Ripensandoci, credo che la vergogna sia una cosa molto più importante e più positiva dell'indignazione! Certo, si mischia con i sensi di colpa che hai magari introiettato da una cultura bigotta e oppressiva, com'è in generale quella cattolica, ma anche i sensi di colpa hanno la loro ragion d'essere se non ti sopraffanno. E se non te li fanno collocare nei posti sbagliati! Un prete che ho conosciuto nella mia infanzia -don Rughi, fondatore di Leghe bianche dei contadini in Umbria, confinato dal fascismo e dalla chiesa in una miserrima parrocchia di montagna dove vivevano di miei zii, e che, vecchio e poverissimo, vidi alla testa del primo corteo del primo maggio dell'Italia liberata con un fazzoletto rosso al collo- mi disse rozzamente una volta che il peccato mortale più mortale di tutti non sta tra le gambe, ma dietro, nel portafogli! Anche dell'indignazione ho imparato a diffidare. Il mondo di oggi, l'Italia di oggi, sono stracolmi di gente che si indigna, registi e giornalisti, presentatori televisivi e politici, signori e signore di successo e comuni cittadini. L'indignazione è una merce molto facile da usare, anche perché ti fa sentire dalla parte della ragione e ti dà un nemico con cui prendertela, ti evita di fare i conti con te stesso, con le tue complicità, le tue menzogne. Per me l'indignazione è venuta dopo, motivata dalle ingiustizie subite dagli altri, perché io non mi sentivo affatto vittima di ingiustizia e ho sempre avuto ben chiari i privilegi di cui godevo, nonostante le mie origini non certo privilegiate. In me ha agito molto più fortemente il sentimento della vergogna: vergogna per l'umiliazione subita dai poveri, per la prepotenza dei ricchi, per l'ipocrisia di tanti politici.
Paolo De Benedetti, in un libro che si intitola La morte di Mosè (Bompiani, 1971), ha scritto anni fa una raccomandazione che poi ho visto ripresa da don Tonino Bello. Diceva che al giorno d'oggi molto più importante che confortare gli afflitti è affliggere i confortati. Se vuoi essere nel vero, in una società basata sulla menzogna, in qualche modo devi dispiacere, le medicine che possono far bene sono in genere amare, si diceva una volta. Non si può continuare -o sono io che non ci riesco- in un Paese alla deriva a rendere omaggio a coloro che in buona o cattiva fede dicono agli italiani che sono belli, originali, simpatici, divertenti, intelligenti, buoni, generosi, come fanno tanti, mentre spesso siamo al contrario sporchi, brutti e cattivi, egoisti e menzogneri, antipatici e lazzaroni! E, soprattutto, infelici e soli, nonostante il chiasso di cui ci circondano e da cui ci facciamo stordire. Camminando per corso Buenos Aires, qui a Milano, o il sabato sera tra il Duomo e San Babila, o lungo il Corso e via Nazionale a Roma, ti vengono per forza in mente i versi del Metastasio che una volta i vecchi ci citavano (e che forse ricordo approssimativamente); "se a qualcun l'interno affanno/ si vedesse in fronte scritto,/ tanti ch'ora invidia fanno/ ci farebbero pietà".
Fu Menandro a scrivere che “muore giovane colui che gli dèi amano”, e fu
Leopardi a ripetere che “muore giovane colui che al cielo è caro”. Tutto sta
nel credere nell’esistenza degli dèi o di un Dio unico e onnipossente; tutto
sta nel credere in un aldilà in cui la sorte dei giusti possa essere diversa da
quella dei malvagi. E tuttavia, anche per un non credente, può essere di
consolazione pensare che gli dèi (o Dio) vogliano accanto a sé quei giovani che
essi hanno amato, dei quali hanno apprezzato il valore la generosità la
bellezza, quei giovani che hanno avuto ai loro occhi qualità o meriti speciali;
e dei quali noi, i terrestri, i vicini, gli amici e diciamo pure i compagni,
abbiamo goduto la vicinanza e la confidenza, la comunione delle idee nonché
degli affetti.
È stato forse l’Ecclesiaste ad avere scritto che se c’è un aldilà dove la
condizione dei buoni è diversa da quella dei cattivi, solo allora la morte non
può gridare la sua vittoria, non può affermare che il suo potere è infinito. È
quest’illusione a permetterci tuttavia di pensare che non tutto è stato inutile
nel mondo che abbiamo conosciuto, negli anni che abbiamo vissuto, in quel poco
che siamo riusciti a fare dalla parte del giusto e del vero e, soprattutto, a
riscattarci – la convinzione per cui, quale che sia stata l’epoca che abbiamo
vissuto e in cui abbiamo conosciuto tanti “cari agli dèi” prematuramente
strappati alla vita, qualcosa di buono e di bene intenzionato tuttavia
l’abbiamo fatto, e qualche risultato abbiamo ottenuto anche se fragile e di
breve durata. Attraversando gli aspetti più amabili come i più detestabili
della nostra società, fondamentalmente accettandola più che non osteggiandola.
