martedì 8 luglio 2025

L’orientamento informativo delle università: marketing o pubblicità ingannevole? - Salvatore Soresi

Mai, come in questi ultimi anni, le scuole, e soprattutto quelle secondarie, sono state invase da ‘orientatori’ universitari pronti a presentare le loro ‘offerte’ formative e le loro convinzioni in materia delle competenze necessarie per affrontare il futuro.

Ritenendo che l’orientamento sia una cosa seria, che abbia un suo corposo spessore scientifico, importanti paradigmi di riferimento e che debba essere praticato in ossequio alle norme sancite da precisi Codici deontologici come suggerito dalle più importanti associazioni internazionali interessate alle tematiche della scelta e della progettazione professionale (l’IAEVG, la S.V.P, la NCDA e la SIO per quanto concerne il contesto italiano) con questo scritto invito a non sottovalutare quanto sta avvenendo in molte scuole ed università dove le iniziative di orientamento vengono realizzate da colleghi che, improvvisamente, si ‘offrono’ e ‘dedicano’ ad esso, ritenendo che trattasi, tutto sommato, di semplice cosa soprattutto per loro che possono vantarsi di possedere lo status di docenti universitari. Sapendo di non essere il solo a considerare deontologicamente inaccettabile la modalità con la quale molto spesso viene ‘offerto’ l’orientamento informativo, pur ricordando che l’orientamento non dovrebbe fare a meno di stimolare ed incrementare  il ricorso al pensiero critico, a quello possibilista, controfattuale e prospettico, mi permetto di segnare che, come sostengono in molti, c’è marketing e marketing e che, come ha detto qualcuno, ‘Si può fare marketing rimanendo brave persone’ (Morici, 2014) se si decide, come dovrebbe fare quello universitario, di ricoprire una funzione responsabile e generativa, in favore di uno sviluppo sociale sostenibile, del benessere delle persone aiutandole nella ricerca e nella ‘selezione’ di sensi, di significati, di progetti per i loro futuri desiderabili guardando con un certo distacco le ‘offerte’ che da destra a manca elargiscono i mercati, compresi quelli della formazione e del lavoro.

Può essere considerato ‘orientamento’ quello che fanno tante università telematiche e private che sono interessate soprattutto ad attrarre ‘clienti’ e che continuano a proporre un orientamento alla Parsons (1909) quello che, in ossequio al binomio domanda-offerta indicava ‘l’uomo giusto al posto giusto’ senza chiare, ovviamente, quando un posto, un lavoro, una domanda può essere considerata giusta e dignitosa  (una università telematica, ad esempio, invita a diventare nutrizionista iscrivendosi a Unipegaso: ‘l’università che ti consente di lavorare e laurearti in pochi mesi’! e AlmaLaurea, che non a caso è una srl, afferma a chiare lettere che ‘si dedica alla ricerca di profili in linea con le esigenze aziendali’ e che ‘eroghiamo servizi per agevolare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro qualificato, nell’intermediazione, nella ricerca e nella selezione del personale, in sinergia con gli Atenei e le Istituzioni pubbliche competenti, verso il mondo del lavoro’, avvalendosi, ovviamente, della consulenza di una schiera di esperti!) [1]. Tanti professionisti e tante agenzie dicono di fare , anzi di ‘offrire’ orientamento, ma di cosa si tratta? Molto raramente, come segnalano Pitzalis e Nota (2025) di quello formativo ed in sintonia con i valori della giustizia sociale e della lotta ad ogni forma di discriminazione. Ma almeno quello meno pretestuoso, quello meramente informativo, come viene realizzato dai nostri atenei. Può essere considerato sufficientemente trasparente e dignitoso?

 

1.      Tra il dire e il fare (orientamento) c’è di mezzo il mare’.

Con questo detto mi riferisco, in particolare, alla constatazione che molti di coloro che stanno parlando di orientamento grazie ai finanziamenti del PNRR, pur dichiarando che il futuro, la formazione e il lavoro sono questioni complesse che richiedono visioni non semplicistiche e riduttive, si trovano spesso a presentare le opzioni universitarie in modo settoriale, un corso alla volta, dimenticando di invitare a tenere presente che sono sempre più urgenti autentiche interazioni tra settori professionali e disciplinari diversi, forme di effettiva collaborazione, interdisciplinarietà, multidisciplinarietà e transdisciplinarietà. La cosa, d’altra parte, non dovrebbe sorprendere più di tanto in quanto anche nel mondo accademico continuano ad essere molto rari i contributi di ricerca e le ‘imprese’ di orientamento che prevedono la compartecipazione di esperti provenienti da ambito di studio diversi. In effetti nell’orientamento, anche in quello informativo e che va per la maggiore, anche la semplice multidisciplinarietà, che comporterebbe la presentazione dei diversi campi di studio e/o ambiti professionali, senza schieramenti partigiani a favore di questa o quella disciplina, non sempre viene rispettata, non sempre le diverse discipline e i diversi corsi di laurea (scientifici vs umanistici; STEM vs STEAM, ad es.) vengono presentati come ugualmente impegnativi, dignitosi ed importanti per il futuro delle persone, dell’umanità e del nostro pianeta.

