Il governo
rifiuta la tassa globale sui super-ricchi. Così l’Italia rinuncia a miliardi
che servirebbero a sanità, scuola e giustizia sociale
Nell’arco di
dieci anni, l’1% più ricco della popolazione globale ha aumentato la propria
ricchezza di 33.900 miliardi di dollari – più di venti volte il necessario per
eliminare la povertà estrema nel mondo. I soli miliardari hanno guadagnato
6.500 miliardi, pari al 14,6% dell’intero Pil globale.
Un’accumulazione senza precedenti che coincide con la crescita della miseria
per miliardi di persone. Oggi, oltre 3,7 miliardi di individui sopravvivono con
meno di 8,30 dollari al giorno.
La
disuguaglianza non è un effetto collaterale. È un prodotto sistemico,
alimentato da un’architettura fiscale pensata per favorire i più ricchi. In
alcuni Paesi, come il Regno Unito, l’aliquota effettiva
pagata dai miliardari si aggira attorno allo 0,3% della loro ricchezza, meno di
quanto versa in proporzione un infermiere.
Il
grande rifiuto italiano
Di fronte a
questo scenario, Brasile, Spagna, Germania e Sudafrica hanno
promosso al G20 una proposta concreta: una tassa minima
globale del 2% sui patrimoni superiori a un miliardo di dollari, in grado di
generare 250 miliardi di dollari ogni anno. L’Italia ha scelto di
sfilarsi. Il governo Meloni ha rifiutato di aderire alla coalizione,
mantenendo invece un regime fiscale agevolato per attrarre ricchi stranieri –
come la tassa fissa da 200.000 euro annui introdotta nel 2017 e confermata nel
2024.
Le ragioni
addotte dal ministro Giancarlo Giorgetti mescolano sovranità
nazionale e tecnicismi dilatori: prima si deve attuare la tassazione delle
multinazionali (attualmente bloccata), poi – forse – si potrà discutere dei
miliardari. Una strategia attendista che ha l’effetto pratico di mantenere lo
status quo.
Il
paradosso fiscale italiano
Il sistema
tributario italiano, secondo i dati della Banca d’Italia e
delle università di Pisa e Milano-Bicocca, è progressivo solo in apparenza. Chi
guadagna oltre 500.000 euro l’anno paga in proporzione meno tasse di un quadro
aziendale da 60.000 euro. Il motivo è semplice: il lavoro viene tassato fino al
43%, mentre i redditi da capitale – cioè quelli di cui vivono i ricchi –
scontano una cedolare secca del 26% o meno. Risultato: i dieci miliardari
italiani più ricchi – con un patrimonio stimato a 155 miliardi di euro –
possiedono più della metà della ricchezza detenuta da 30 milioni di cittadini.
Il
costo dell’ingiustizia
Non tassare
i miliardari ha un costo altissimo. Se l’Italia adottasse l’aliquota minima del
2%, il gettito stimato sarebbe di 8 miliardi di euro annui. Salendo al 3%, si
arriverebbe a 15 miliardi. Fondi che potrebbero essere destinati a sanità,
istruzione e transizione ecologica. Invece, il nostro Paese resta inchiodato a
un welfare sottofinanziato e a un’istruzione che amplifica – anziché correggere
– le disuguaglianze.
Secondo il
Censis, oltre il 50% degli italiani ritiene che lo Stato garantisca solo i
servizi essenziali. E più della metà dei genitori è convinta che i propri figli
avranno una vita economicamente peggiore. Un dato che certifica il blocco
dell’ascensore sociale e la rottura del patto democratico tra cittadini e
istituzioni.
Tassare
è democrazia
La proposta
di Oxfam e Zucman non è solo una misura
fiscale. È un’azione politica per restituire legittimità e potere agli Stati,
ridurre la disuguaglianza e ricostruire una coesione sociale in frantumi. Ma,
come ha dichiarato Francesco Petrelli di Oxfam Italia, «senza
il coraggio di alleanze strategiche per una tassazione più equa, il rischio è
un futuro in cui la povertà sarà una condizione permanente».
Nel 2025,
solo il 16% degli obiettivi globali di sviluppo sostenibile è sulla buona
strada. E mentre l’1% globale si prepara al traguardo del primo trilionario,
gli Stati tagliano gli aiuti internazionali: solo nel G7, i fondi per lo
sviluppo saranno ridotti del 28% entro il 2026.
Di fronte a
un sistema in cui i ricchi crescono e gli Stati arretrano, la tassazione
progressiva non è un’opzione ideologica, ma una necessità strutturale.
Rifiutarla, come fa oggi l’Italia, significa scegliere di non vedere il legame
diretto tra disparità fiscale e disuguaglianza sociale. E significa abdicare,
ancora una volta, al compito fondamentale della politica: redistribuire il
potere, e non solo la ricchezza.
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