Quali che siano state le nostre consolazioni e le nostre ipocrisie individuali
o collettive, quali gli immani egoismi e le fragili generosità, quali le
perfidie personali o di gruppo, di casta o di fede, di classe o di nazione, o
al contrario le rare ma piene tenerezze. Quale che sia stato il nostro
accettare o al contrario il non accettare “lo stato delle cose” da lungo tempo
consolidato, e le sue novità di superficie oppure, al contrario, quelle più
nascostamente o più vistosamente radicali.
Crescere - Goffredo Fofi
“L’estate sta finendo / e un anno se ne va/ Sto diventando grande / lo sai che non mi va” diceva una canzone balneare di molti anni fa, parlando per voce di un ragazzino.
Ma “l’estate” è già passata, e siamo da tempo all’inverno – l’inverno del
pianeta o, con maggiore certezza – del genere umano, e di questo sembrerebbe
che si rendano conto, con palese o segreta immediatezza, piuttosto i giovani,
gli adolescenti, che non gli adulti. I quali non cessano di pontificare, per
bocca di filosofi e psicologi e teologi e quant’altro, sul disagio dei più
giovani, pronti a sparare le loro miserabili cartucce a ogni, ricorrente e
spaventante, fatto di cronaca che questo disagio dimostra in modi sanguinosi e
quasi sempre dall’interno dell’istituzione fondante e centrale della società in
cui viviamo, la famiglia.
La “sacra famiglia”, dissacrata vertiginosamente dalla società dei consumi e da
altre “virtù” repubblicane che, tutte, hanno al loro centro – anche quando
dicono il contrario – il Dio Denaro. L’orrore suscitato da certi fatti di
cronaca come quello che ha sconvolto poco tempo fa (ma davvero in profondità?)
una cittadina lombarda che chi scrive ha conosciuto durante gli anni delle
ultime lotte operaie viene facilmente rimosso dalle spiegazioni e dai consigli
degli esperti, primi fra tutti giornalisti-teologi e soprattutto i
giornalisti-psicologi.
Sì, chi mai studierà quanto male hanno fatto e continuano a fare gli psicologi
con le loro spiegazioni facili-facili e i loro ipocriti consigli alle famiglie
e agli insegnanti? Con la loro super-presenza di guru che, beati loro, sanno
tutto di come funziona la psiche umana e di conseguenza la società?
Ricordo con disagio la grande voga, e le grandi speranze suscitate nel
declino del movimento del ‘68 dalla corsa di tanti giovani ex-militanti alla
facoltà di psicologia di Padova – speculare a quella di altre corse, certo meno
dannose, alla facoltà di sociologia di Trento.
Se i secondi volevano inizialmente capire il contesto in cui maturavano le
lotte, o avrebbero dovuto maturare, i primi volevano, più che prevenire,
guarire, ed è stata la scuola l’ambito in cui hanno prosperato e dove, credo,
hanno fatto dei danni. E continuano a farne.
I trionfi della sociologia e della psicologia, diventate ben presto linguaggio
comune e giornalistico, furono fragili e transitori.
Della psicologia vi furono bensì risultati positivi evidenti sul fronte della
psicologia clinica grazie a personaggi come Basaglia o Jervis e ai gruppi
“militanti” di cui essi furono riferimento e portavoce, mentre la sociologia,
dopo Ferrarotti e il grande Gallino, si fece fottere dalla superficialità
dell’antropologia applicata al presente, non come scienza ma come costruzione e
diffusione di nuovi luoghi comuni, favoriti dalle astuzie dell’università. Che
si fece, nonostante il ‘68 e forse con il suo aiuto, sempre più strumento della
politica perché chiamata a sostituire ossessivamente il pensiero politico: il
rimando alla politica avrebbe potuto stimolare pratiche turbative del “normale”
funzionamento del Potere.
Dunque: deriva giornalistica (ah, “gli esperti” chiamati da radio e
televisione a spiegare i “misteri” della società e dell’animo umano!), deriva
pedagogica poiché la diffusione degli psicologi nella scuola ha prodotto
un’estrema superficialità degli interventi, e deriva anche scientifica, ché le
facoltà di sociologia e di psicologia sono servite da allora a formare dei
maestrini del consenso e non del cambiamento positivo della umana convivenza,
con la scusa che era la deriva della politica ad aver lasciato il campo alle
pratiche più scialbe o più abbiette.
Nella derisione di quegli ideali che quanti si occupano di cosa pubblica
dovrebbero avere per base, discussi e ridiscussi nelle loro istanze ma
sostituendo agli ideali di cambiamento quelli di funzionamento, nella logica
ossessiva della spartizione dei poteri.
Oliare l’ingranaggio è diventato da allora il compito che viene di fatto
attribuito alla pedagogia, alla psicologia, alla sociologia da un potere che è
democratico nei limiti del “generone” formato da un ceto medio sempre più
numeroso e sempre più prepotente.
