Qualche anno fa a Roma, nel parcheggio attiguo a una di quelle strutture denominate dalle amministrazioni pubbliche “residence” ma che tutto possiedono al loro interno fuorché servizi, comodità, spazio e manutenzione, si era fermata a vivere una famiglia di sinti napoletani. La loro epopea aveva avuto inizio molti anni prima, quando erano stati sgomberati da un campo poco fuori il comune di Napoli. Da tempo, ormai, avevano deciso che la loro casa sarebbe diventata l’unica cosa che possedevano, ossia il camper. Da qui, si dicevano, non possono sgomberarci. In parte era vero, in parte no.
All’alba una pattuglia della polizia si
accostò accanto al camper con le sirene spiegate. Chiesero i documenti al padre
e dopo un rapido controllo trovarono dei vecchi precedenti. Erano passati dieci
anni da quando aveva scontato l’ultimo giorno di galera e, nel frattempo, gli
erano nati tre figli, aveva iniziato un nuovo lavoro e aveva cambiato città.
Ma aver scontato una pena non bastava a
cancellare la sua presunta pericolosità, anzi, in qualche modo ne costituiva
una conferma. Fu così che l’uomo ricevette un foglio, che scoprì poi essere un
foglio di via obbligatorio, ovvero una misura limitativa della libertà di
movimento di natura amministrativa prevista dall’articolo 2 del decreto
legislativo 159/2011 (conosciuto come Codice antimafia e delle misure
di prevenzione). Lo strumento agisce preventivamente, nel senso che
non occorre aver commesso un reato, basta essere considerato un soggetto
pericoloso tanto da impedirgli il ritorno in un determinato luogo fino a un
massimo di tre anni.
Mesi dopo ripassai davanti a quel
parcheggio, quella famiglia era scomparsa, ma di camper simili ne tornarono a
decine. Avevano appena sgomberato altre aree della città e le persone, non
sapendo dove andare, si rifugiarono nel luogo più vicino.
Dal 2011 a oggi è stato fatto un utilizzo
esplicitamente politico di questo strumento preventivo: non solo persone senza
casa, ma anche militanti che protestano davanti alle carceri, attivisti del
clima, lavoratori in sciopero sono solo alcune delle categorie colpite. Un
provvedimento che ha le sue origini nel fascismo (il confino per gli oppositori
politici) e che si è adattato alle maglie larghe di questo stato di diritto,
finendo per censurare, controllare e intimidire il dissenso.
Come ha spiegato bene l’avvocato Nicola
Canestrini sono misure “basate sul sospetto: prevedere il futuro e
sulla base di questo giudizio prognostico stabilire la probabilità, la
possibilità che un soggetto sia pericoloso e quindi evitare che commetta dei
reati. Un po’ come in Minority Report con Tom Cruise,
dove i Precog dicevano quello che succedeva. Ma nella realtà è
assai più preoccupante: sono misure che incidono moltissimo sulla libertà delle
persone, la libertà di movimento, circolazione, proprietà”.
Evidentemente non era abbastanza. Nel 2017
è stato introdotto un ulteriore strumento giuridico finalizzato a garantire
l’ordine pubblico e la sicurezza: il Divieto di accesso a spazi
pubblici (Daspo urbano), simile al Daspo sportivo ma adattato ai contesti
cittadini.
Considerato meno afflittivo del foglio di
via obbligatorio, in quanto pregiudica l’ingresso solo a determinate aree della
municipalità e perché la sua violazione non comporta un illecito penale ma una
sanzione amministrativa pecuniaria (fino a trecento euro), in realtà evidenzia
una preoccupante tendenza: l’amministrativizzazione del diritto penale; che,
come spiega Federica Borlizzi riprendendo l’analisi del
giurista Luigi Ferrajoli, “nasconde la consapevolezza del
legislatore di poter giocare sul nomen iuris delle sanzioni,
con delle misure afflittive denominate ‘amministrative’ che, tuttavia, nella
sostanza costituiscono delle vere e proprie pene”.
Per quanto ampia e discrezionale
l’applicazione di questi strumenti sia, tuttavia, non sono sembrati abbastanza all’attuale ministero
dell’Interno che, se possibile, è riuscito nell’impresa di portare
alle estreme conseguenze la possibilità di decidere su chi ha il diritto di
vivere nelle nostre città. L’istituzione delle cosiddette zone
rosse si inserisce in una logica strutturale di gestione urbana che
promuove metropoli sempre più disgregate al loro interno, con interi quartieri
commissariati e residenti colpevolizzati in base a fasce d’età, classe sociale
e background migratorio.
