Israele, la verità proibita.
Le parole che non si possono dire e il coraggio di dirle - Giuseppe Gagliano
Uno sguardo senza sconti su Gaza, la propaganda occidentale e la complicità dell’ipocrisia italiana
Ci sono
parole che pesano come macigni, e nomi che funzionano come barriere semantiche:
appena vengono pronunciati, si attiva un sistema immunitario che sterilizza
ogni possibilità di dibattito. “Genocidio” è una di queste. “Israele” è
l’altra. Quando le due si incontrano nello stesso discorso, il pensiero libero
viene disinnescato, la logica si dissolve, e l’analisi viene ridotta a
insinuazione. Chi osa criticare Israele è etichettato come antisemita, chi
difende i palestinesi è sospettato di appoggiare il terrorismo, chi parla di
crimini di guerra è accusato di odio razziale. In questa zona grigia del
discorso pubblico, la voce di Piergiorgio Odifreddi irrompe con la forza di
un’evidenza che non si può più eludere.
Nel corso di
un’intervista lunga, complessa e senza sconti concessa alla piattaforma Ibex,
Odifreddi smonta, con lucidità chirurgica e rigore logico, le fondamenta del
consenso occidentale attorno a uno degli ultimi progetti coloniali del nostro
tempo: lo Stato d’Israele nella sua configurazione attuale, governato da una
destra ultra-nazionalista, sostenuto militarmente dalle potenze occidentali, e
inchiodato a una strategia che da decenni fa della repressione e della
disumanizzazione la sua grammatica politica.
Dall’utopia sionista al teocratico
colonialismo armato
La prima
frattura intellettuale che Odifreddi affronta è quella tra il progetto sionista
originario e ciò che lo Stato israeliano è diventato. Il sogno di una “terra
per un popolo senza terra” si è rapidamente trasformato, già nel dopoguerra, in
un processo sistematico di espropriazione, sostituzione etnica e annessione.
Una dinamica che nulla ha più a che vedere con l’idea di rifugio o
autodeterminazione, e tutto invece con la logica implacabile di un’espansione
coloniale che ha fatto della Palestina una terra deprivata, disarticolata,
senza continuità geografica, senza risorse proprie, e senza sovranità.
A Gaza, dice
Odifreddi, non si sta combattendo una guerra: si sta portando a compimento, con
strumenti tecnologici del XXI secolo, un modello che ricorda le praterie
dell’Ovest americano nel XVII secolo. La storia è nota, eppure sistematicamente
dimenticata: una popolazione straniera si insedia in una terra già abitata, la
dichiara propria, e attraverso una progressiva ma inesorabile politica di
violenza, espulsione, emarginazione e sterminio, elimina o neutralizza i
nativi. Così avvenne con gli indiani d’America, così – osserva – avviene oggi
con i palestinesi.
E come nel
caso degli Stati Uniti, la memoria del massacro è ricoperta da una retorica di
civilizzazione, di progresso, di diritto alla sicurezza. Il paradosso è che
Israele, come “unica democrazia del Medio Oriente”, mantiene prigioni segrete,
detenzioni amministrative senza processo, torture sistematiche, bombardamenti
su scuole e ospedali. Una democrazia che detiene centinaia di testate nucleari
ma che si arroga il diritto di impedire che altri, come l’Iran, possano anche
solo sognarle.
L’apartheid, parola che brucia
Il termine
“apartheid” – troppo spesso liquidato come iperbole – viene invece riportato da
Odifreddi alla sua cruda precisione: lo usano da anni Nelson Mandela, Desmond
Tutu, Jimmy Carter. Tre figure che hanno conosciuto l’apartheid e il razzismo
sulla propria pelle. Non sono attivisti improvvisati, né ideologi. Sono premi
Nobel per la pace, presidenti, autorità morali. Ma il loro giudizio è stato
rimosso.
Cosa
distingue Gaza e Cisgiordania dalle riserve indiane? Cosa distingue i
checkpoint israeliani dai bantustan del Sudafrica? Cosa distingue il
trattamento riservato ai palestinesi, privati di acqua, libertà di movimento,
accesso alla sanità, istruzione, lavoro, da un regime di apartheid? Nulla. O
meglio: la sola differenza è che nel caso israeliano l’apartheid è protetto,
finanziato, giustificato.