E come al tempo di Molière è opportuno inventare o ingrandire o
specializzare i mali per dare spazio agli “esperti”, ai consiglieri che sanno
tutto e lo spiegano ai maestri e professori che nonostante faccia parte anche
quello del loro mestiere (capire gli allievi, aiutarli a conoscersi, assisterli
nelle loro difficoltà a capire e a capirsi e di conseguenza a costruirsi e
scegliersi) preferiscono o sono spinti ad affidarsi all’”esperto”, alla psicologa
o allo psicologo pagato per capire e per consigliare.
Sì, ci sono spiegazioni sociologiche per questo sistema – prima di ogni
altra cosa la “cetomedizzazione” delle classi di una volta, nel controllo dei
consumi e nella non-varietà delle scelte possibili. Non ci sono più operai e
contadini o sono cambiati enormemente così come non ci sono più le botteghe dei
“mastri” e dei commercianti di un tempo.
Tutti uguali di fronte a un capitalismo livellatore, ma con l’illusione
residuale di contare qualcosa perché si sceglie un prodotto al posto di un
altro, perché si vota come si vuole scegliendo tuttavia tra proposte simili di
gruppi e candidati simili nella sostanza ma conflittuali tra loro per il
dominio.
Lasciamo i potenti di Roma e Milano, per così dire, e soprattutto degli Usa
del super-Capitale della grande finanza – i padroni del mondo, con la loro
tremenda capacità di imporre al mondo i loro messaggi, i loro modelli –
fermandoci però un attimo a considerare la cultura divenuta schiava dell’economia,
con l’ossessiva convinzione (e conseguente predicazione) dei suoi turiferari
che esiste un unico modello possibile di società, “un’unica proposta di
vendita”, con le varianti dei ritardi consustanziali alla “arretratezza” dei
più di cui ci si ostina a considerare arretrate le ideologie fondanti (e magari
per certi aspetti lo sono), che si muovono bensì in un perdente confronto sul
piano dei consumi e anche per questo cercano una trincea su quello delle
culture.
Tutto sembra dunque giocarsi sul piano dei consumi e non su quello delle idee,
dei modelli politici – che non hanno insistito sui modi possibili di inventare
il nuovo o semplicemente di dare il peso necessario ai valori che dovrebbero,
da secoli, continuare a essere basilari – diciamo la “libertà, uguaglianza e
fraternità” proposte dalla Grande Rivoluzione e da molte delle rivoluzioni che
le hanno poi fatte proprie, anche se troppo spesso li hanno applicati
parzialmente e superficialmente.
Non si può dire basta alla Politica se non in nome di una Politica nuova e
diversa, ma si può dire basta alla Politika, alla mala arte di governare da
parte di classi che nelle spietate lotte per il potere si sono proposte e
imposte come “dirigenti”.
Quanto si è detto è suggerito fondamentalmente dallo sconcerto, dal
ribrezzo, dalla paura che fatti come quello di Paderno Dugnano suscitano in
noi.
La pedagogia oggi non riguarda il campo dell’insegnamento, della formazione di
individui coscienti e responsabili, bensì l’addestramento alla accettazione del
mondo così come è da parte delle nuove generazioni, dei “nuovi nati”.
Abbiamo alle spalle letture insegnamenti esperienze (abbiamo avuto alle spalle
maestri veri e radicali) che ci hanno resi assai diffidenti di fronte alle
chiacchiere dei sociologi e psicologi “di regime”, che si scatenano in consigli
fritti e rifritti dopo ogni luttuoso e spaventoso fatto di cronaca, per darci
delle spiegazioni affrettate e superficiali, a qualcosa che ci sconcerta e
spaventa e che ci si ostina a definire “inspiegabile”. Un amico francese
di tanti anni fa – il cui esempio è stato seguito ma non ricordato da tanti
professoroni e professorini, a Parigi come in Italia – scrisse un pamphlet
intitolato L’extricable. Ed è una sociologia onesta (da Francoforte
a Berkeley) quella che ci ha aiutato – più della morale dei filosofi e dei
teologi – a capire qualcosa del mondo in cui abitavamo e abitiamo.
Prima di tutto una sociologia, non una psicologia e neanche una pedagogia,
anche se di entrambe avremmo estremo bisogno – una sociologia che studi l’economia
e i suoi effetti sulla società, e però una sociologia attiva, che
solleciti una militanza – sociale, pedagogica e infine politica.
Siamo tutti più o meno (nonostante le giuste convinzioni degli “operatori
sociali” di essere utili, una categoria alla quale non ci vergogniamo affatto
di appartenere, anche se dimostra troppo spesso una ipocrisia di fondo,
un’abusiva auto-valorizzazione di fondo) schiavi di una società capitalistica
che sta portando il pianeta alla sua fine. Siamo tutti prigionieri dello
spettro – mai così concreto, anche se più presente negli incubi della notte che
nella trasandatezza del giorno – della “fine del mondo” per ragioni ecologiche
o militari. Denaro e potere, in mani criminali anche quando inconsapevolmente
suicide.
I terreni su cui possiamo intervenire sono pochi e ristretti, e sono terreni di
resistenza più che di proposta, sono più che altro pedagogici e, ancora più
genericamente, culturali.
