Mai, come in questi ultimi anni, le scuole, e soprattutto quelle secondarie, sono state invase da ‘orientatori’ universitari pronti a presentare le loro ‘offerte’ formative e le loro convinzioni in materia delle competenze necessarie per affrontare il futuro.
Ritenendo
che l’orientamento sia una cosa seria, che abbia un suo corposo spessore scientifico,
importanti paradigmi di riferimento e che debba essere praticato in ossequio
alle norme sancite da precisi Codici deontologici come suggerito dalle più
importanti associazioni internazionali interessate alle tematiche della scelta
e della progettazione professionale (l’IAEVG, la S.V.P, la NCDA e la SIO per
quanto concerne il contesto italiano) con questo scritto invito a non
sottovalutare quanto sta avvenendo in molte scuole ed università dove le
iniziative di orientamento vengono realizzate da colleghi che, improvvisamente,
si ‘offrono’ e ‘dedicano’ ad esso, ritenendo che trattasi, tutto sommato, di
semplice cosa soprattutto per loro che possono vantarsi di possedere lo status
di docenti universitari. Sapendo di non essere il solo a considerare deontologicamente
inaccettabile la modalità con la quale molto spesso viene ‘offerto’
l’orientamento informativo, pur ricordando che l’orientamento non dovrebbe fare
a meno di stimolare ed incrementare il ricorso al pensiero critico, a
quello possibilista, controfattuale e prospettico, mi permetto di segnare che,
come sostengono in molti, c’è marketing e marketing e che, come ha detto
qualcuno, ‘Si può fare marketing rimanendo brave persone’ (Morici, 2014) se si
decide, come dovrebbe fare quello universitario, di ricoprire una funzione
responsabile e generativa, in favore di uno sviluppo sociale sostenibile, del
benessere delle persone aiutandole nella ricerca e nella ‘selezione’ di sensi,
di significati, di progetti per i loro futuri desiderabili guardando con un
certo distacco le ‘offerte’ che da destra a manca elargiscono i mercati,
compresi quelli della formazione e del lavoro.
Può essere
considerato ‘orientamento’ quello che fanno tante università telematiche e
private che sono interessate soprattutto ad attrarre ‘clienti’ e che continuano
a proporre un orientamento alla Parsons (1909) quello che, in ossequio al
binomio domanda-offerta indicava ‘l’uomo giusto al posto giusto’ senza chiare,
ovviamente, quando un posto, un lavoro, una domanda può essere considerata
giusta e dignitosa (una università telematica, ad esempio, invita a
diventare nutrizionista iscrivendosi a Unipegaso: ‘l’università che ti
consente di lavorare e laurearti in pochi mesi’! e AlmaLaurea, che non a
caso è una srl, afferma a chiare lettere che ‘si dedica alla ricerca di
profili in linea con le esigenze aziendali’ e che ‘eroghiamo servizi
per agevolare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro qualificato,
nell’intermediazione, nella ricerca e nella selezione del personale, in
sinergia con gli Atenei e le Istituzioni pubbliche competenti, verso il mondo
del lavoro’, avvalendosi, ovviamente, della consulenza di una schiera di
esperti!) [1].
Tanti professionisti e tante agenzie dicono di fare , anzi di ‘offrire’
orientamento, ma di cosa si tratta? Molto raramente, come segnalano Pitzalis e
Nota (2025) di quello formativo ed in sintonia con i valori della giustizia
sociale e della lotta ad ogni forma di discriminazione. Ma almeno quello meno
pretestuoso, quello meramente informativo, come viene realizzato dai nostri
atenei. Può essere considerato sufficientemente trasparente e dignitoso?
1. ‘Tra il dire e il fare
(orientamento) c’è di mezzo il mare’.
