martedì 1 luglio 2025

Il mio viaggio per ottenere aiuti a Gaza è stato come uno “squid game” - Yousef al-Ajouri


Andare al centro di distribuzione degli aiuti finanziato dagli Stati Uniti è stato il giorno più duro della mia vita. Non ho mai provato un’umiliazione simile.

 

Nota dell’editore: il seguente racconto personale di Yousef al-Ajouri, 40 anni, è stato raccontato al giornalista palestinese e collaboratore di MEE Ahmed Dremly a Gaza City. È stato modificato per brevità e chiarezza.

 

“I miei figli piangono sempre per la fame. Vogliono pane, riso, qualsiasi cosa da mangiare.

Non molto tempo fa, avevo scorte di farina e altri alimenti. Sono finite tutte.

Ora dipendiamo dai pasti distribuiti dalle mense di beneficenza, di solito lenticchie. Ma non bastano a saziare la fame dei miei figli.

Vivo con mia moglie, i miei sette figli, mia madre e mio padre in una tenda ad al-Saraya, vicino al centro di Gaza City.

La nostra casa nel campo profughi di Jabalia è stata completamente distrutta durante l’invasione della Striscia di Gaza settentrionale da parte dell’esercito israeliano, nell’ottobre 2023.

Prima della guerra facevo il tassista. Ma a causa della scarsità di carburante e del blocco israeliano, ho dovuto smettere di lavorare.

Da quando è iniziata la guerra non sono mai andato a ritirare pacchi di aiuti, ma ora la fame è insopportabile. 

Così ho deciso di recarmi al centro di distribuzione degli aiuti della Gaza Humanitarian Foundation, sostenuto dagli americani , sulla Salah al-Din Road, vicino al corridoio di Netzarim.

Avevo sentito dire che era pericoloso e che c’erano morti e feriti, ma ho deciso di andarci comunque.

Qualcuno mi ha detto che se ci andavo una volta ogni sette giorni, avrei potuto trovare provviste sufficienti per sfamare la famiglia per una settimana.


Percorso mortale e al buio

Erano circa le 21:00 del 18 giugno quando ho sentito degli uomini nella tenda accanto che si preparavano a dirigersi verso il centro di soccorso.

Ho detto al mio vicino della tenda accanto, Khalil Hallas, di 35 anni, che volevo unirmi a loro.

Khalil mi ha detto di prepararmi indossando abiti comodi, così da poter correre facilmente.

Ha consigliato di portare una borsa o un sacco per trasportare il cibo in scatola e confezionato. A causa del sovraffollamento, nessuno riesce a trasportare le scatole in cui  arrivano ​​gli aiuti.

Mia moglie Asma, 36 anni, e mia figlia Duaa, 13 anni, mi hanno incoraggiato a intraprendere questo viaggio.

Avevano sentito che anche le donne avrebbero ricevuto aiuti e volevano unirsi a me. Ho detto loro che era troppo pericoloso.

Sono partito con altri cinque uomini del mio campo, tra cui un ingegnere e un insegnante. Per alcuni di noi era la prima volta.

Viaggiavamo su un tuk-tuk – l’unico mezzo di trasporto nel sud di Gaza, insieme a carretti trainati da asini e cavalli – con un totale di 17 passeggeri. Tra questi c’erano bambini di 10 e 12 anni.

Un giovane a bordo del veicolo, che aveva già fatto il viaggio in precedenza, ci ha detto di non prendere la strada ufficiale indicata dall’esercito israeliano. Ha detto che era troppo affollata e che non avremmo ricevuto alcun aiuto.

Ci ha consigliato di prendere un percorso alternativo non lontano dal sentiero ufficiale.

Il tuk-tuk ci ha lasciato a Nuseirat, nel centro di Gaza, e da lì abbiamo camminato per circa un chilometro verso Salah al-Din Road.

Il viaggio è stato estremamente difficile e al buio. Non potevamo usare torce, altrimenti avremmo attirato l’attenzione dei cecchini israeliani o dei veicoli militari.

 

C’erano alcune zone esposte e aperte che abbiamo attraversato strisciando sul terreno.

Mentre strisciavo, mi sono voltato e, con mia sorpresa, ho visto diverse donne e anziani che stavano percorrendo lo stesso pericoloso cammino che stavamo percorrendo noi.

A un certo punto, intorno a me, ho sentito una raffica di spari. Ci siamo nascosti dietro a un edificio distrutto.

Chiunque si muovesse o facesse un movimento evidente veniva immediatamente colpito dai cecchini.

Accanto a me c’era un ragazzo alto e biondo che usava la torcia del suo telefono per orientarsi.

Gli altri gli hanno urlato di spegnerlo. Pochi secondi dopo, è stato colpito.

E’ crollato a terra ed è rimasto lì sanguinante, ma nessuno ha potuto aiutarlo o spostarlo. E’ morto in pochi minuti.

Alcuni uomini lì vicino hanno coperto il suo corpo con il sacco vuoto che aveva portato  con sé per riempirlo scatolame. Ho visto almeno altri sei martiri riversi a terra.

Ho anche visto feriti tornare indietro nella direzione opposta. Un uomo sanguinava dopo essere caduto ed essersi ferito una mano sul terreno accidentato.

Anch’io sono caduto un paio di volte. Ero terrorizzato, ma non c’era modo di tornare indietro. Avevo già superato le zone più pericolose e ora il centro di soccorso era in vista.

Avevamo tutti paura. Ma eravamo lì per dare da mangiare ai nostri bambini affamati.


Lotta per il cibo

Erano quasi le 2 di notte, quando mi è stato comunicato che era consentito l’accesso al centro di assistenza.