Eppure è di politica che dobbiamo tornare a parlare, se vogliamo dare agli adolescenti
come il pluriomicida di Paderno Dugnano una ragione per vivere e qualcosa di
grande per cui vale ancora la pena di lottare, per non sentirsi superfluo e
“incompreso” (e mi sembra impossibile non pensare – in una visione più ampia o
più “borghese” e da cinema horror – al titolo del grande romanzo famigliare di
Florence Montgomery Incompreso, anche se davvero non si
direbbe che fosse questo il caso del ragazzo assassino di Paderno Dugnano: un
“incompreso” tremendamente di oggi. Incompreso non solo dalla famiglia anche
dalla scuola, anche da tutto il resto – dal “consumo” che lo ha prodotto…).
È alla “politica” come definizione di ideali collettivi convincenti, di una
visione della società concreta e non solo ideale, che dobbiamo pensare e
tornare, costruendo gruppi e promuovendo gruppi e
lotte su obiettivi condivisi e sentiti come essenziali.
Senza una nuova idealità e un conseguente sforzo organizzativo, senza la
concretezza dei gruppi e delle lotte, e diciamo pure senza una politica, senza
lotte e organizzazioni da far nascere e crescere nel concreto delle rivolte,
dei “no”, non servono sociologi e psicologi, nonostante ve ne siano tra loro,
anche se rari, di coscienti e di moralmente avvertiti e responsabili. E però
servirebbero se non si facessero manipolare e corrompere come oggi
massicciamente accade, per un piatto di lenticchie o peggio, per un articolo (o
una citazione) su “la Repubblica”.
Torno al passato, per estrarne una morale che è stata di ieri e che mi
sembra oggi pur sempre attuale così come sarà ancora attuale domani e sempre:
citando il Brecht del lontano 1935 il quale, esagerando perché la “cultura”
contava anche allora e ancora più conta oggi nel confronto con l’economia, osò
comunque gridare a un congresso di intellettuali di sinistra: “Compagni,
parliamo dei rapporti di proprietà!”.
In altri termini, agiamo politicamente nei modi che ci sono possibili,
lottiamo, non accettando lo stato delle cose in nome del nostro futuro e più
ancora di quello dei nostri figli, che possano ancora imparare qualcosa dalle
nostre lotte così come noi avremo da imparare dalle loro.
Diario
dell'anno della peste e altri libri da rileggere
Vale la pena di leggere o rileggere,
in questi nostri incerti e angoscianti mesi, quello che è forse il più bel
libro tra i tanti che hanno trattato di epidemie e pandemie, il Diario dell'anno della peste di
Daniel Defoe.
Secondo Elio Vittorini che ne promosse la
traduzione presso Bompiani nei primi anni Quaranta dello scorso secolo, in
tempo di guerra, si tratta del miglior libro di uno dei creatori della
letteratura moderna insieme a Cervantes. Le due e contrapponibili creazioni del Don Chisciotte (1605 e 1615)
e, un secolo dopo, del Robinson Crusoe (1719) sono
alla base di una tradizione che non accenna a spegnersi, la prima quella del
rifiuto dell'accettazione della realtà, del mondo così come si presenta
all'esperienza concreta di ogni vissuto in nome di un mondo ideale e sognato, e
la seconda quella che Marx ha chiamato, pensando proprio a Robinson, dell'homo
oeconomicus, le cui azioni sono pressate dalla necessità, e obbligano alla
elaborazione personale e di gruppo – e diversa per collocazione geografica o
storica e per appartenenza a questo o a quel ceto sociale – di un' “arte della
sopravvivenza”.
Un vivido resoconto della peste di Londra del
1665, redatto dallo scrittore che aveva assistito alla grande tragedia ancora
bambino.
Peraltro,
questa distinzione vale anche per i grandi personaggi femminili della storia
della letteratura, per esempio per Madame Bovary di Gustave
Flaubert come versione moderna del Don Chisciotte, e Moll Flanders, formidabile
protagonista dell'omonimo romanzo, anche questo di Defoe, che mise ancora una
donna a protagonista di un suo romanzo, Lady Roxana, con una
partecipazione e una lucidità non inferiori a quelle da lui riservate ai
personaggi maschili.
Il Diario
dell'anno della peste non è un romanzo, anche se ne ha l'ampiezza e
profondità, e si presenta come una cronaca diretta degli avvenimenti che
sconvolsero Londra nel 1665 (la violentissima pestilenza che vi esplose
trentacinque anni dopo quella di Milano, evocata e descritta a distanza di più
di due secoli da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi). Ma
nel 1665 il nostro Defoe aveva solo cinque anni, e fingere di essere quotidiano
spettatore di quella tragedia è di fatto un procedimento che diverrà abituale
nella storia del romanzo, anche se un grande pregio del Diario è
anche quello di essere una sorta di inchiesta retrospettiva, basata su
documenti e su interviste come accadrà poi in tanti libri a venire, e a partire
da ricordi altrui ben più che dai propri. Anche per questo il Diario è
un grande libro su un grande evento, tanto appassionante quanto attendibile, e
questo spiega il suo successo negli anni e nei secoli e anche la sua odierna
attualità.