In queste presentazioni le discipline vengono generalmente presentate una accanto all’altra suggerendo di fatto che gli sconfinamenti, l’uscire dai limiti, potrebbero danneggiare la reputazione e il ‘rigore’ di quella disciplina o di quella professione. Ciò che forse come orientatori dovremmo chiedere è che queste presentazioni, in vivo o in remoto che siano, avvengano in modo rispettoso della trasparenza ed utilizzino un tipo di Marketing 5.0 o 6.0 (Kotler, Kartajaya, Setiawan, 2016, 2025) che sono particolarmente sensibili alle questioni etico-sociali associabili alle operazioni di ‘presentazione e promozione dei prodotti’.

Sarebbe già un passo in avanti, verso il futuro, chiedere che ad occuparsi della presentazione delle diverse discipline siano i nostri più giovani ricercatori e, soprattutto, quelli disposti a farsi interrogare a proposito delle ipotesi e degli obiettivi che si stanno ponendo con le ‘loro e specifiche ricerche’ in economia, o in diritto, o in ingegneria, ecc. e quali, fra dieci anni e giù di lì, si dovranno o sarebbe opportuno che si occupassero, i loro colleghi futuri, quelli interessati, come lo sono loro oggi, all’ingegneria, all’economia, alla filosofia, alla matematica, alla fisica, alla salute, ecc. (‘Chi fra 10, 15, 20 anni sarà un ricercatore di ingegneria, economia, biologia ecc. di cosa si occuperà?).

Oltre ad essere multidisciplinare, l’attività ‘informativa’ di orientamento potrebbe essere anche interdisciplinare: a differenza di quanto sopra, in questo caso si dovrebbero segnalare soprattutto i  vantaggi derivanti dall’integrazione di due o più ‘saperi e visioni’, ugualmente interessanti ed importanti, in funzione di uno scopo o di un obiettivo, pur muovendosi da diverse angolazioni e punti di vista. Qui, oltre al costituirsi di collegamenti ed interazioni stabili tra ricercatori e campi di studio, verrebbe privilegiato un fare ricerca assieme a colleghi che posseggono modalità di analisi e riflessione non facilmente sovrapponibili. Optando per l’interdisciplinarietà, la presentazione delle offerte formative risulterebbe probabilmente maggiormente convincente se, a farla, saranno direttamente gli attori che stanno ponendo in essere in modo congiunto conoscenze e metodologie tradizionalmente appartenenti a discipline diverse (ad esempio, progetti che richiedono competenze di biologia ed informatica per sviluppare software di tipo medico, o di psicologia e neurologia, di scienze naturalistiche ed urbanistiche, etiche ed economiche, giuridiche e filosofiche, ecc.). Anche in queto caso, purtroppo, viene spontaneo domandarci se e quanto, in materia di orientamento, pur parlando di interdisciplinarietà, sono disponibili pubblicazioni scientifiche firmate da ricercator* afferenti a raggruppamenti SSD diversi, quanti progetti di ricerca a proposito delle dimensioni e delle variabili implicate nei processi di scelta, sono effettivamente interdisciplinari,  di quante ‘co-presenze’ si avvalgono i nostri usuali open day e i materiali che vengono ‘gratuitamente’ distribuiti in quei contesti.

L’orientamento che guarda effettivamente al futuro, ad ‘oriente’, verso la luce e il sorgere del sole, afferma che non è sufficiente chiedere a due ricercatori impegnati in discipline diverse di lavorare ed ‘esplorare assieme’: sembra dirci che è sempre meno rinviabile la formalizzazione, anche all’interno dei nostri atenei e dei nostri servi, la presenza e la ‘stabilizzazione’ ‘di gruppi marcatamente eterogenei di ricerca’ che vedono lavorare assieme filosofi, matematici, economisti, architetti, giuristi, ingegneri, medici, psicologi, ecc., accumunati dal desiderio di collaborare per intraprendere assieme e farsi carico di ‘imprese quasi impossibili’ come quelle che appartengono alla schiera dei cosiddetti wiked problem (Rittel e Webber, 1973; Soresi, 2022; Gray et al. 2023) e quelle associabili alla lotta al lavoro indecente e ad ogni forma di disuguaglianza e discriminazione. Questi gruppi potrebbero essere considerati transdisciplinari in quanto, andando oltre le discipline tradizionali e sconfinando sistematicamente, cercano di risolvere problemi complessi con approcci che potrebbero essere ritenuti addirittura ‘deliranti’[2], globali ed inclusivi. Sarebbe bello, in un programma di orientamento anche informativo, che alle presentazioni dei diversi corsi di laurea, venissero fatti seguire da dibattiti e lavori di gruppo a proposito, ad esempio, del contributo che la filosofia, la matematica, l’urbanistica la medicina ecc. potrebbero fornire al ridimensionamento di problemi difficili e complessi, come quelli della competizione eccessiva che conduce a pochi vincenti e a molti perdenti, a conflitti più che ad armoniche collaborazioni, o a non occuparci sufficiente di quei 17 obiettivi che l’ONU, da tempo, ha indicato alle nazioni di tutto il pianeta.