Ed ecco che, qualche istante dopo, una grande luce verde ha illuminato il centro in lontananza, segnalando che era aperto.

La gente ha cominciato a correre verso di esso da ogni direzione. Io ho corso il più velocemente possibile

Sono rimasto scioccato dalla folla enorme. Avevo rischiato la vita per arrivare presto, eppure, in qualche modo, migliaia di persone erano arrivate prima di me.

Ho iniziato a chiedermi come fossero arrivati ​​lì.

 

Avevano collaborato con i militari? Erano stati autorizzati a raggiungere per primi gli aiuti e a prendere quello che volevano? O avevano semplicemente corso gli stessi nostri rischi, se non addirittura maggiori,?

Ho provato ad avanzare, ma non ci sono riuscito. Il centro non era più visibile, a causa della folla.

La gente si spingeva e si accalcava, ma ho deciso che dovevo farcela, per i miei figli. Mi sono tolto le scarpe, le ho messe nella borsa e ho iniziato a farmi strada a forza.

C’erano delle persone sopra di me e io ero sopra gli altri.

Ho notato una ragazza che stava soffocando, schiacciata dalla folla. Le ho afferrato la mano e l’ho spinta fuori.

Ho iniziato a cercare gli scatoloni degli aiuti, e ho afferrato un sacchetto che sembrava riso. Ma proprio mentre lo facevo, qualcun altro me lo ha strappato dalle mani.

Ho cercato di resistere, ma lui ha minacciato di accoltellarmi. La maggior parte delle persone lì aveva coltelli, per difendersi o per derubare gli altri.

Alla fine sono riuscito a prendere quattro lattine di fagioli, un chilo di bulgur e mezzo chilo di pasta.

In pochi istanti, gli scatoloni si sono svuotati. La maggior parte delle persone presenti, comprese donne, bambini e anziani, non ricevette nulla.

Alcuni imploravano gli altri di condividere. Ma nessuno poteva permettersi di rinunciare a ciò che era riuscito a ottenere.

Sono stati presi anche gli scatoloni vuoti e i pallet di legno, per usarli come legna da ardere per cucinare.

Chi non aveva ricevuto nulla ha cominciato a raccogliere la farina e i cereali da terra, cercando di recuperare ciò che era caduto durante il caos.


I soldati guardavano e ridevano

Ho girato la testa e ho visto dei soldati, forse a 10 o 20 metri di distanza.

Parlavano tra loro, usavano i loro telefoni e ci filmavano. Alcuni ci puntavano addosso le armi.

Mi è venuta in mente una scena del programma televisivo sudcoreano Squid Game , in cui uccidere era un intrattenimento, un gioco.

Venivamo uccisi non solo dalle loro armi, ma anche dalla fame e dall’umiliazione, mentre loro ci guardavano e ridevano.

Ho iniziato a chiedermi: ci stavano filmando? Stavano forse assistendo a questa follia, a come alcuni sopraffacevano gli altri, mentre i più deboli non ottenevano nulla?

Abbiamo lasciato la zona non appena le scatole si sono svuotate.

 

Pochi minuti dopo, sono state lanciate in aria granate fumogene rosse. Qualcuno mi ha detto che era il segnale di evacuare la zona. Dopodiché, è iniziato un intenso fuoco nemico.

Io, Khalil e pochi altri ci siamo diretti all’ospedale al-Awda di Nuseirat perché il nostro amico Wael si era ferito alla mano durante il viaggio.

Sono rimasto scioccato da ciò che ho visto in ospedale. C’erano almeno 35 martiri che giacevano morti a terra in una delle stanze.

Un medico mi ha detto che erano stati tutti portati lì lo stesso giorno. Erano stati colpiti alla testa o al petto mentre erano in coda vicino al centro di soccorso.

Le loro famiglie li aspettavano di ritorno con cibo e ingredienti. Ora erano cadaveri.

Ho iniziato a crollare, pensando a queste famiglie. Mi sono chiesto: perché siamo costretti a morire solo per sfamare i nostri figli?

In quel momento ho deciso che non sarei mai più andato al centro di distribuzione.


Una morte lenta

Siamo tornati indietro in silenzio e sono arrivato a casa verso le 7:30 di giovedì mattina.

Mia moglie e i miei figli mi stavano aspettando, sperando che fossi sano e salvo e che avessi portato del cibo.

Si sono arrabbiati quando hanno visto che ero tornato con quasi nulla.

È stato il giorno più difficile della mia vita. Non mi sono mai sentito così  umiliato come quel giorno.

Spero che il cibo possa arrivare presto ed essere distribuito in modo rispettoso, senza umiliazioni e uccisioni. Il sistema attuale è caotico e mortale.

Non c’è giustizia. La maggior parte di noi  finisce per non avere nulla, perché non c’è un sistema organizzato e gli aiuti sono troppo pochi per troppe persone.

Sono certo che Israele voglia che questo caos continui. Sostengono che questo metodo sia il migliore perché, altrimenti, Hamas si approprierebbe degli aiuti.

Ma io non sono Hamas, e nemmeno molti, molti altri lo sono. Perché dovremmo soffrire? Perché dovremmo vederci negare gli aiuti a meno che di rischiare la vita per ottenerli?

A questo punto, non mi interessa nemmeno se la guerra continua: ciò che conta è che il cibo arrivi, così che possiamo mangiare.

Mio figlio, Yousef, ha tre anni. Si sveglia piangendo, dicendo che vuole mangiare. Non abbiamo niente da dargli. Continua a piangere finché non si stanca e tace.

Mangio una volta al giorno, o a volte niente, così i bambini possono mangiare.

Questa non è vita. Questa è una morte lenta.”

Traduzione a cura di Grazia Parolari

da qui

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