Sì, il
presunto Diario di Defoe ha avuto molto da insegnare a chi ha
cercato di raccontare la peste e simili cataclismi, Manzoni compreso, Camus compreso. Ma ha avuto anche
molto da insegnare a tanta letteratura avvenirista e a tanta letteratura,
diciamo così, catastrofista di ieri come di tempi recenti. Soprattutto ha avuto
da insegnare la parte del “diario” che riguarda la fuga da Londra di tre
compari, e non è un caso che siano stati gli scrittori inglesi dalla fine
dell'Ottocento in avanti ad aver saputo approfittare meglio della sua lezione.
Soprattutto, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, gli autori
inglesi della science fiction o fantascienza, un genere
letterario che si è imposto, soppiantando la detection (investigazione
su un delitto: il whodunit?, il “chi è stato?” e il “come è
accaduto?” genialmente teorizzati ed evocati in cinema da Alfred Hitchcock). La
risposa ai “whodunit?” è, in tante opere, sempre la stessa: l'Uomo, e la sua ossessione
di un incondizionato Sviluppo.
Orano è colpita da un'epidemia inesorabile e
tremenda. Isolata, affamata, incapace di fermare la pestilenza, la città
diventa il palcoscenico e il vetrino da laboratorio per le passioni di
un'umanità al limite tra disgregazione e solidarietà.
Rispetto
alla fantascienza americana, più libera nell'invenzione e più fantasiosa,
quella inglese è partita davvero dal “possibile” e dalle sue “meraviglie” buone
o nefaste, e soprattutto dalle nefaste che la storia potrebbe riservarci in un
futuro più o meno prossimo, ma non si è mai allontanata troppo dalla realtà
(dal “possibile”) neanche quando ha scritto di avvenimenti molto in avanti nel
tempo e si è addentrata in un futuro davvero lontano. È questo odore di realtà
a fare il pregio, a partire da quelli di H. G. Wells, dei grandi libri di
fantascienza scritti dal grandissimo James G. Ballard su sciagure
naturali, su rivolte della natura (Vento dal nulla, Deserto
d'acqua...) o su esplosioni demografiche e metropolizzazione del pianeta (Il condominio) e scatenamento delle
macchine (anche nel senso di automobili, leggi Crash) e, su suggestioni decisamente “alla Defoe” nel
racconto di una traversata degli Usa da parte di un minuscolo gruppo di
sopravvissuti, in Ultime notizie dall'America, del 1981, titolo
originale Hello, America. A Ballard anche la
critica più spocchiosa ha dovuto concedere l'attenzione e il rispetto che
meritava quando uscì il suo bellissimo romanzo L'impero del sole. Era catastrofico anche quello ma
molto realistico, e raccontava la sua esperienza diretta di una catastrofe
collettiva, storica e non naturale, quale egli visse da bambino, figlio di
diplomatici inglesi che si perde nella Shanghai invasa dai giapponesi durante
la seconda mondiale.
Da quel
romanzo fortemente autobiografico trasse un film molto bello Steven Spielberg,
il suo migliore insieme alle favole di E. T. e di Incontri
ravvicinati del terzo tipo. Ma splendidi romanzi di fantascienza
catastrofico-realistica scrissero anche altri, in Inghilterra. Per esempio John
Christopher con Morte dell'erba, narrando ancora una fuga da Londra
quando vi arriva un'epidemia del mondo vegetale, di ogni tipo di vegetale,
partita dalla Cina. Vi si narra di un piccolo gruppo di persone che cerca,
attraversando la grande isola, di raggiungere l'immune e vivibile Scozia. E per
esempio John Wyndham, più coerente e dotato: uno dei suoi più noti romanzi è
stato Il giorno dei Trifidi, che servì
probabilmete di ispirazione al premio Nobel portoghese José Saramago per Cecità. Vi si narrava la
fuga da Londra di un gruppo di persone colpite, come tutti gli inglesi, da
improvvisa cecità al momento dello sbarco sull'isola di invasori da un altro
pianeta. Il più recente ritorno al “modello Defoe” (ma certamente ce ne sono
stati altri) lo si ritrova in un romanzo statunitense di grande successo, La strada di Cormac McCarthy,
che ha anche per modello (non dichiarato) il romanzo di Ballard sugli Usa.
Pubblicato per la prima volta nel 1956, La
morte dell’erba è diventato da allora un classico imperdibile della
narrativa, superando di gran lunga i ristretti confini del genere e della
fantascienza.
Con le
citazioni e i rimandi si potrebbe giostrare ancora per molto, per esempio
ricordando la persistente fascinazione di tanti scrittori per epidemie,
catastrofi, terremoti, incendi, alluvioni, esplosioni vulcaniche, invasioni di
animali con la variante degli animali mutanti e dei mostri post-atomici. Ma non
si possono dimenticare i tanti libri sui disastri calcolati e programmati come
quello di Auschwitz e dei gulag perfettamente politici e di altre Hiroshima. Su
Hiroshima in particolare si legga il grande reportage di John Hersey sui
sopravvissuti, intitolato appunto Hiroshima. E per
capire le molte Chernobyl recenti si parta da quella fondamentale, come
raccontata nel grande reportage di Svetlana Aleksievic, intitolato Preghiera per Chernobyl.