I progetti e programmi tranas-disciplinari di orientamento, come quelli che in altre occasioni abbiamo presentato come 5.0 (Soresi, 2023; Soresi e Nota, 2023; Pitzalis e Nota, 2025) si caratterizzano  per la presenza di linguaggi diversi, di quelli propri dell’economia, della sociologia, delle scienze ambientali, di questa o quella disciplina hard o soft, ecc. al fine di aiutare gli studenti, ma non solo, a sviluppare visioni olistiche delle possibili e future carriere, ad immaginare ‘scenari attraenti’ anche a coloro che hanno appreso soprattutto, e a loro spese, a diffidare e a praticare quell’impotenza appresa di cui da tempo ci hanno parlato tanti giganti dell’apprendimento e dell’orientamento.

La prospettiva ‘metodologica’ che a proposito delle collaborazioni di cui necessita il mondo della ricerca e quello dell’intervento sociale e che attira maggiormente le simpatie dell’orientamento 5.0 è però quello dell’intersezionalità checome noto, trova le sue origini nella storia femminista e antirazzista e che consente di evidenziare le relazioni esistenti tra i diversi fattori di discriminazione e le modalità di fatto in atto nella gestione più o meno partecipata dei diversi processi decisionali. Come ricorda Manfroni (2024) l’intersezionalità ci invita a ritenere ‘che ogni persona non può essere definita da una sola categoria identitaria e, di conseguenza, può essere oppressa o godere di privilegi per ragioni diverse’ (p. 1). Non sarebbe pertanto una modalità ‘intersezionista’ procedere, come ci ha abituato a fare anche tanta psicologia del lavoro e delle organizzazioni, l’individuazione di   tipologie da utilizzare per poter disporre di profili, classifiche, diagnosi, valutazioni, consigli, dimenticando, volutamente o non, che ogni situazione, ogni persona, ogni gruppo, ogni evento, ogni problema è diverso, singolare, e, questo, anche a proposito delle loro vulnerabilità e fragilità possibili. ‘Farne di tutto un fascio’, o tanti fasci, sulla base di distribuzioni statistiche più o meno accurate, senza tener di conto dei diversi livelli e delle diverse categorie di oppressione dalle quali potrebbero risultare colpiti i diversi ‘partecipanti’ ai campioni di standardizzazione dei nostri strumenti, è, come minimo, riduttivo e superficiale in quando nasconde l’eterogeneità delle necessità, dei bisogni, delle preoccupazioni e delle aspirazioni delle persone.

2.      Anche l’orientamento universitario ricorre alla pubblicità ingannevole?

Chi si rivolge all’orientamento va in cerca, molto spesso, di ‘chiarezza’, di aiuto, di  ‘neutralità’, in quanto sono sovente consapevoli che possono essere bersaglio di imprese ed agenzie che, pur di rimanere competitive, non disdegnano di ricorrere a pubblicità ingannevoli, a fome di marketing[3] tutt’altro che trasparenti, etiche, ad ‘avvertimenti’ e messa in guardia, (ad advertising, come  direbbero gli inglesi) o ad altisonanti richiami (réclame, come dicono i francesiincrementando sovente perplessità, incertezze, paure e titubanze nei confronti del futuro (Re e Mosca, 2007).

Con questo non auspico la messa al bando toutcourt del Marketing (anche le buone idee, le innovazioni, i valori, l’idea di giustizia, il rifiuto delle disuguaglianze, la pace e lo stesso orientamento 5.0, debbono essere adeguatamente proposte e ‘propagandate’!), ma si ritiene importante insegnare, a chi partecipa alle nostre sessioni di orientamento, a non prendere per oro colato tutto ciò che viene esposto nelle fiere dell’orientamento o enfatizzato nei diversi siti web.