Attivate prima a Bologna e
poi a Firenze negli ultimi mesi del 2024, le zone rosse hanno
comportato l’allontanamento di centinaia di persone dai Comuni in cui erano
solite abitare o semplicemente stare. È la presenza stessa a essere
punita, l’esistenza in quanto essere umano che copre con il proprio corpo un
segmento di spazio urbano: lo chiarisce bene la circolare del prefetto
di Milano del 27 dicembre scorso che, istituendo la zona rossa anche
nel capoluogo lombardo, intende “fronteggiare la presenza di soggetti
molesti e aggressivi, dediti alla commissione di reati e non in regola con la
normativa in materia di immigrazione, tale da incidere negativamente
sulla percezione di sicurezza dei cittadini e dei turisti che fruiranno di
quelle aree”.
L’entusiasmo del ministro
Piantedosi rispetto al moltiplicarsi delle zone rosse in Italia (dopo Bologna e Firenze anche Milano,
Napoli e Roma) si percepisce dal tono esaltato di
queste sue dichiarazioni: “Da quando l’ho emanata ci sono stati seicentomila
identificazioni e cinquemila allontanamenti, che hanno portato a numerosi
arresti e rimpatri. Sono numeri importanti che testimoniano il valore positivo
dell’iniziativa, peraltro molto apprezzata dai cittadini” (Il Messaggero
Veneto, 3 giugno).
A chi fa notare al ministro che c’è un
rischio ghettizzazione nei territori colpiti dal provvedimento, Piantedosi risponde:
“La ghettizzazione avviene quando si verifica l’assenza di iniziative dello
Stato. La presenza delle forze di polizia è stata sempre molto ambita sotto
ogni latitudine e chi sostiene il contrario lo fa solo per un pregiudizio
ideologico che non trova corrispondenza nelle aspirazioni dei cittadini. C’è
chi vorrebbe attenuare la presenza dello Stato invece di rafforzarla. Sono le
posizioni di chi guarda con ostilità alle forze di polizia. Noi pensiamo
esattamente l’opposto. Più polizia c’è sul territorio e meglio è».
Tra le risposte più inquietanti c’è quella
che riguarda i tempi. Poiché se le zone rosse sono prorogabili quando
le circostanze lo richiedono, di fatto, è ipotizzabile che esse possano
durare senza alcun tipo di limitazione: “Si va avanti finché serve”, chiosa il
capo del Viminale.
Mentre il governo tira dritto, costruendo
tramite decreti e circolari prefettizie città punitive, c’è però chi si oppone
e reagisce. Nei giorni scorsi, infatti, è stato presentato presso il Tribunale
Amministrativo Regionale di Napoli il ricorso per
l’annullamento dell’ordinanza del prefetto che proroga per ulteriori tre mesi
il divieto di stazionamento in ampie aree del centro cittadino per soggetti ritenuti
“aggressivi, minacciosi o insistentemente molesti”, in base a semplici
segnalazioni di polizia. Tra i ricorrenti compaiono associazioni come A
Buon Diritto, ASGI, Libridazioni, ma anche cittadini e
residenti nelle zone colpite dal provvedimento, rappresentanti istituzionali e
spazi sociali.
«Il ricorso – spiega l’avvocata Stella
Arena – è stato redatto con la collaborazione di Andrea
Eugenio Chiappetta, dottorando di ricerca in diritto costituzionale,
rispondendo a un’esigenza venuta dal basso: le realtà che insistono nelle aree
della città indicate nell’ordinanza prefettizia, e che in città stabilmente
lavorano per dare risposte di inclusione (oltre che culturali e sociali) hanno
ritenuto necessario auto-convocarsi e rispondere legalmente a quella che
ritengono una limitazione dei diritti costituzionalmente garantiti. Il
provvedimento impugnato fonda l’adozione di misure limitative delle libertà
fondamentali sulla base di meri indizi o segnalazioni, senza la necessità di un
accertamento giudiziario, configurando una presunzione di pericolosità che è
giuridicamente inammissibile».
L’udienza del ricorso è fissata per il 17
giugno, data in cui il Tar potrebbe quindi annullare un’ordinanza che è lesiva
dei principi fondamentali di un ordinamento democratico. Come spiega la
rete No alle zone rosse di Napoli, infatti, questo
dispositivo può riguardare chiunque – da piazza Garibaldi a via
Mezzocannone, da piazza Bellini a molte altre aree ancora
– venga ritenuto un ostacolo all’accessibilità e alla fruizione delle stesse,
sia colto in stato di manifesta ubriachezza o a compiere atti contrari alla
pubblica decenza; pratichi accattonaggio; sia stato segnalato per reati
in materia di stupefacenti, contro la persona, predatori, invasioni di terreni
o edifici, porto abusivo di armi o oggetti atti a offendere. La rete, che
comprende anche molti spazi liberati che provano a resistere e difendere chi
abita la città, attende. Nel frattempo, si è mobilitata affinché più cittadini
possibili sappiano che cosa significa passeggiare all’interno di una zona
rossa.
Se vieni allontanato e non sai il perché,
è molto probabile che la ragione non esista.
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