Mancano
ancora, mi pare, un grande libro o un grande film che pongano di fronte noi
ipocriti lettori e spettatori alla ribellione della natura contro il genere
umano che l'ha aggredita e violentata in nome di un insensato ed egoistico
sviluppo, mancano opere forti e degne che svelino e condannino le follie
provocate dalle ideologie di quelle “magnifiche sorti e progressive”, che già
denunciò il nostro maggior poeta e filosofo moderno, Giacomo Leopardi, in La ginestra.
Ci
sono grandi saggisti ad aiutarci, a
costringerci a ripensare alle colpe dell'uomo e alla nostra insensata voluttà
dell'aver tutto che potrebbe assai presto portarci al niente, mentre sono pochi
i romanzi, i film. E c'è però da temere che, dopo la pandemia del virus, tanti
sconsiderati e superficiali scrittori possano dilettarsi e aspirare a
dilettarci in modi superficiali raccontandoci cosa ci può ancora accadere se ci
si ostina nella facile illusione che, nonostante tutti i guai che ha combinato,
l'Uomo possa pur sempre farcela. Sono stati e sono tanti gli avvertimenti che
la Natura ci ha mandato e ci manda, ricordandoci un Dies Irae che è forse molto
più vicino di quanto i potenti (i primi responsabili di ogni disastro) non
vogliano farci credere.
La generazione cresciuta nel dopoguerra fu introdotta alla conoscenza del problema nero più dal cinema che dalla letteratura, memorabili la sequenza napoletana di Paisà e un grande film oggi sottovalutato, Senza pietà, di Alberto Lattuada. Un soldato nero yankee, John Kitzmiller, ne era protagonista nel ruolo di un disertore che intrecciava una storia d’amore con una giovane prostituta (Carla Del Poggio, nella vita moglie di Lattuada, e in tarda età mia grande amica) in una Livorno di loschi traffici, con alle spalle la pineta di Tombolo, rifugio di disertori e di sbandati. E a Napoli si girarono film da quattro soldi, si misero in scena “sceneggiate” e si cantarono canzoni su temi vicini, e i figli di ragazze italiane e soldati stranieri vi erano chiamati “figli della Madonna”.
Questi film fecero scandalo negli Stati Uniti, e tempo dopo un critico
cinematografico coraggioso, Peter Noble, scrisse un libro prontamente tradotto
in Italia che parlava anche di questo, Il negro nel film (Fratelli
Bocca 1956). In letteratura, dobbiamo ad Ada Gobetti e a Franco Antonicelli la
traduzione del primo grande romanzo di una scrittrice nera americana,
l’antropologa Zora Neale Hurston (I loro occhi guardavano a Dio, Cargo
2009), e si chiamava Lillian Smith l’autrice di un piccolo romanzo
sentimentale, Frutto proibito (Mondadori 1956), che raccontava
un impossibile amore inter-razziale. Nella letteratura americana la vera
rivoluzione fu, negli anni Trenta o Quaranta, Paura (Native
Son) di Richard Wright (Bompiani 1947), per un tempo il solo nome importante
che conoscemmo della letteratura nera statunitense, un ottimo scrittore
(ricordo di suo anche un bel saggio sulla Spagna, Spagna pagana,
Mondadori 1962), diverso da tanti e compreso da Hemingway. La sua
fama venne però oscurata da un capolavoro, uno dei massimi della letteratura
degli Usa, Uomo invisibile di Ralph Ellison, un libro che
tutti i nostri lettori dovrebbero conoscere. (Mi piace ricordare che a
suggerirmi di leggerlo fu Gigliola Venturi e che Ellison, in un suo viaggio in
Italia quando il romanzo venne tradotto da Einaudi, nientemeno che da Luciano
Gallino, fu il primo nero a cui detti la mano, presentatomi da un grande
critico come Paolo Milano, vissuto a lungo a New York per sfuggire alle leggi
razziali mussoliniane. Ne fu occasione una piccola manifestazione al chiuso in
sostegno a Danilo Dolci, accusato di oscenità come il direttore di “Nuovi
Argomenti” Alberto Carocci, con il sequestro della rivista per una “storia di
vita” raccolta da Dolci e ivi pubblicata, dove un adulto militante comunista
palermitano raccontava en passant anche la sua iniziazione sessuale in un
miserabile bordello. Cinque righe in mezzo a tante pagine…).
Bene Wright, dunque, ma si legga soprattutto Ellison e il suo Uomo
invisibile, racconto di un nero che passa da una durissima infanzia e
adolescenza in uno Stato del Sud ferocemente razzista, a una New York dove
dovrà vedersela, essendo diventato comunista, con un altro e diverso tipo di
violenza, una violenza ideologica.