Con questo
detto mi riferisco, in particolare, alla constatazione che molti di coloro che
stanno parlando di orientamento grazie ai finanziamenti del PNRR, pur
dichiarando che il futuro, la formazione e il lavoro sono questioni complesse
che richiedono visioni non semplicistiche e riduttive, si trovano spesso a
presentare le opzioni universitarie in modo settoriale, un corso alla volta,
dimenticando di invitare a tenere presente che sono sempre più urgenti
autentiche interazioni tra settori professionali e disciplinari diversi, forme
di effettiva collaborazione, interdisciplinarietà, multidisciplinarietà e
transdisciplinarietà. La cosa, d’altra parte, non dovrebbe sorprendere più di
tanto in quanto anche nel mondo accademico continuano ad essere molto rari i
contributi di ricerca e le ‘imprese’ di orientamento che prevedono la
compartecipazione di esperti provenienti da ambito di studio diversi. In
effetti nell’orientamento, anche in quello informativo e che va per la
maggiore, anche la semplice multidisciplinarietà, che comporterebbe
la presentazione dei diversi campi di studio e/o ambiti professionali, senza
schieramenti partigiani a favore di questa o quella disciplina, non sempre
viene rispettata, non sempre le diverse discipline e i diversi corsi di laurea
(scientifici vs umanistici; STEM vs STEAM, ad es.) vengono presentati come
ugualmente impegnativi, dignitosi ed importanti per il futuro delle persone,
dell’umanità e del nostro pianeta.
In queste presentazioni
le discipline vengono generalmente presentate una accanto all’altra suggerendo
di fatto che gli sconfinamenti, l’uscire dai limiti, potrebbero danneggiare la
reputazione e il ‘rigore’ di quella disciplina o di quella professione. Ciò che
forse come orientatori dovremmo chiedere è che queste presentazioni, in vivo o
in remoto che siano, avvengano in modo rispettoso della trasparenza ed
utilizzino un tipo di Marketing 5.0 o 6.0 (Kotler, Kartajaya, Setiawan, 2016,
2025) che sono particolarmente sensibili alle questioni etico-sociali
associabili alle operazioni di ‘presentazione e promozione dei prodotti’.
Sarebbe già
un passo in avanti, verso il futuro, chiedere che ad occuparsi della
presentazione delle diverse discipline siano i nostri più giovani ricercatori
e, soprattutto, quelli disposti a farsi interrogare a proposito delle ipotesi e
degli obiettivi che si stanno ponendo con le ‘loro e specifiche ricerche’ in
economia, o in diritto, o in ingegneria, ecc. e quali, fra dieci anni e giù di
lì, si dovranno o sarebbe opportuno che si occupassero, i loro colleghi futuri,
quelli interessati, come lo sono loro oggi, all’ingegneria, all’economia, alla
filosofia, alla matematica, alla fisica, alla salute, ecc. (‘Chi fra 10, 15, 20
anni sarà un ricercatore di ingegneria, economia, biologia ecc. di cosa si
occuperà?).
Oltre ad
essere multidisciplinare, l’attività ‘informativa’ di orientamento potrebbe
essere anche interdisciplinare: a differenza di quanto sopra, in
questo caso si dovrebbero segnalare soprattutto i vantaggi derivanti
dall’integrazione di due o più ‘saperi e visioni’, ugualmente interessanti ed
importanti, in funzione di uno scopo o di un obiettivo, pur muovendosi da
diverse angolazioni e punti di vista. Qui, oltre al costituirsi di collegamenti
ed interazioni stabili tra ricercatori e campi di studio, verrebbe privilegiato
un fare ricerca assieme a colleghi che posseggono modalità di
analisi e riflessione non facilmente sovrapponibili. Optando per
l’interdisciplinarietà, la presentazione delle offerte formative risulterebbe
probabilmente maggiormente convincente se, a farla, saranno direttamente gli
attori che stanno ponendo in essere in modo congiunto conoscenze e metodologie
tradizionalmente appartenenti a discipline diverse (ad esempio, progetti che
richiedono competenze di biologia ed informatica per sviluppare software di
tipo medico, o di psicologia e neurologia, di scienze naturalistiche ed
urbanistiche, etiche ed economiche, giuridiche e filosofiche, ecc.). Anche in
queto caso, purtroppo, viene spontaneo domandarci se e quanto, in materia di
orientamento, pur parlando di interdisciplinarietà, sono disponibili
pubblicazioni scientifiche firmate da ricercator* afferenti a raggruppamenti
SSD diversi, quanti progetti di ricerca a proposito delle dimensioni e delle
variabili implicate nei processi di scelta, sono effettivamente
interdisciplinari, di quante ‘co-presenze’ si avvalgono i nostri usuali
open day e i materiali che vengono ‘gratuitamente’ distribuiti in quei
contesti.
