermazioni sono infondate. Se avesse detto: “Sì, ho il documento in
mio possesso”, nessuno avrebbe potuto obiettare. Ma se dicesse che questo
documento esiste da qualche parte senza essere in grado di produrlo, ciò che
dice potrebbe essere vero o falso. Se il documento fosse già in mano pubblica e
sigillato negli archivi, direi che è assurdo. D’altra parte, se qualcuno cita
questo documento, ma rimane riservato, ciò fa una notevole differenza in
termini di validità delle prove citate”.
Haaretz: “In questo caso, è il ricercatore più citato sulla
questione dei rifugiati palestinesi.”
Horev: “Il fatto che tu lo chiami “ricercatore” non mi
impressiona. Conosco accademici che dicono sciocchezze su argomenti che conosco
a menadito. Quando lo Stato impone la riservatezza, il lavoro pubblicato viene
indebolito perché i documenti in questione non sono in loro possesso”.
Haaretz: “Ma nascondere documenti citati nelle note a piè di
pagina nei libri pubblicati non è forse un tentativo di chiudere a chiave la
stalla dopo che i buoi sono scappati?”.
Horev: “Le ho fatto un esempio che dimostra che non è
necessariamente così. Se qualcuno scrive che il cavallo è nero, se il cavallo
non è fuori dalla stalla (e la stalla è chiusa a chiave), non si può dimostrare
che sia davvero nero.”
Haaretz: “Secondo alcuni pareri legali, l’attività di Malmab
negli archivi è illegale e non autorizzata.”
Horev: “Se so che un archivio contiene documenti
classificati, ho l’autorità di ordinare alla polizia di andarci e confiscarli.
Posso anche fare ricorso ai tribunali. Non ho bisogno del permesso
dell’archivista. Se ci sono documenti classificati, ho l’autorità di agire.
Guarda, questa è la politica attuale. I documenti non vengono sigillati senza
motivo. Ma anche così, non ti dirò che tutto ciò che è sigillato è sigillato al
100% per una buona ragione.”
Il Ministero della Difesa ha rifiutato di rispondere a
domande specifiche riguardanti i risultati di questa indagine, limitandosi alla
seguente risposta: “Il direttore della sicurezza dell’Istituto di Difesa agisce
in conformità con la sua responsabilità di proteggere i segreti di Stato e le
sue risorse di sicurezza. Il Malmab non fornisce dettagli sulle sue modalità
operative o sulle sue missioni”.
Fonte: Haaretz, 5 luglio 2019
Hagar Shezaf è una giornalista israeliana del
quotidiano Haaretz. Ha ricevuto vari
riconoscimenti per il suo coraggioso lavoro giornalistico. Ha rivelato
recentemente gli attacchi dei coloni in Cisgiordania e gli abusi, le torture,
gli assassinii di detenuti palestinesi nel carcere di Sde Teiman.
L’originale inglese si può leggere in
Si raccomanda la sua visione
anche per la pubblicazione di foto che mostrano la tragedia del popolo
palestinese. Le foto sono importanti.
La traduzione francese dell’articolo si può leggere in
da qui
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