James Baldwin ci fu noto grazie a un romanzo, La stanza di
Giovanni (Fandango 2024), ambientato nella bohème parigina degli
anni cinquanta, il cui protagonista era, mi pare di ricordare, un siciliano,
membro di un piccolo gruppo di giovani che dividono un piccolo appartamento. Il
tema centrale non ne era il razzismo (che a Parigi riguardava per ragioni
storiche evidenti i nordafricani e i rimpatriti francesi, che neri non erano
anche se chiamati spregiativamente pieds noirs) ma piuttosto
l’omosessualità – un altro tipo di discriminazione. Baldwin si è trovato più
volte discriminato per il colore della pelle come per la sua omosessualità e ha
dovuto vedersela con due enormi pregiudizi, affrontandoli, prima ancora che in
romanzi e racconti, in articoli e saggi. La prossima volta il
fuoco (Feltrinelli 1960) è il titolo più noto tra i suoi saggi,
giustificato da un’esperienza di duplice emarginazione in quegli Stati Uniti
che – diceva sacrosantamente Susan Sontag – hanno dato al mondo la peste. E
continuano a farlo. (Goffredo Fofi)
Non c’è previsione che non sia poi diventata realtà che la fantascienza
letteraria non abbia affrontato (con poche memorabili ricadute
cinematografiche). Negli anni del dopoguerra – della guerra fredda ma anche di
un’economia in grande ascesa e dell’accesso a una qualche forma di benessere da
parte di intere masse in certi paesi del mondo, soprattutto in quello detto
occidentale, Usa ed Europa – la letteratura di fantascienza ebbe uno sviluppo
clamoroso, e da letteratura secondaria e pop venne pian piano apprezzata e
studiata, a partire dagli anni settanta e ottanta, e alcuni suoi autori –
soprattutto quelli che seppero muoversi più agilmente tra il genere e la
letteratura mainstream, Vonnegut e Dick negli Usa, Ballard in Inghilterra e Lem
in Polonia – sono diventati oggetto di studio universitario (non sempre
guadagnandoci, vista l’aridità dei risultati). Non a caso si è tratto degli
autori che meglio degli altri avevano saputo mettere il dito nella piaga, e
cioè vedere per primi cosa ci stava accadendo, la strada senza ritorno presa
dalle Società e dalla Storia.
Alcune intuizioni venivano da lontano: l’umanità trasformata in morti
viventi, zombies, e la sua vampirizzazione; le mutazioni genetiche e
biologiche; il dominio delle macchine; la robotizzazione dei corpi e delle
menti; la guerra e la violenza esaltate come spettacolo; i complotti per il
controllo politico e le paranoie che ne conseguono; l’asservimento della
scienza alle industrie e agli eserciti; le guerre commerciali; l’uso dei media
e di nuove tecnologie per il controllo delle menti e dunque dei comportamenti;
la durata della vita dell’uomo; l’uso della chirurgia plastica; le nuove
libertà e le nuove schiavitù sessuali; le rivolte giovanili e le trasformazioni
dell’infanzia; i distorti usi della religione (le sette), eccetera. Molti di
questi temi erano già stati affrontati nella narrazione del loro presente da
autori lungimiranti, che sapevano vedere dietro e oltre il presente, Tolstoj,
quello più teorico e militante, e Dostoevskij, quello più angosciato; i
“darwiniani” del tardo Ottocento, da Zola a Jack London (Il tallone di ferro)
eccetera. I precorsori di una letteratura di pura immaginazione bensì a partire
da ipotesi scientifiche plausibili ma non sempre rassicuranti (lo Wells
del Paese dei ciechi, lo Shiel della Nube purpurea…),
finché non vennero, dopo i massacri della prima guerra mondiale e il fascismo,
il nazismo, lo stalinismo e di fronte a una seconda guerra mondiale, i tre
capolavori di Aldous Huxley (Il mondo nuovo, quello che meglio si è
accostato alle nuove realtà del capitalismo trionfante), George Orwell (1984, quello
che ha meglio capito le somiglianze tra comunismo, fascismo e capitalismo ) e
Evgenij Zamjatin (Noi), un russo fuggito per tempo in Occidente.
Sulla loro scia si sono mossi i piccoli maestri della fantascienza detta
sociologica, i Matheson Bradbury Sturgeon Sheckley Simak Silverberg eccetera,
che hanno visto le conseguenze delle tendenze in atto, dal loro primo proporsi.