L’orientamento
che guarda effettivamente al futuro, ad ‘oriente’, verso la luce e il sorgere
del sole, afferma che non è sufficiente chiedere a due ricercatori impegnati in
discipline diverse di lavorare ed ‘esplorare assieme’: sembra dirci che è
sempre meno rinviabile la formalizzazione, anche all’interno dei nostri atenei
e dei nostri servi, la presenza e la ‘stabilizzazione’ ‘di gruppi marcatamente
eterogenei di ricerca’ che vedono lavorare assieme filosofi, matematici,
economisti, architetti, giuristi, ingegneri, medici, psicologi, ecc.,
accumunati dal desiderio di collaborare per intraprendere assieme e farsi
carico di ‘imprese quasi impossibili’ come quelle che appartengono alla schiera
dei cosiddetti wiked problem (Rittel e Webber, 1973; Soresi, 2022; Gray et al.
2023) e quelle associabili alla lotta al lavoro indecente e ad ogni forma di
disuguaglianza e discriminazione. Questi gruppi potrebbero essere
considerati transdisciplinari in quanto, andando oltre le
discipline tradizionali e sconfinando sistematicamente, cercano di risolvere
problemi complessi con approcci che potrebbero essere ritenuti addirittura
‘deliranti’[2],
globali ed inclusivi. Sarebbe bello, in un programma di orientamento anche
informativo, che alle presentazioni dei diversi corsi di laurea, venissero
fatti seguire da dibattiti e lavori di gruppo a proposito, ad esempio, del
contributo che la filosofia, la matematica, l’urbanistica la medicina ecc.
potrebbero fornire al ridimensionamento di problemi difficili e complessi, come
quelli della competizione eccessiva che conduce a pochi vincenti e a molti
perdenti, a conflitti più che ad armoniche collaborazioni, o a non occuparci
sufficiente di quei 17 obiettivi che l’ONU, da tempo, ha indicato alle nazioni
di tutto il pianeta.
I progetti e
programmi tranas-disciplinari di orientamento, come quelli che in altre
occasioni abbiamo presentato come 5.0 (Soresi, 2023; Soresi e Nota, 2023;
Pitzalis e Nota, 2025) si caratterizzano per la presenza di linguaggi
diversi, di quelli propri dell’economia, della sociologia, delle scienze
ambientali, di questa o quella disciplina hard o soft, ecc. al fine di aiutare
gli studenti, ma non solo, a sviluppare visioni olistiche delle possibili e
future carriere, ad immaginare ‘scenari attraenti’ anche a coloro che hanno
appreso soprattutto, e a loro spese, a diffidare e a praticare quell’impotenza
appresa di cui da tempo ci hanno parlato tanti giganti dell’apprendimento e
dell’orientamento.