In altre parole, mi piacerebbe molto che, anche nell’ambito dell’orientamento informativo, non ci si limitasse a fornire risposte, ma si ponessero anche domande, dubbi, possibilità diverse, interrogativi a proposito di cosa ci si può o ci si dovrebbe attendere dai mercati, dalle imprese, dai servizi, compresi ovviamente quelli della formazione, della ricerca e dello stesso dell’orientamento. Quanto relazionale, olistico, etico e sociale è il marketing a cui anche gli Istituti di formazione e le Università fanno ricorso?

Coloro che allestiscono gli stand, oltre a voler attirare l’attenzione degli studenti e degli insegnanti, quanto autenticamente palesano la loro responsabilità sociale invitando i possibili consumatori (gli studenti nel nostro caso) a riflettere e a contrastare le politiche di iperconsumo, a rispettare importanti valori quali quelli della salvaguardia dell’ambiente, della salute, di uno sviluppo effettivamente sostenibile, dell’inclusione, ecc.?

Forse è pretendere troppo che in quelle manifestazioni o nei siti web delle nostre università traspaia nettamente il ricorso a quello che è stato definito marketing 5.0 o, addirittura 6.0, o almeno quello 4.0  che come da tempo hanno indicato Kotler, Kartajaya e Setiawan,  (2016), oltre ad utilizzare i supporti digitali e a mettere in evidenza i cambiamenti che le tecnologie emergenti stavano producendo, è attento sia ai comportamenti dei ‘consumatori’ che alle necessità delle ‘aziende’ e al monitoraggio , tramite persino appositi Blog, video, podcast, e post sui social media, di ciò che accade anche dopo il post vendita (pardon: dopo l’iscrizione a questo o a quel corso di laurea) a proposito, ad esempio, della soddisfazione dei diversi ‘clienti’?

Fortunatamente incominciano ad essere abbastanza numerosi gli orientatori che ritengono opportuno, preparare gli studenti a guardarsi dalle pubblicità ingannevoli alle quali più o meno consapevolmente anche gli Istituti di formazione e le università potrebbero ricorrere presentando le proprie ‘offerte’.

Nel far questo almeno tre momenti, tre fasi dovrebbero essere implementate:

1) Con la prima si potrebbe consentire allo student* di precisare il o i problemi di cui in futuro vorrebbe occuparsi (spesso derivano dall’analisi delle sue preoccupazioni, dall’individuazione di ciò che lo/la fa maggiormente indignare, dalle aspirazioni che si nutrono, ecc.). Come Guichard ricorda (2022) chi fa orientamento dovrebbe occuparsi e preoccuparsi di più di quello sgomento e di quell’inquietudine che Guillebaud (2006) indicava come sempre più presenti e condivisi nelle società contemporanee occidentali e, ci sembra opportuno aggiungere, in fasce giovanili sempre più estese. Per queste ragioni, ed anche per suscitare interesse nei confronti dell’orientamento e del futuro, può essere d’aiuto, anche se ci si propone unicamente di informare, provocare reazioni con quesiti di questo tipo: ‘Ma per voi, quando inizierà il vostro futuro? Se poteste chiedere ad un futurologo, ad uno scienziato che studia ciò che potrà accadere, cosa chiedereste?  O ancora ‘In futuro, in quello che desiderate maggiormente, cosa non vorreste più vedere? Cosa vi piacerebbe studiare e fare (lavorare) per contribuire a far sì che tutto questo si realizzi?

Girando tra gli stand, perché non chiedete: ‘In quale vostro corso di laurea si studia soprattutto ciò che mi sta effettivamente a cuore (come si lottano le disuguaglianze? Come si fa prevenzione a proposito delle malattie più insidiose e delle pandemie? Come si rende attraente lo studio? Come si debella la povertà? Come si prevengono gli incidenti e le morti sul lavoro? Dove sono previsti insegnamenti di economia etica? Di informatica per la tutela della privacy? E dove si dibatte di pace, di solidarietà, di lavoro cooperativistico? In quali corsi di laurea il parere degli studenti viene sistematicamente richiesto e tenuto in considerazione nella progettazione didattica? Le prove di accesso eventualmente presenti, quali saperi privilegiano? Tengono conto degli interessi e delle esperienze maturate dagli studenti? Come viene favorita l’integrazione? Ecc.

2) Dopo la raccolta delle informazioni, si potrebbe suggerire di procedere, con operazioni di confronto al fine restringere le opzioni da considerare in sede di decision making, con la compilazione, di tabelle riassuntive simili a quella qui di seguito riprodotta a titolo meramente esemplificativo. Utili, successivamente,  potrebbero risultare le indicazioni che da tempo hanno suggerito gli studiosi dell’utilità attesa ponderando, per ciascuna opzione vanteggi e svantaggi (Nota, Mann, Soresi e Friedman, 2002; Heppner,1988; Peterson et.al. 1996)...

continua qui

Nessun commento:

Posta un commento