Si trattava pur sempre di mutazioni sociali e politiche e tecnologiche e
antropologiche prima che ecologiche, e non è da dire che le prime – con le
conseguenti mutazioni fisiche e mentali – fossero più preoccupanti delle altre,
quelle della natura. Se, dopo Hiroshima e a partire proprio dal Giappone dei
film e fumetti con i Godzilla e gli Ataragon, si sono moltiplicati i mostri
creati dalle radiazioni nel fumetto e nel cinema più popolari, negli Usa, c’è
stato però un filone, soprattutto inglese, che ha esplorato le possibili
catastrofi provocate dai folli interventi dell’uomo, dallo sviluppo, dal
progresso. Così come Vonnegut ha insistito sui paradossi e le assurdità della
società contemporanea, così come Dick ha insistito sui danni portati alla
coscienza da un’epoca di manipolazioni – sulla schizofrenia come destino dei migliori,
sulla morte del giudizio come destino di tutti –, è stato certamente Ballard
l’autore che è tornato più spesso sulle catastrofi naturali prodotte
dall’intervento umano: le apocalissi che vengono dalla rivolta degli elementi,
l’acqua (il mare, le piogge), l’aria (il “vento dal nulla”), il fuoco, il clima
(la desertificazione o la glaciazione, la vetrificazione di intere parti del
pianeta), e insieme il delirio portato dall’automobile nelle città (Crash):
tipi di apocalissi convergenti o parallele, concomitanti, comprese quelle più
direttamente sociali, le rivoluzioni nate dal ceto medio aggredito dalle crisi,
le adolescenze che si fanno volentieri criminali (Un gioco da bambini),
la solitudine e la follia della convivenza obbligata nei grandi casamenti delle
grandi città (Condominium) eccetera. Ancora due scrittori inglesi e il
secondo un Nobel, Burgess e Golding, con Arancia meccanica e Il
signore delle mosche pessimisticamente attribuivano alle origini
ferine dell’uomo (in definitiva, al peccato originale) la causa di tutto, il
trionfo dell’aggressività e dell’istinto di morte sulla solidarietà e l’istinto
di vita. E Wyndham, con I figli dell’invasione (ovvero Il
villaggio dei dannati) e con Il giorno dei triffidi eccetera
raccontava con minuzioso realismo e credibilità invasioni da altri pianeti che
erano mere metafore delle mutazioni del nostro e delle possibili mutazioni a
venire (un mondo in cui i maschi hanno esaurito il loro ciclo e restano solo le
donne a edificare una società con modelli non meno preoccupanti, in Considera
le sue abitudini).
Il cinema ha saputo prendere molto poco da questa messe di invenzioni e di
insegnamenti, anche se Kubrick ci ha provato, con grandi risultati – non quello
sfrenatamente ottimista di 2001, da un racconto di Clarke, ma
quello di Arancia meccanica, da Burgess, e di Shining, dal
maestro dell’horror Stephen King, uno scrittore non meno significativo per quel
che ha detto dell’America e dell’uomo dei suoi colleghi della s.f., e più
sottilmente di Eyes Wide Shut tratto da Schnitzler il
viennese, genialmente trasferito nella New York della fine del ’900 e degli
inizi del nuovo secolo e millennio.
Ci sono piccoli film memorabili, apocalittici, sulle mutazioni umane e su
quelle della natura, per esempio L’invasione degli ultracorpi di
Siegel, da Finney, o Radiazioni BX: distruzione uomo di
Arnold, da Matheson. I più realistici e credibili, come sempre, sono quelli
inglesi (di Val Guest, di Roy Baker…). Ma forse i più attuali di tutti sono
quelli derivati da due romanzi d’eccezione: 2000, la fine dell’uomo di
Cornel Wilde, da Morte dell’erba di John Christopher, uno
scrittore inglese, un romanzo recentemente ristampato e bellissimo, e 2022,
i sopravvissuti di Richard Fleischer, da Largo! Largo! di
Harry Harrison, un americano inglesizzato, che racconta un futuro metropolitano
molto vicino, e denuncia una delle più probabili ragioni della barbarie
presente e soprattutto di quella a venire, insieme alla crisi delle risorse e
dell’energia: la sovrappopolazione, la megaurbanizzazione del pianeta, il
ricorso alla carne dei cadaveri per nutrire i viventi, che sono troppi… Il
modello lontano è quello del darwiniano-spengleriano-marxista Tallone
di ferro, ma senza la prospettiva, lì dominante, di una rivoluzione dal
basso che avrebbe anche potuto vincere, che potrebbe anche poter vincere.
Non parlo della fantascienza che ha raccontato il day after, il mondo dei
sopravvissuti. Ci siamo vicini, ma cosa si fa per reagire (e cosa fanno gli
scrittori, i registi che si limitano a immaginare il peggio o a illudere di
un’ultima speranza che riguarderà quattro gatti)? E ci serviranno davvero
questi ammonimenti o queste fantasticherie, quando si arriverà al punto? Si è
scritto appena ieri che la fantascienza era il neorealismo del nostro tempo, pensando
a questi romanzi e a questi film e non alle roboanti scemenze alla Spielberg,
alle guerre stellari e ai serial tv, agli effetti speciali e ai merdosi
super-eroi dell’imperialismo Usa. Una buona parte della fantascienza
letteraria, certo non tutta, quella pensante, e perfino una piccola parte
corrispondente della fantascienza cinematografica è stata una cosa molto seria,
infinitamente più seria più di quella letteratura e di quel cinema che
ostinatamente hanno continuato e continuano a parlare delle piccole pene
sentimentali di un’umanità ostinatamente egocentrica e freneticamente stupida.

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