La
prospettiva ‘metodologica’ che a proposito delle collaborazioni di cui
necessita il mondo della ricerca e quello dell’intervento sociale e che attira
maggiormente le simpatie dell’orientamento 5.0 è però quello dell’intersezionalità che, come
noto, trova le sue origini nella storia femminista e antirazzista e che
consente di evidenziare le relazioni esistenti tra i diversi fattori di
discriminazione e le modalità di fatto in atto nella gestione più o meno partecipata
dei diversi processi decisionali. Come ricorda Manfroni (2024)
l’intersezionalità ci invita a ritenere ‘che ogni persona non può
essere definita da una sola categoria identitaria e, di conseguenza, può essere
oppressa o godere di privilegi per ragioni diverse’ (p. 1). Non sarebbe
pertanto una modalità ‘intersezionista’ procedere, come ci ha abituato a fare
anche tanta psicologia del lavoro e delle organizzazioni, l’individuazione di
tipologie da utilizzare per poter disporre di profili, classifiche,
diagnosi, valutazioni, consigli, dimenticando, volutamente o non, che ogni
situazione, ogni persona, ogni gruppo, ogni evento, ogni problema è diverso,
singolare, e, questo, anche a proposito delle loro vulnerabilità e fragilità
possibili. ‘Farne di tutto un fascio’, o tanti fasci, sulla base di
distribuzioni statistiche più o meno accurate, senza tener di conto dei diversi
livelli e delle diverse categorie di oppressione dalle quali potrebbero
risultare colpiti i diversi ‘partecipanti’ ai campioni di standardizzazione dei
nostri strumenti, è, come minimo, riduttivo e superficiale in quando nasconde
l’eterogeneità delle necessità, dei bisogni, delle preoccupazioni e delle
aspirazioni delle persone.
2. Anche l’orientamento universitario
ricorre alla pubblicità ingannevole?
Chi si
rivolge all’orientamento va in cerca, molto spesso, di ‘chiarezza’, di aiuto,
di ‘neutralità’, in quanto sono sovente consapevoli che possono essere
bersaglio di imprese ed agenzie che, pur di rimanere competitive, non
disdegnano di ricorrere a pubblicità ingannevoli, a fome di marketing[3] tutt’altro
che trasparenti, etiche, ad ‘avvertimenti’ e messa in guardia, (ad advertising, come
direbbero gli inglesi) o ad altisonanti richiami (réclame, come
dicono i francesi) incrementando sovente perplessità, incertezze,
paure e titubanze nei confronti del futuro (Re e Mosca, 2007).
Con questo
non auspico la messa al bando toutcourt del Marketing (anche le buone idee, le
innovazioni, i valori, l’idea di giustizia, il rifiuto delle disuguaglianze, la
pace e lo stesso orientamento 5.0, debbono essere adeguatamente proposte e
‘propagandate’!), ma si ritiene importante insegnare, a chi partecipa alle
nostre sessioni di orientamento, a non prendere per oro colato tutto ciò che
viene esposto nelle fiere dell’orientamento o enfatizzato nei diversi siti web.
In altre
parole, mi piacerebbe molto che, anche nell’ambito dell’orientamento
informativo, non ci si limitasse a fornire risposte, ma si ponessero anche
domande, dubbi, possibilità diverse, interrogativi a proposito di cosa ci si
può o ci si dovrebbe attendere dai mercati, dalle imprese, dai servizi,
compresi ovviamente quelli della formazione, della ricerca e dello stesso
dell’orientamento. Quanto relazionale, olistico, etico e sociale è il marketing
a cui anche gli Istituti di formazione e le Università fanno ricorso?
Coloro che
allestiscono gli stand, oltre a voler attirare l’attenzione degli studenti e
degli insegnanti, quanto autenticamente palesano la loro responsabilità sociale
invitando i possibili consumatori (gli studenti nel nostro caso) a riflettere e
a contrastare le politiche di iperconsumo, a rispettare importanti valori quali
quelli della salvaguardia dell’ambiente, della salute, di uno sviluppo
effettivamente sostenibile, dell’inclusione, ecc.?
