Come sarà il mondo di domani? Gran parte di esso, oltre la metà, sarà come è adesso Gaza e come era stata, ormai quasi un secolo fa e oltre, gran parte della comunità ebraica europea. Si sta avverando la tremenda profezia di Primo Levi: è successo, può succedere ancora.
Intere
popolazioni, giudicate superflue o dannose, si ritroveranno rinchiuse entro confini
invalicabili, senza poter andare altrove perché nessuno le vuole, condannate
allo sterminio con bombardamenti, cacce all’uomo, o per fame, sete, malattie
non curate, accampate
in territori lunari perché tutto quello che avevano deve essere distrutto per
comprometterne la sopravvivenza. Gaza – come ha rilevato Ida Dominijanni (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/06/04/gaza-laboratorio-del-nostro-futuro/) – è un esperimento per
abituare i popoli a convivere con lo sterminio altrui e ad accettarlo come
inevitabile; proprio come i governi dell’Unione Europea e degli Stati Uniti
stanno abituando anno dopo anno i loro cittadini – noi – a convivere e ad
abituarsi allo stillicidio di rastrellamenti, deportazioni, annegamenti, morti,
torture, violenze di ogni genere inflitte alle “genti in cammino” (people on
the move) che cercano di abbandonare le loro terre di origine perché lì la
vita è diventata impossibile, ma che nessun altro Paese accetta, se non per il
tempo necessario a spremere dai loro corpi, dalle loro famiglie, dalle loro
vite, tutto quello di cui è ancora possibile appropriarsi.
Fantapolitica?
No, semplice previsione di quello che non vogliono farci vedere i nostri
governanti, i media
che li assecondano, gli accademici e gli intellettuali che chiudono gli
occhi. Entro la fine del secolo – ne abbiamo già consumato un quarto –
più di metà della Terra sarà inabitabile: qualunque provvedimento venga
preso oggi, i ghiacci delle calotte polari e dei ghiacciai continueranno a
sciogliersi, il livello del mare a crescere e gran parte delle terre costiere,
con il loro entroterra, verranno sommerse. I fiumi cesseranno di scorrere
regolarmente, alternando piene devastanti a periodi di siccità, i raccolti
continueranno a soffrirne, le foreste a bruciare senza acqua per spegnerle, le
epidemie a imperversare. Crisi climatica e ambientale e migrazioni sono
strettamente connesse: più si faranno sentire gli effetti della prima,
destinati a crescere, più il numero dei profughi ambientali aumenterà in modo
esponenziale. Ad accrescerne gli effetti concorrono poi le guerre a cui i
governi di tutto il mondo stanno destinando i fondi che hanno negato e
continuano a negare alla “transizione” (in realtà, alla conversione ecologica,
che non è solo un processo tecnico ed economico, ma anche e soprattutto
culturale, sociale, morale e democratico e che per questo viene osteggiata con
sempre maggior ipocrisia).
Gaia Vince (Il
secolo nomade, Bollati Boringhieri, 2023) e Parag Khanna (Il
movimento del mondo, Fazi, 2023), due studiosi che hanno cercato di
guardare il futuro, concordano nel delineare un panorama come questo, ma loro
sono ottimisti. Vince immagina che metà della popolazione mondiale, in fuga
dalle terre di origine, troverà ospitalità nelle aree subartiche del pianeta,
rese fertili e praticabili dal riscaldamento globale; le migrazioni giovano sia
a chi le fa che a chi le accoglie, sostiene. Inoltre, tra un secolo la
geo-ingegneria potrà restituire poco per volta vivibilità al pianeta devastato.
Khanna, altrettanto fiducioso nei benefici della tecnologia, sostiene che essa
– grazie soprattutto ad aria condizionata, colture idroponiche, desalinatori,
energie rinnovabili e molto denaro – creerà isole vivibili anche in aree
desertiche, enclave aperte alle persone dotate di
professionalità e spirito di iniziativa, provenienti da tutte le parti del
mondo. Per tutti gli altri, quelli non qualificati, la recuperata vivibilità
delle aree subartiche offrirà comunque l’opportunità di una vita da schiavi.
Nessuno dei due prende però in considerazione che l’alternativa possa essere
invece uno scenario “alla Gaza”.
Ma questo
è. Come pensiamo che possano sopravvivere in territori devastati dalla
catastrofe climatica e ambientale le popolazioni che li abitano oggi? Dove
pensiamo che possano trasferirsi, senza essere respinti, tutti coloro che “a
casa loro” non potranno più vivere? O addirittura che una casa loro non
l’avranno più, perché sommersa dalle acque, o bruciata dalla siccità o dagli
incendi? E come pensiamo che reagiranno i governi dei Paesi –
“sviluppati” o no che siano – nei quali cercheranno rifugio quelle popolazioni
tutte intere, se già ora, di fronte all’arrivo alla spicciolata delle
avanguardie di quelle genti in cammino, i governi degli Stati forti
mettono in atto politiche di respingimento basate sempre più sugli strumenti e
le modalità della guerra? La vera guerra a cui ci stanno preparando.
Se proiettate su uno scenario di lungo periodo – quello in cui, diceva Keynes,
siamo tutti morti – le misure per respingere i migranti adottate oggi
dai governi appaiono sì ciniche e spietate, ma anche risibili e inadeguate. Ma
in realtà fungono da scuola per addestrare tutti noi ad accettare come normali
quelle politiche di sterminio: esattamente come ci succede per Gaza.
Ovviamente
tutto questo ha delle ripercussioni anche sugli Stati che “si difendono
dall’invasione” dei profughi: militarizzazione, sospensione o abolizione di diritti
e welfare, violazione delle convenzioni, razzismo di Stato e fascismo. Gli
Stati Uniti di Trump stanno aprendo la strada a tutti gli altri Stati, retti da
tempo da governanti che aspettavano solo di dovergli “baciare il culo”.
D’altronde la strada è quella anche senza Trump.
Di fronte a
prospettive del genere, purtroppo evidenti, l’inerzia nei confronti
della crisi climatica e ambientale mostrata dai nostri governanti – tutti
proiettati a combatterne le conseguenze e non le cause – ma anche quella dei
popoli, cioè di noi tutti, sembra paradossale. Ma si spiega con il senso di
impotenza che tutti – governi e forze politiche comprese – avvertono anche se
cercano in tutti i modi di non prenderne atto. È la dismisura tra le dimensioni
di questi processi e la capacità di agire di una popolazione atomizzata, senza
riferimenti culturali, sociali e politici condivisi, se non quelli “di piccola
e piccolissima taglia”: le mille associazioni e comitati a cui molti di noi
partecipano senza trovare alcun riscontro nel mondo della politica.
Potremmo
però indirizzarle meglio, quelle pratiche, per costruire le ridotte da cui
affrontare il futuro feroce che incombe: rendere il più possibile resilienti e vivibili i
territori che abitiamo, mostrare che l’accoglienza – anche su scala ridotta –
può tradursi in benefici per tutti, far conoscere e valorizzare le esperienze
positive, battersi in tutti i modi per il disarmo. Troppo poco? E che altro,
per ora?
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