martedì 10 giugno 2025

Il nuovo album di Anouar Brahem: la poesia del dolore - Raffaello Carabini

 

Un quartetto di musicisti stupendi, guidato dal virtuoso africano dell’oud, ci propone un disco che è un’autentica meraviglia poetica. Da centellinare con gli occhi chiusi e il cuore spalancato.

 

Virtuoso del liuto arabo oud, il tunisino Anouar Brahem è uno dei più sensibili e originali musicisti dell’area mediterranea. Propone un’equilibrata sintesi fra la tradizione, cui è saldamente legato, e il senso della contemporaneità, vivificato dalla naturale curiosità verso diverse culture, non solo musicali. Curiosità che lo porta a collaborare con artisti di varie aree geografiche, fra i quali Manu Dibango e Teresa De Sio (per l’album Ombre Rosse), ma anche con l’ensemble multinazionale Astacus Project, ideato dal percussionista Tony Rusconi e comprendente, fra gli altri, il cantante basco Benat Atchary e il violinista portoghese Carlos Zingaro oppure con l’Orchestre National de Jazz, diretta da Paolo Damiani e con jazzisti come John SurmanPalle DanielssonJack De JohnetteRichard Galliano. Inoltre Brahem vanta una formazione classica, che lo ha portato a diventare anche il direttore dell’orchestra sinfonica di Tunisi.

Tra i suoi numerosi album ci piace ricordare Madar, del 1994, in cui il suo incantevole oud si unisce ai lirici sassofoni del norvegese Jan Garbarek e alle evocative tabla del pakistano Shaukat Hussain: un incontro all’insegna di una musica aperta all’improvvisazione più feconda e ispirata da un dialogo intenso e sincero, dimentico degli “omaggi orientalisti” per evocare un personalissimo scenario interiore.

«Non ho la sensazione, quando lavoro, di prendere dalla tradizione», diceva Brahem, esponendo la sua concezione espressiva, in una vecchia intervista al collega Michele Coralli. «Lavoro secondo le mie concezioni su una musica che sento mia. Naturalmente non si può negare del tutto la tradizione, che ci si porta sempre dentro. Nella musica araba ci sono espressioni diverse, scuole differenti, a seconda della zona geografica: la musica cambia moltissimo dal Medio Oriente all’Andalusia, eppure normalmente viene considerata come appartenente a un unico ceppo, a un unico genere. Ci sono in realtà stili assai diversi, anche a seconda delle sue funzioni, basti pensare alla musica sacra e religiosa. Io ho iniziato un viaggio particolare in mezzo a queste realtà, a partire dalla scuola arabo-andalusa e mediorientale di musica classica. Successivamente ho scoperto altre espressioni e questo è stato un modo per arricchirmi.»

Il viaggio di Brahem era fermo da otto anni, da quando aveva pubblicato Blue Maqams, e ora riprende il suo volo altamente sofisticato e lirico, in cui i legami ancestrali diventano quelli della contemporaneità e della globalità, dove la poesia si coniuga con la sofferenza dell’oggi, dove la classicità colta araba e occidentale, i suoni mediterranei, il jazz più moderno, la tradizione e soprattutto la genialità del compositore si uniscono per proporci a ogni brano una nuova scoperta sonora ed emozionale, un nuovo brivido lungo le vie del cuore e della consapevolezza. Il nuovo album After The Last Sky è un capolavoro senza se e senza ma, intitolato come un verso del poeta palestinese Mahmoud Darwish, che chiede: «Dove dovrebbero volare gli uccelli, dopo l’ultimo cielo?»

La musica di Brahem è sensibile e insieme rigorosa, grazie anche stavolta al contributo di musicisti di altissimo livello mondiale. Sono il contrabbassista Dave Holland, già al suo fianco in Thimar del 1998 (il tunisino cita un celebre claim pubblicitario per definire la loro collaborazione: «il modo in cui suona Dave mi mette le ali»), il pianista Django Bates, anche lui, come Holland, tra i jazzisti inglesi che hanno elaborato un suono dalla flessuosa identità, confrontandosi con la declinazione scandinava, con i suggerimenti francesi e italiani e con la modernità americana, e la splendida violoncellista Anja Lechner, il cui “canto” in bilico tra mille arcobaleni sonori è quasi leggenda.

L’“ultimo cielo” del musicista e compositore nordafricano è quello dove, invece delle migrazioni felici di uccelli multicolori, si muovono troppo rapidi missili, bombardieri e droni portatori di morte e di orrore, di superbia e sopraffazione, il cielo di Gaza, il cielo dell’Ucraina. E l’“ispirazione collettiva” (come ama definire la musica del suo quartetto internazionale) diventa una toccante poesia della sofferenza, un lamento che ha le sfumature del vecchio blues degli schiavi scandito da bassi profondi in Never Forget, dipinge la malinconia di paradisi perduti perché soltanto immaginati nelle lunghe improvvisazioni di The Sweet Oranges Of Jaffa e in Edward Said’s Reverie è dedica allo scrittore americano-palestinese Edward Wadie Sa’id scomparso nel 2003, co-fondatore (con il direttore d’orchestra Daniel Barenboim) della West Eastern Divan Orchestra e teorico dell’“orientalismo”, sorta di esame di coscienza della maniera eurocentrica di affrontare la realtà orientale da parte degli studiosi occidentali.

Ancora l’affannoso Endlessly Wandering ci porta al vociare inascoltato e confuso della ragione e all’urlo muto e irrazionale della folla sofferente, il duetto tra Brahem e Holland di The Eternal Olive Tree sfiora il sublime nel disegnare l’incrociarsi struggente degli archi di tutto il cd, suonati con l’archetto oppure pizzicati oppure quasi strappati, Dancing Under The Meteorite unisce i quattro come un fascio di fiori di campo depositato all’inizio di un sentiero che conduce all’unione tra mente e cuore, seguendo coraggio della buona volontà e la malinconica title track è aperta da un assolo di oud che ci rammenta come i grandi sappiano rendere il virtuosismo funzionale alla narrazione.

Il magnifico, a volte introspettivo altre nostalgico, a volte contemplativo altre vitalistico, universo sapientemente composito di poesia e cultura di Brahem vive un perenne equilibrio di spunti e languori, di discrezione e intensità, in un mondo cameristico eppure senza confini di una bellezza inquieta e totale, compreso tra due brani dove il violoncello è protagonista. A partire dal processionale, vibrante, essenziale inizio di Remembering Hind fino all’assoluto lirismo del conclusivo Vague, in cui Brahem lascia tutto il racconto ai suoi compagni, defilandosi come chi è rimasto senza parole, senza voce di fronte al dramma.

da qui

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