Forse è
pretendere troppo che in quelle manifestazioni o nei siti web delle nostre
università traspaia nettamente il ricorso a quello che è stato definito
marketing 5.0 o, addirittura 6.0, o almeno quello 4.0 che come da tempo
hanno indicato Kotler, Kartajaya e Setiawan, (2016), oltre ad utilizzare
i supporti digitali e a mettere in evidenza i cambiamenti che le tecnologie
emergenti stavano producendo, è attento sia ai comportamenti dei ‘consumatori’
che alle necessità delle ‘aziende’ e al monitoraggio , tramite persino appositi
Blog, video, podcast, e post sui social media, di ciò che accade anche dopo il
post vendita (pardon: dopo l’iscrizione a questo o a quel corso di laurea) a
proposito, ad esempio, della soddisfazione dei diversi ‘clienti’?
Fortunatamente
incominciano ad essere abbastanza numerosi gli orientatori che ritengono
opportuno, preparare gli studenti a guardarsi dalle pubblicità ingannevoli alle
quali più o meno consapevolmente anche gli Istituti di formazione e le
università potrebbero ricorrere presentando le proprie ‘offerte’.
Nel far
questo almeno tre momenti, tre fasi dovrebbero essere implementate:
1) Con la
prima si potrebbe consentire allo student* di precisare il o i problemi di cui
in futuro vorrebbe occuparsi (spesso derivano dall’analisi delle sue
preoccupazioni, dall’individuazione di ciò che lo/la fa maggiormente indignare,
dalle aspirazioni che si nutrono, ecc.). Come Guichard ricorda (2022) chi fa
orientamento dovrebbe occuparsi e preoccuparsi di più di quello sgomento e
di quell’inquietudine che Guillebaud (2006) indicava come sempre
più presenti e condivisi nelle società contemporanee occidentali e, ci sembra
opportuno aggiungere, in fasce giovanili sempre più estese. Per queste ragioni,
ed anche per suscitare interesse nei confronti dell’orientamento e del futuro,
può essere d’aiuto, anche se ci si propone unicamente di informare, provocare
reazioni con quesiti di questo tipo: ‘Ma per voi, quando inizierà il vostro
futuro? Se poteste chiedere ad un futurologo, ad uno scienziato che studia ciò
che potrà accadere, cosa chiedereste? O ancora ‘In futuro, in quello che
desiderate maggiormente, cosa non vorreste più vedere? Cosa vi piacerebbe
studiare e fare (lavorare) per contribuire a far sì che tutto questo si
realizzi?
Girando tra
gli stand, perché non chiedete: ‘In quale vostro corso di laurea si studia
soprattutto ciò che mi sta effettivamente a cuore (come si lottano le
disuguaglianze? Come si fa prevenzione a proposito delle malattie più insidiose
e delle pandemie? Come si rende attraente lo studio? Come si debella la
povertà? Come si prevengono gli incidenti e le morti sul lavoro? Dove sono
previsti insegnamenti di economia etica? Di informatica per la tutela della
privacy? E dove si dibatte di pace, di solidarietà, di lavoro cooperativistico?
In quali corsi di laurea il parere degli studenti viene sistematicamente
richiesto e tenuto in considerazione nella progettazione didattica? Le prove di
accesso eventualmente presenti, quali saperi privilegiano? Tengono conto degli
interessi e delle esperienze maturate dagli studenti? Come viene favorita
l’integrazione? Ecc.
2) Dopo la raccolta delle informazioni, si potrebbe suggerire di procedere, con operazioni di confronto al fine restringere le opzioni da considerare in sede di decision making, con la compilazione, di tabelle riassuntive simili a quella qui di seguito riprodotta a titolo meramente esemplificativo. Utili, successivamente, potrebbero risultare le indicazioni che da tempo hanno suggerito gli studiosi dell’utilità attesa ponderando, per ciascuna opzione vanteggi e svantaggi (Nota, Mann, Soresi e Friedman, 2002; Heppner,1988; Peterson et.al. 1996)...
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