La complicità dell’Occidente e il
silenzio calcolato
Odifreddi
non ha dubbi: Israele è il nostro gendarme regionale, l’avamposto armato
dell’Occidente nel Mediterraneo orientale. Non si tratta di affinità valoriali
ma di interessi geopolitici. Controllare la rotta tra lo Stretto di Hormuz e il
Canale di Suez è vitale per le economie europee, americane, cinesi. Israele è
il garante, armato fino ai denti, che impedisce agli stati arabi di esercitare
pienamente la propria sovranità.
Ecco perché
nessuno parla: perché Israele è parte della catena di comando dell’Occidente. È
il nostro “uomo a Lavana”, la nostra base avanzata, il nostro satellite
strategico. Gli lasciamo tutto, in cambio di tutto. Lo dotiamo di armi,
tecnologie, appalti, software di sorveglianza. Come ricorda Odifreddi, l’Italia
stessa ha aperto i suoi bandi per l’intelligence digitale a imprese israeliane.
E il governo Meloni, nonostante provenga da una tradizione storicamente
filopalestinese, ha voltato le spalle a ogni residuo di dignità diplomatica,
piegandosi alla logica dell’asse atlantico.
Il doppio pesismo e l’inganno morale
Ciò che
rende tutto questo insopportabile – e al contempo invisibile – è il doppio
standard morale. Ci scandalizziamo per le repressioni russe in Cecenia o in
Ucraina, per la censura cinese, per la brutalità saudita, per la corruzione
africana. Ma ci rifiutiamo ostinatamente di applicare gli stessi criteri a
Israele. Come se uno Stato che bombarda ospedali, affama bambini, deporta
civili e cancella interi quartieri potesse comunque rivendicare una superiorità
morale. Come se la Shoah – tragedia incommensurabile della storia umana –
potesse giustificare l’annientamento sistematico di un altro popolo.
Nel
frattempo, in Israele, l’opposizione interna tace o si occupa solo degli
ostaggi. Nessuna mobilitazione paragonabile a quella che portò alla fine dell’apartheid
in Sudafrica. Perché la società israeliana, spiega Odifreddi, è ormai
completamente militarizzata, coesa attorno a un’identità esclusiva e
suprematista, fondata su una narrazione etnica, religiosa e vittimaria.
Destra e sinistra in Italia: l’ipocrisia
bipartisan
Ma anche in
Italia il dibattito è anestetizzato. Le origini storiche contano poco: la
destra, che fu antisionista e filopalestinese, oggi difende Israele in nome
della fedeltà a Washington. La sinistra, che un tempo lottava per l’autodeterminazione
dei popoli, oggi balbetta, si divide, rinuncia. Odifreddi non fa sconti: le
identità politiche si sono sgretolate e ciò che resta è un riflesso
condizionato, in cui la posizione è dettata non da convinzioni ma da alleanze.
Il
risultato? Nessuna piazza che possa unire. Nessun linguaggio condiviso. Nessuna
denuncia pubblica degna di questo nome. Solo una protesta frammentata, isolata,
confinata tra chi viene tacciato di antisemitismo se osa pronunciare la parola
“genocidio”.
La spirale della violenza e la
rimozione della storia
“Genocidio annunciato” è il titolo del libro di Chris
Hedges, cui Odifreddi ha firmato la prefazione. È un’espressione che dice tutto:
non si tratta di un errore, ma di una strategia a lungo termine, in cui ogni
atto è parte di un disegno più ampio. Lo sterminio lento, la riduzione della
Palestina a brandelli, l’espulsione silenziosa, l’umiliazione sistematica. E
dietro a ogni colpo di artiglieria, dietro a ogni casa rasa al suolo, dietro a
ogni bambino sventrato da un drone, c’è una logica che non è follia: è
ideologia, calcolo, volontà di potere.
Odifreddi lo
dice senza ambiguità: il terrorismo, quello palestinese, è anche la conseguenza
di una storia di oppressione, disillusione, negazione dei diritti fondamentali.
Non lo giustifica, ma lo spiega. E lo ricorda con le parole stesse di Mandela:
“ci avete costretti ad arrivare fin qui”.
Ecco perché
oggi, chi tace è complice. Perché il crimine peggiore non è solo uccidere, ma
impedire agli altri di chiamare le cose col loro nome.
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